Decades of Aggression: settembre 2024 – parte 2

Il 13/10/2024, di .

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Decades of Aggression: settembre 2024 – parte 2

Esaurita la super ubriacatura di dischi anni ’80 e dunque splendidi quarantenni che festeggiano a settembre 2024, tocca alla compagine relativamente più giovane spartirsi questa seconda arte dell’almanacco. Partiamo ovviamente dai trentenni, due dei quali condividono la data del 27 settembre in quanto a release: in primis i Corrosion Of Conformity in piena “cura Pepper Keenan” che – preso il timone della band dopo l’uscita delle meteore Karl Agell e Phil Swisher e il contemporaneo ritorno del fondatore Mike Dean – sposta la direzione musicale dal crossover thrash degli esordi poi muscolarizzato nel predecessore ‘Blind’ a un personale approccio al verbo dello stoner guidato dal suo timbro grattugioso che tanta influenza eserciterà nell’Hetfield di metà anni ’90, in una sorta di effetto ping-pong tra le due band che vedrà poi il sornione Keenan partecipare alle session di ‘Garage Inc.’ e addirittura alle selezioni come nuovo bassista. ‘Deliverance’ resta l’album di maggior successo del combo dei Raileigh, guidato com’è dal riffing nervoso di ‘Clean My Wounds’ e dall’ariosa ‘Albatross’, il cui video fa pensare a una versione fumettosa del celebre ‘Green Machine’ dei Kyuss. Coincidenza? Non credo…

Dopo un disco di rottura, eccone uno apparentemente di continuità ma con importanti novità rispetto al passato. Si tratta di ‘Divine Intervention’, sesto album degli Slayer e primo con Paul Bostaph dietro le pelli. Riassunto delle puntate precedenti: Dave Lombardo è amatissimo dai fan, meno dai compagni di gruppo per contrasti di vario genere e richieste di maggiori spazi (sia di natura economica che legate alla sua vita privata), tanto che già qualche anno prima il Nostro era stato sostituito da Tony Scaglione dei Whiplash per una parte del tour di ‘Reign in Blood’. Stavolta la misura è colma e lo sarà per quasi un decennio, aprendo la via all’ingresso del già citato drummer dei Forbidden. Certo, nulla nei solchi di ‘Forbidden Evil’ e ‘Twisted into Form’ avrebbe lasciato presagire la precisione chirurgica di Bostaph qui dispiegata sin dall’opener ‘Killing Fields’ (memorabile l’anteprima di un frammento della track trasmessa da Headbangers Ball, lanciata ad arte per stuzzicare la fantasia di noi aficionados, imberbi e non), per non parlare del resto della tracklist che si dispiega senza soluzione di continuità tra ‘Fictional Reality’ (addirittura reminiscente dei Cannibal Corpse nel break centrale), la violentissima ‘Dittohead’ e la title track che sembra una versione speculare di ‘Seasons in the Abyss’. Tocca a ‘Serenity in Murder’ (che nel videoclip promozionale apparirà con la sola prima parola del titolo…) offrire un po’ di apparente respiro a un disco che si presentava a buon diritto come il ‘Reign in Blood’ degli anni ’90 e che avrebbe meritato e conosciuto miglior fortuna nelle scalette live, se solo non fosse diventato lo scheletro nell’armadio di Kerry King, insoddisfatto della sua resa sonora…

Gli ultimi giorni del mese di settembre del 1994 vedevano l’uscita dell’attesissimo ‘Low’ dei Testament, annunciato come il disco della svolta “dura e pura” dopo le incursioni nell’heavy tout court di ‘The Ritual’ e l’uscita di Skolnick e Clemente. Rimasti saldamente al timone, Billy e Peterson rispettano i proclami iniziati sin dai tempi di ‘Return to Apocalyptic City’ e ci consegnano tra le mani un album che trascina il quintetto verso i lidi del death metal, forte del drumming al passo coi tempi di un John Tempesta in transito dagli Exodus ai White Zombie e soprattutto degli assoli di James Murphy, con alle spalle un disco di prima grandezza come ‘Cause of Death’ degli Obituary. L’urgenza di colpire dritti nel segno c’è, e si dipana dalla title track alla violentissima ‘Dog Faced Gods’, ma il valore aggiunto della melodia agrodolce non viene abbandonato del tutto, come succede sia nel gigante buono ‘Hail Mary’ che nella ballad d’ordinanza, quella ‘Trail of Tears’ che personalmente è seconda solo a ‘Return to Serenity’ in quanto a carica evocativa di questi thrashers dal cuore tenero. Restando sul giudizio personale, si tratta di uno dei dischi fondamentali dei Testament, immediatamente dopo la stellare coppia di debut e l’incredibile ‘The Gathering’, di cui costituisce una vera e propria anticipazione.

‘The System has Failed’, ovvero il postulato per cui un attimo prima puoi dire “non sono i Megadeth” e un attimo dopo renderti conto di quanto quest’affermazione si riveli inconsistente, cozzando contro il volere, la presenza e la carica impositiva del lider maximo della cangiante compagine. È pur vero che la Sanctuary abbia fatto qualche danno di troppo nella serie di ristampe dell’epoca che inseguivano l’imperante loudness war infarcendo i dischi di una serie di outtakes inutili, ma se c’è stata un’intuizione corretta è stata quella di imporre il logo dei Megadeth a un album pensato per essere un lavoro solista a nome dello stesso Dave Mustaine. Per quanto io sia uno strenuo difensore del valore di ‘Cryptic Writings’, ‘The System has Failed’ rappresenta il concetto stesso di rinascita a fronte del flop dei due predecessori (soprattutto dell’immediato predecessore ‘The World Needs a Hero’), forte com’è della presenza di un’autentica colonna del sound della band come Chris Poland alla chitarra solista. Diciamocelo, un’opener come ‘Blackmail the Universe’ ha tutto ciò che un pezzo dei Megadeth dovrebbe avere, ed è un peccato che le successive rese dal vivo non abbiano visto i lead guitarist del momento riprodurre fedelmente l’operato di quel fantastico jazzista prestato al metal che è Poland. Poco male, grazie a questo album possiamo tornare a tutti gli effetti a ritroso oltre la cortina di ferro di ‘Return to Metalopolis’ e verso le atmosfere acide e sferraglianti dei primi due dischi, quando si tratta di chitarra solista. Il resto lo fa il ritrovato bilanciamento tra violenza iconoclasta e melodia tossica da parte di MegaDave, con ‘Die Dead Enough’ e ‘The Scorpion’ a inserirsi a pieno titolo nel lotto di songs che non si tolgono più dalla testa, contornate da un lotto di proclami da parte del POTUS più strampalato ma più indimenticabile che un diverso corso della Storia avrebbe potuto regalarci…

Ed eccoci agli Anni Dieci, categoria juniores della nostra kermesse: tocca a ‘Storm of Blades’, quinto album degli svedesi Bullet. Come, non sapete chi sono i Bullet? Beh, è presto detto: frullate insieme Judas Priest, Accept, AC/DC e Harold Faltermeyer avendo cura di lasciare intatte le asperità originarie, ed ecco il disco defender del settembre 2014! Come li definivo all’epoca, i Bullet sono più o meno l’immagine stereotipata del metal, senza le sagaci orchestrazioni di Steve Harris, più priestiani dei Judas Priest, con quella cattiveria che i Megadeth hanno avuto cura di applicare al thrash metal e che loro mantengono stretta e ringhiante nel classic che più classic non si può. E poi, se volete un’immagine dell’operato della coppia di chitarre Klang/Lyrbo pensate ad Angus Young vestito da Ross the Boss piuttosto che da scolaretto, e al povero Malcolm corredato di un bel paio di baffi a manubrio. Perché in fin dei conti sono gli AC/DC la chiave di lettura perfetta del fenomeno Bullet, in una veste metallizzata che è da sempre il sogno proibito di tutti i defenders, quel sogno appena soddisfatto da dischi come ‘The Razor’s Edge’ e che qui vive appieno la sua dimensione sferragliante in episodi come ‘Tornado’ e ‘Crossfire’, nonché in quell’inno da birreria cromata che è la title track!