Fed Venditti (Artificial Heaven, Venus in Vegas, ex-Witches Of Doom…) – I miei 10 dischi fondamentali
Il 28/11/2024, di Francesco Faniello.
In: Hammer Chart.
Ospite questo mese della rubrica Hammer Chart è uno di quei nomi che i frequentatori dell’underground romano conoscono bene. Federico Venditti è stato infatti l’anima degli alternative metallers dal cuore oscuro Witches Of Doom, prima di approfondire ulteriormente il lato dark/goth del rock con gli Artificial Heaven per poi sparigliare completamente le carte con i nuovissimi Venus in Vegas. È poi autore dei romanzi ’19 – Un tram chiamato nostalgia’ e ‘Hotel Paranoia’, oltre a collaborare con diverse riviste del settore hard’n’heavy, sia online che cartacee.
AC/DC – ‘Highway To Hell’ (1979)
Il canto del cigno di Bon Scott con gli AC/DC è universalmente riconosciuto come il picco creativo del quintetto australiano, assieme ovviamente al multiplatinato successore ‘Back in Black’. Tra i chitarristi che non mancano di inserirlo tra i propri preferiti figura infatti gente come Zakk Wylde e Jerry Cantrell, tanto per dire. E comunque, chi dice che gli AC/DC hanno fatto dischi tutti uguali non ha mai ascoltato davvero questo capolavoro assoluto, dominato dalla chitarra di Angus, da una sezione ritmica che non ha mai lasciato prigionieri e soprattutto dalla poetica di uno dei grandi cantori del rock…
Type O Negative – ‘Bloody Kisses’ (1993)
Si tratta probabilmente del capolavoro del compianto quartetto di Brooklin, “scettro” condiviso nei cuori dei fan con il successivo ‘October Rust’. ‘Bloody Kisses’ ha in ogni caso il pregio di portare a compimento le tre componenti fondamentali del sound creato dal visionario Peter Steele: l’amore per la pesantezza dei Black Sabbath, per la melodia dei Beatles e per l’irruenza dell’HC newyorkese testimoniata dai suoi trascorsi con i Carnivore, una caratteristica che si perderà nel capitolo successivo della discogradia della band. Un album che ha il sapore di un caleidoscopio, trascinato sì dai due singoli ‘Christian Woman’ e ‘Black No. 1’ ma anche da un eccezionale lotto di tracce all’interno delle quali convivono in maniera incredibile hit potenziali, furia iconoclasta e un’attitudine scomoda che però è un tratto distintivo irrinunciabile dei Type O Negative. Un esempio per tutti? ‘We Hate Everyone’, ovviamente.
The Cult – ‘Electric’ (1987)
Attenzione, a prima vista i Cult qui erano gli stessi di sempre: l’etichetta è la Beggars Banquet, la line up è la stessa di ‘Love’ salvo il batterista, che però è sempre stato il membro meno stabile del gruppo. Eppure, la produzione è affidata a un certo Rick Rubin, ed è qui che cambia tutto. In un processo simile a quello che seguiranno i nostri Litfiba poco dopo, Atsbury e Duffy sembrano qui aver scoperto Led Zeppelin e AC/DC, ammantando il loro sound oscuro di bordate hard rock provenienti direttamente dai gloriosi anni ’70 e con quella puzza di benzina che rende il tutto ancora più “americano” degli originali. Se ‘Wild Flower’, ‘Lil’ Devil’ e ‘Love Removal Machine’ sono i singoli trascinanti che entrano direttamente nel cuore dei nuovi fan, è la loro versione di ‘Born to be Wild’ a marchiare a fuoco un rapporto con il passato che viene qui aggiornato, modernizzato e frullato a favore di un pubblico sempre più ricettivo nei confronti di determinate sonorità. Siamo nel pieno della seconda metà degli anni ’80, e la carta è quella vincente.
Paradise Lost – ‘Icon’ (1993)
Al netto delle critiche ricevute all’epoca da parte dei puristi, se conosciamo i Paradise Lost è anche grazie a questo disco, che li proiettò nel mainstream pur senza snaturare una natura sognante e non convenzionale che li avrebbe accompagnati anche oltre, portandoli a sfondare limiti ritenuti invalicabili, specie se vieni dal West Yorkshire britannico, hai un nome ispirato a John Milton e scegli di fare death metal contaminato dal doom, o viceversa. Il termine gothic ha un significato particolare per i Nostri, essendo incidentalmente il nome del loro secondo disco, e con brani del calibro di ‘Embers Fire’ lo avrà di lì a poco per una schiera sempre maggiore di seguaci, preparando la strada all’esplosione definitiva di ‘Draconian Times’. “Definitiva”, poi, è una parola grossa per Holmes e Mackintosh, come testimonieranno tutte le loro mosse successive.
Monster Magnet – ‘Dopes To Infinity’ (1995)
L’idea di Dave Wyndorf che fluttua nello spazio nel video di ‘Negasonic Teenage Warhead’ doveva sembrare piuttosto stramba ai telespettatori di Headbangers Ball, all’epoca, ma se non altro conferì un’aurea di familiarità all’analoga scena che vedeva Jeff Bridges fluttuare attorniato da birilli e altre amenità nell’arcinoto ‘Il Grande Lebowski’ uscito tre anni dopo. Scherzi a parte, ‘Dopes To Infinity’ è probabilmente la quadratura del cerchio per gli alfieri del nuovo stoner americano Monster Magnet, pronti a contendersi lo scettro del genere con il fresco scioglimento dei Kyuss, anche se furono i Queens of the Stone Age a capiralizzare meglio di tutti l’eredità pesante proveniente dalla Coachella Valley. Parliamo in ogni caso di un disco che è esemplare nella storia della diffusione della psichedelia heavy sull’altra sponda degli Stati Uniti, e che è stato rivisitato in tempi più recenti con il “Dopes To Infinity 2011: The European Tour” portato dai Monster Magnet nelle venues del Vecchio Continente.
Black Sabbath – ‘Black Sabbath’ (1970)
Eh, qui le parole non sono tante. Se l’Omega dell’heavy metal non è stato ancora scritto, se è vero che con il prefisso “proto-” sono state glorificate realtà che avrebbero meritato maggior fortuna all’epoca, se è vero che i Judas Priest hanno codificato l’HM e gli Iron Maiden ne hanno rappresentato il nuovo inizio che resiste ancora nel cuore dei fan, sono i Black Sabbath ad aver inventato tutto. Con le loro atmosfere plumbee, con il loro swing al limite del jazz guidato dalla sezione ritmica Butler/Ward che è una forza della natura, con le visioni di Butler attraverso la voce di Osbourne che rappresenta in sé il motivo per cui non sono le lezioni di canto o di strumento a costruire la personalità, e con l’apporto di colui per il quale è stato forgiato il concetto stesso di riffmaster: Mr. Tony Iommi. Che sia alle prese con il tritono della title-track, con gli assoli torrenziali di ‘N.I.B.’ o di ‘Warning’, o che ci delizi con gli arpeggi di ‘Sleeping Village’, è da qui che è nato tutto. Punto.
Slayer – ‘South Of Heaven’ (1988)
I die-hard fan degli Slayer di allora probabilmente pensavano che, tornato Lombardo all’ovile dopo la breve parentesi con Scaglione dietro le pelli, i quattro di Huntington Park avrebbero dato vita a una sorta di versione americana di ‘Scum’ o di ‘World Downfall’ ante litteram, creando l’hyper thrash (?) o magari suonando con la stessa velocità in cui i videogiochi sparavano le loro colonne sonore. Niente di tutto questo, ovviamente: come lo stesso Lee Dorrian avrebbe intuito da lì a poco, dopo che hai premuto sull’acceleratore come era successo con ‘Reign in Blood’ l’unica soluzione è rallentare, appesantire, aprire i baratri più sulfurei e onorare un titolo che gira intorno allo stesso concetto espresso due album prima. Se la maggioranza guarda a ‘Reign in Blood’ come al capolavoro assoluto, non sono in pochi a inneggiare a ‘South Of Heaven’, con le sue composizioni che esaltano ancora di più l’innovativo drumming di Dave Lombardo e con le splendide intuizioni compositive di Jeff Hanneman : la title track, ‘Live Undead’, ‘Behind the Crooked Cross’, ‘Silent Scream’ (assieme a King) e ‘Spill the Blood’, che ha il merito di sdoganare gli arpeggi di chitarra pulita su un disco degli Slayer. Per non parlare della loro versione di ‘Dissident Aggressor’ dei Judas Priest, che personalmente ho ascoltato vari anni prima di scoprire l’originale…
Living Colour – ‘Vivid’ (1988)
“Per me i Living Colour sono prima di ogni altra cosa ottimi musicisti, con un ottimo deal e che siano bianchi o neri non mi importa”. A dirlo è Scott Ian degli Anthrax, e l’affermazione non potrebbe essere più vera. Guidati dalla chitarra magica di Vernon Reid, sorta di reincarnazione hendrixiana nell’hard’n’heavy per via di uno stile dirompente e che avrebbe meritato ancora maggior fortuna, la scelta dei Living Colour si inserisce perfettamente in un sostrato musicale che pesca a piene mani dagli anni ’90 anche laddove il decennio non è ancora iniziato: con la loro miscela di funk e rock e in generale con l’innato gusto per il crossover, saranno infatti influenti su una parte delle successive evoluzioni stilistiche nella stessa misura di Extreme, RHCP e Faith No More.
Metallica – ‘And Justice For All’ (1988)
Se parliamo di pomo della discordia in ambito metal, i dischi dei Metallica lo sono per antonomasia ma ad ‘And Justice For All’ tocca un posto speciale. Eh sì, perché per quanto venga spesso annoverato tra gli imprescindibili al parte dei tre precedenti lavori con Cliff Burton, quello che non va mai giù a una nutrita frangia è la scelta di zittire il basso del nuovo arrivato Jason Newsted, che pure aveva avuto modo di farsi sentire nell’EP dell’anno prima ‘Garage Days Re-revisited’. Volete i miei due centesimi sulla faccenda (e immagino che anche Federico sarà d’accordo)? Gli AC/DC hanno omaggiato Bon Scott con i rintocchi di campana su ‘Hells Bells’, gli Helloween e i Litfiba hanno ricordato i rispettivi batteristi nel più classico dei modi – dedicando loro un album intero – e Lars e James hanno ricordato l’amico scomparso abbassando il basso nel mix finale. Fine. Una scelta scellerata? Non diremmo, data l’enorme fortuna del quarto capitolo della discografia dei quattro di Frisco e data l’incalcolabile influenza di quel sound oscuro e dalla batteria pulsante su tutto il metal a venire… Per non parlare delle composizioni, dello stato di grazia di Kirk Hammett e del trionfale tour che ne sarebbe seguito, immortalato in uno dei capitoli del successivo ‘Live Shit’. Ah, ‘And Justice For All’ segna anche l’ingresso dei Metallica nel mondo dei videoclip promozionali: un ingresso senza il minimo compromesso, come testimonia ‘One’.
Alice In Chains – ‘Tripod’ (1995)
Una scelta di rottura, questa di ‘Tripod’ (altrimenti detto ‘Alice in Chains’), ma perfettamente comprensibile. Il canto del cigno in studio di Layne Staley è un album acido, tossico, denso delle stesse tematiche che avevano animato ‘Dirt’ ma con un occhio più languido e ancora meno spiragli di speranza nelle atmosfere disegnate. Le bordate pesanti di ‘Grind’, ‘Sludge Factory’, ‘Head Creeps’ e ‘Again’ son controbilanciate da momenti agrodolci del calibro di ‘Over Now’ e ‘Heaven Beside You’, con ‘Shame in You’ che ha la stessa grazia di un sorriso sdentato, condividendone però la stessa indescrivibile tenerezza.