Decades of Aggression: autunno 2024 – parte 2

Il 17/02/2025, di .

In: , .

Decades of Aggression: autunno 2024 – parte 2

Niente, non c’è niente da fare. Il 2025 è arrivato e in un soffio ha spazzato via le ricorrenze dell’anno più amato dai nostalgici della grande stagione targata California Jam, di quello più amato dai reconditi recessi della mente orwelliana e di quello in cui il sogno del grunge morì in una fredda casa di Aberdeen. E così via. Eccoci dunque stoicamente a fare il punto della situazione per un autunno caldissimo, quello che ha visto quarantennali e trentennali a profusione (più qualcosa di più… giovane), dalla qualità indiscussa esattamente come i cinquantennali precedentemente enumerati. Allacciate le cinture della DeLorean, gente…

1984
Il 15 ottobre i Manowar bissavano le proprie release in un anno eccezionale che li aveva visti protagonisti con il dirompente ‘Hail To England’ e che qui li vedeva in una veste lievemente più “intimista”, ma sempre amatissima dai fan, che non mancano di citare ‘Guyana’ e ‘Mountains’ tra le deep cuts più preziose del quartetto di Auburn. Restando in tema di epicità a stelle e strisce, come non citare il mastodontico ‘And the Cannons of Destruction Have Begun…’, primissimo full length dei seminali Warlord, realizzato in un floydiano live-senza-il-pubblico e pubblicato anche in VHS? Se non conoscete il compianto Bill Tsamis, vero e proprio artigiano della sei corde, è ora di rimediare – iniziando proprio da qui. Arriva il 19 del mese e puntuale suona il registratore di cassa della Atlantic, che decide di monetizzare sugli AC/DC anche in un anno di relativa inattività della band – nonostante il fatto che, considerando la cadenza annuale fino ad allora tenuta dai fratelli Young, non ci si poteva di certo lagnare, ai piani alti della label! Ecco dunque uscire ’74 Jailbreak EP’, che conteneva ben cinque pezzi ben noti ai fan australiani, un po’ meno a quelli del resto del mondo, almeno fino ad allora: su tutti la title-track, il cui video promozionale ci restituiva ancora una volta il ghigno beffardo del sommo Bon Scott, affiancato da un Angus più imberbe che mai…

Eh, come giri giri a spasso per i decenni ti ritrovi davanti i Deep Purple, c’è poco da fare. Il 29 ottobre del 1984 è la data di uscita di uno dei comeback più attesi dell’epoca, ‘Perfect Strangers’, un album che da solo valse il prezzo di tutte le speranze degli aficionados nonché il lavoro certosino per ricomporre le profonde differenze tra i cinque che avevano animato la formazione Mark 2 del gruppo britannico. Un’alchimia preziosissima ma labile, che avrebbe mostrato la buccia di lì a poco ma che ancora una volta ci regalava un disco da incorniciare, zeppo di nuovi classici – a partire da ‘Knocking at your Back Door’ – e con i duelli Blackmore/Lord più affilati che mai. Quel mese era anche l’uscita di ‘Gates to Purgatory’, bel debutto dei Running Wild su coordinate ancora distanti dal pirate metal a cui ci avrebbero abituati successivamente, e soprattutto dell’omonimo della creatura di Quorthon, al secolo Thomas Börje Forsberg, i Bathory. Responsabile da solo dell’ascesa di ben due generi, il black di matrice scandinava e successivamente il viking metal che avrebbe infiammato tanti cuori nei decenni a venire, il Nostro firmava con l’omonimo debut una vera e propria dichiarazione di intenti, affermando a più non posso di non aver mai ascoltato i Venom, eppure condividendone un approccio antitetico alle atmosfere platinate di cui si imbeveva il decennio. Una release mitologica, a partire dalla copertina spartana, bicolore e impreziosita (per i collezionisti) da un giallo a metà tra la pietra filosofale e l’Uni Posca. E concedetemi un’altra digressione dal mondo platinato degli anni ’80 in musica per segnalare che l’ottobre del 1984 fu anche il mese in cui gli aostani Kina registravano il loro seminale debutto ‘Irreale Realtà’. Un album dall’importanza incalcolabile per l’etica del D.I.Y. dell’HC italiano (e non solo dell’HC), composto sia da tracce in studio che da tracce dal vivo, a testimoniare l’urgenza di farsi sentire, anche attraverso l’autoproduzione per la mitica etichetta Blu Bus, che diventerà progressivamente il simbolo di un movimento vitale e pulsante che non dovrebbe mai cadere nell’oblio. All’epoca li chiamarono “gli Hüsker Dü delle montagne” anche se, in un curioso parallelo tra i Bathory e i Kina, questi ultimi dichiararono di non aver mai ascoltato il trio del Minnesota prima di dare vita alla band. Concludo: se siete affezionati lettori di questa rubrica, i Kina non vi saranno del tutto sconosciuti, e in ogni caso siete ancora in tempo a riscoprire questa gemma, a partire dalla copertina geniale e sin troppo realistica.

Siamo a novembre, per un’altra manciata di release datate 1984: il 16 è il giorno dell’uscita del disco che è anche la copertina di quest’articolo, ‘Live Undead’. Come dire, parliamo di un’epoca in cui anche le release più controverse, gli extended play per loro natura meno influenti di un full length, i cosiddetti “finti live” (dal vivo è dal vivo, c’è solo un “piccolo” rimaneggiamento sulla quantità di pubblico) avevano il loro peso sull’immaginario. Non è solo per l’iconica copertina o per le geniali massime di Tom Araya tra un pezzo e l’altro: è che qui gli Slayer fanno gli Slayer sul serio, allontanandosi progressivamente dalle esalazioni infernali a metà tra NWOBHM e Venom che avevano interessato il debut ‘Show No Mercy’ ed entrando in un girone del tutto personale, fatto di velocità, aggressività e mito assoluto. “They say the pen is mightier than the sword, then I say fuck the pen, ‘cause you can DIE by the sword”! Impossibile non amarli, anche a fronte di uno scenario musicale che di certo non peccava in varietà e offerta (caspita, che tempi!): il 19 del mese venne infatti fuori ‘Thunder Seven’ dei Triumph, a parer mio il più bello di tutta la discografia del trio canadese diretto erede dei Rush e guidato dai fenomenali Rik Emmett e Gil Moore, a partire dalle anthemiche ‘Spellbound’ e ‘Rock Out, Roll On’ fino alla conclusiva e bellissima ‘Little Boy Blues’, passando per un lotto di piccoli e grandi capolavori in una tracklist senza precedenti. Ma l’importanza concentrata in un mese così cruciale non finisce qui: siamo in Svizzera e i due pionieri al timone della creatura Hellhammer danno vita ai Celtic Frost, che debuttano proprio in questo periodo con il mini-LP ‘Morbid Tales’ (poi assurto a rango di full length). Il mondo dell’extreme metal non sarà più lo stesso, dopo che il riecheggiare di ‘Into the Crypts of Rays’, ‘Dethroned Emperor’ e ‘Procreation (Of the Wicked)’ avrà superato le secche dei critici per raggiungere le menti creafive di quanti considerano da sempre la creatura di Tom G. Warrior e Martin Eric Ain tra le più geniali ad aver solcato questo mondo musicale. Fa in questo senso strano accostare a una simile release il successivo debutto omonimo dei Metal Church, ma per gli onnivori fruitori di ora e di allora non era un problema passare da una declinazione sonora all’altra, complice un album che tuttora è uno dei manifesti dello US Metal con pezzi come ‘Beyond the Black’, ‘Metal Church’, ‘Gods of Wrath’ e un’ardita cover di ‘Highway Star’ (devo proprio dire di chi è?). Qualcuno dirà che siamo ai confini con il thrash, complice il lungo sodalizio con i Metallica, ma è proprio quello il segreto di certo power americano…

1994 e oltre
Il nostro viaggio si avvicina alla fine, eppure diventa sempre più vertiginoso: tuttavia, il propellente di questa carrellata sono gli album, sempre più incredibili man mano che si scorrono gli annali. Il 1994 non fa eccezione, tanto che il 4 ottobre di quell’anno vennero fuori ben tre album di un certo peso: ‘Danzig 4’ dell’omonimo e corpulento singer, ultimo album della formazione “classica” dei Danzig (con John Christ alla sei corde) denso ancora una volta di quelle atmosfere da Elvis Nero a cui eravamo abituati, il primo capitolo del tributo ai Black Sabbath ‘Nativity in Black’, una release che avrebbe inaugurato una grande stagione di dischi tributo e che avrebbe contribuito alla riscoperta del Mito del Sabba Nero, nonché ‘Awake’ dei Dream Theater, ultimo album con Kevin Moore, considerato da vari fan come il picco più alto toccato dal quintetto di Long Island, anche a dispetto di pesi massimi del calibro di ‘Images and Words’ e ‘Metropolis pt. 2: Scenes from a Memory’. Il motivo? La pesantezza di composizioni come ‘The Mirror’ e ‘Lie’, la passione selvaggia per le trame articolate sin dall’opener ‘6:00’ e quell’ultimo lascito di Moore che risponde al nome di ‘Space-Dye Vest’. Valga per tutti l’adagio pubblicitario di Italia 1 dell’epoca (sì, è vero: i dischi HM venivano pubblicizzati in TV e chissà se qualcuno caricherà mai sul Tubo quella réclame): “se nessuno suona come i Dream Theater, significa che nessuno sa suonare come loro”. L’avrà mica scritta Mike Portnoy? Tre giorni più avanti e sarebbe uscita la ristampa della primissima registrazione dei Cathedral, l’oppressiva ‘In memorium’ (qui con lo strafalcione in latino di ‘In Memoriam’ opportunamente corretto) nonché il mitico EP ‘The Trooper’ dei Sentenced, allora punto di riferimento per chi vedeva nella scena scandinava un’eredità che prendeva a piene mani anche (appunto) dagli Iron Maiden. La mia inclinazione per l’HC la conoscete tutti, e dunque è impossibile non citare ‘Scratch the Surface’ dei Sick Of It All, la loro release più nota (nonché più bella, tra la title track e ‘Step Down’ c’è di che scialarsi!), fino ad arrivare al giorno 25, che per chi usa il Calendario Giuliano ha un’importanza storica stratosferica ma che per noi non è certo da sottovalutare, avendoci regalato lo sperimentale e sempre più brutale ‘Need to Control’ dei Brutal Truth, la prima incursione di Dio nel modernismo dopo lo split con i Black Sabbath, quello ‘Strange Highways’ che è figlio di ‘Dehumanizer’ e “gemello diverso” di ‘Cross Purposes’, complice anche lo stile amato/odiato di Tracy G alla sei corde, nonché ‘Time’ dei Mercyful Fate, il secondo album della reunion che vedrà ancora una volta un cambio di formazione (fuori il compianto Timi Hansen, dentro Sharlee D’Angelo che poi diverrà il motore bassistico dei futuri Arch Enemy): se titoli come ‘Nightmare Be Thy Name’, ‘Angel of Light’ o ‘The Mad Arab’ vi ricordano quelle atmosfere che non speravamo più di risentire in quegli anni, è proprio il momento di rimetterlo su! E che dire di ‘Witches’ Dance’? A proposito, vi dicono niente The Almighty? Parliamo della loro “ora” di maggior successo, dopo i tour con i conterranei Maiden: l’uscita di ‘Crank’, quarto album impreziosito dai singoli ‘Wrench’ e ‘Jonestown Mind’, quest’ultimo con la partecipazione di Andy Cairns dei Therapy? Il mese si chiude – neanche a dirlo – con i Deep Purple, che in corrispondenza di Halloween pubblicano l’ultimo atto di Ritchie Blackmore con la band che aveva contribuito a formare, il controverso ‘Come Hell or High Water’, un titolo che possiamo interpretare come “cascasse il mondo, questo concerto dobbiamo portarlo a conclusione, con o senza Ritchie al timone”. Il che è evidentissimo dall’attacco dell’iniziale ‘Highway Star’: Blackmore non c’è, entra sul palco quando gli pare, litiga con il cameraman, piazza un assolo di quelli che fa quando è svogliato, sottolinea una convivenza ormai impossibile con i quasi ex compari. Del resto, al momento della pubblicazione in formazione era già passato il salvatore Joe Satriani, e i porporati si apprestavano a lanciare una longeva collaborazione con l’ex Dixie Dregs Steve Morse. Una scaletta per il resto interessante, con l’inclusione della chicca ‘Anyone’s Daughter’ e una curiosità per i più attenti: l’accenno al riff portante di ‘Burn’, ultima beffa del Man In Black prima del suo addio definitivo alla corte del Profondo Viola.

A proposito di dischi postumi, novembre si apre con un’altra release di peso, stavolta un album che è decisamente nel cuore dei tanti appassionati dei Nirvana in giro per il mondo. Parliamo di ‘MTV Unplugged in New York’, la fotografia di un concerto tenuto circa un anno prima per la serie di live acustici della nota emittente americana. Si tratta di un set davvero poco convenzionale, dato che Kurt e soci portarono con sé un po’ di ospiti sconosciuti ai più (Meat Puppets su tutti), con una scaletta che all’epoca lasciò perplessi gli organizzatori ma che oggi è stampata nella memoria collettiva. Eccezione che conferma la regola, la cover di David Bowie ‘The Man Who Sold The World’, una mossa che ha decisamente contribuito a far conoscere il Duca Bianco alle nuove generazioni di allora. Un live acustico che contende il podio con la coeva release degli Alice In Chains, con cui ha anche in comune il fatto di essere il canto del cigno dei rispettivi, sfortunati singers. Stesso giorno, coordinate musicali diverse (anche se MegaDave ebbe occasione di tornare sull’argomento a modo suo, proprio alla TV italiana…), altro album chiave del periodo: parliamo di ‘Youthanasia’ dei Megadeth, uno dei tanti “pomi della discordia” della carriera di Mustaine e soci. Sinceramente, in questo caso le chiacchiere stanno a zero, perché si tratta di un lavoro dalla pregevole fattura che forse ha come unico difetto il fatto di venire dopo il pluriplatinato ‘Countdown to Extinction’. E poi, lasciatemelo dire: si tratta del primo album dei Megadeth che ho davvero “atteso”, avendoli conosciuti proprio con l’illustre predecessore, e le speranze non furono deluse, anzi. Tra ‘Reckoning Day’, ‘Addicted to Chaos’, ‘Killing Road’ c’era davvero da leccarsi i baffi, al netto del thrash metal degli esordi che era sempre più contaminato da suggestioni più “leggere”. Al netto dell’esperimento di ‘Victory’, sospesa a metà tra il frullato dei testi storici della band e la citazione agli immancabili Diamond Head di ‘The Prince’. E al netto della ballatona ‘A tout le monde’, a suo modo anch’essa segno dei tempi, un po’ come il video del singolo ‘Train of Consequences’ mandato subito dopo Headbangers Ball, a testimonianza di un periodo davvero florido per certe sonorità.
Restando al 1994, meritano una citazione particolare anche due album che non sono metal ma che in molti di noi abbiamo a casa: ‘Spirito’ dei Litfiba e ‘Vitalogy’ dei Pearl Jam. Il primo noto per essere il terzo capitolo della Tetralogia degli Elementi, vede i nostri in una veste ora più acustica e intimista, ora più smaccatamente grunge dopo le bordate sonore di ‘Terremoto’, complice la produzione di Rick Parashar, noto per aver lavorato con Temple of the Dog, Pearl Jam e Alice in Chains. Il wah wah arrotonda ancor più le melodie di Ghigo Renzulli, che cita a un tempo i Quicksilver Messenger Service e i Black Sabbath su ‘Suona fratello’, uno dei tanti momenti poliedrici di un album che rappresenta probabilmente l’ultimo capitolo di un certo livello della discografia della band fiorentina. Stesso status “di frontiera” è spesso conferito al succitato terzo disco dei Pearl Jam, ma è ovviamente una definizione sin troppo estremista e lontana dal sentire dei veri fan di Vedder e soci; resta il fatto che ‘Vitalogy’ contiene alcuni tra gli ultimo classici universalmente riconosciuti della band, tra cui ‘Spin the Black Circle’, ‘Corduroy’ e ‘Immortality’. Mica pizza e fichi, insomma.

Bene, tocca due ragazzotti che qui compiono rispettivamente venti e dieci anni. Il primo è ‘Dead Eyes See No Future’, EP di lusso degli Arch Enemy di epoca Angela Gossow che qui vedeva un po’ di estratti live (tra cui la mastodontica ‘Burning Angel’), ma a fare il botto sono le tre cover incluse: se ‘Symphony of Destruction’ dei Megadeth è obiettivamente una tamarrata fine a se stessa, ‘Kill With Power’ dei Manowar rende omaggio alla grandeur dell’originale con una Gossow che sembra davvero digrignare i denti, mentre ‘Incarnated Solvent Abuse’ rende il giusto omaggio ai Carcass e al primo disco che aveva visto proprio la partecipazione di Michael Amott. A compiere dieci anni è invece un altro EP, ‘All I Want’ degli Avatarium: incastonato tra il debut omonimo e ‘The Girl with the Raven Mask’, questo dischetto presenta due di inediti in studio tra cui la title track e tre estratti live di pezzi del primo album. Tra questi spicca ‘Tides of Telepathy’ con un Marcus Jidell sugli scudi, pronto com’è a citare la versione hendrixiana di ‘All Along the Watchtower’, collocandosi come uno dei chitarristi più interessanti degli ultimi anni. Ma questo, è il caso di dirlo, lo sapevamo già…