Gengy: tra i solchi dove la musica incontra la tecnica
Il 08/10/2024, di Gaetano Iannarelli.
In: On Production.
Un altro capitolo per i lettori di Metal Hammer Italia sul mondo della produzione audio targata Italia. Per i cultori del vinile una lunga intervista ad uno dei massimi esperti italiani: Gengy, all’anagrafe Alessandro Di Guglielmo. Oltre venti anni di esperienza nel processo di lavorazione del vinile, per incidere musica e permettere quello che lui definisce la “magia” di un ascolto che ha attraversato i decenni.
Presentati al pubblico di Metal Hammer: chi è Gengy, quale è stato il tuo percorso?
“Da piccolo ascoltavo tanti dischi in vinile di musica italiana, anche qualcosa di estero. Nel corso degli anni mi sono appassionato alla musica rock, poi heavy metal e poi ho cominciato a suonare ovviamente, quindi ho avuto un po’ di band. Suonavo la chitarra, Pantera, Sepultura. Alle scuole superiori avevo la passione anche del disegno quindi ho pensato di fare grafico. Avevo dei parenti che facevano già questo lavoro quindi mi sono un po’ indirizzato verso questo, però continuavo a suonare. Più in là ho capito che non me ne fregava di fare quella roba lì. Ero totalmente impreparato perché poi all’epoca i computer della scuola non c’erano e quindi quando sono uscito da lì il computer l’avevo visto due volte e non sapevo neanche impaginare. Quindi passavo tipo 7-8 ore a suonare la chitarra e mezz’ora a studiare, quindi quella roba lì è finita un po’ così a schifio e allora ho detto “vabbè ma senti, non so fare un cazzo, l’unica cosa che mi piace è suonare”. Mi butto, provo, parlando con amici così “vai cominci a fare una scuola di fonico”. Ai tempi la SAI era appena nata e costava una fucilata, quindi alla fine ho scelto di andare alla NAM. Per pagarmela facevo il fattorino, erano gli anni 1996, 1997. Cominciai la scuola, ovviamente mi intrippai tantissimo e alla fine del primo anno volevo andare già a fare un po’ di pratica. Quindi girai un po’ di studi e alla fine capitai negli studi milanesi ‘Avatara’. Era una sala prove con dentro lo studio e faccio il primo anno di esperienza da loro, praticamente facendo i suoni nelle salette ai gruppetti. Poi inizio ad andare anche ogni tanto di sera, quando c’era il fonico che lavorava di notte e stavo lì a guardare. Ad un certo punto il fonico se ne va e comincio ad avere più spazio lì in studio. I gruppi volevano il demo, poi iniziano a volerlo su CD e cominciavano a tornare indietro dicendomi che il disco di Madonna suonava 10dB più alto. E allora da lì mi sono appassionato all’ottimizzazione del suono post-produzione, così passarono altri due anni lì e poi basta, mi interessava solo fare post-produzione mastering. Così sono capitato da Elettroformati, altra realtà milanese. Sono andato a bussare un giorno e mi sono venduto malissimo perché gli ho detto: pur di stare qua dentro sono disposto anche a lavare i pavimenti. Li conoscevo di fama, sono entrato lì e ho scoperto un mondo là dentro che non avevo la più pallida idea di che cosa fosse. Nella prima stanza c’era una macchina come questa che non avevo mai visto in vita mia e alla NAM non si parlava del vinile. Erano proprio gli anni bui del supporto. Vedo questa macchina e mi dicono “vabbè tu lavori qua oggi”. Quindi studi zero neanche col binocolo. Là dentro era un laboratorio galvanico dove loro facevano le matrici. Quindi c’era il tecnico nella sala cutting che faceva l’acetato e poi il giorno dopo veniva consegnato in galvanica. C’era tutto un processo meccanico proprio da officina e sono stato lì tre anni e mi lercio di nickel tutti i santi giorni. Pulisco i pavimenti a fine giornata e però capisco un attimino la gavetta di come fare la matrice con cui venivano fatti per pressaggio i vinili. Fare quel lavoro mi faceva cagare anche perché avevo a che fare con un collega che non parlava mai, ma neanche ciao. Tornavo a casa e piangevo da mia madre, proprio dalla disperazione perché mi piaceva il lavoro ma mi faceva schifo passare le ore con una persona che non ti parlava, non ti spiegava niente. Dopo tre anni a un certo punto mi fa vedere al microscopio i solchi la prima volta, così è venuto tutto di conseguenza e pianino ha visto che non li creavo danni, allora magari quando lui se ne andava a casa io andavo avanti a lavorare. Mi aveva insegnato come fare un disco in maniera super basic, con quell’approccio taglia di qua taglia di là, metti a destra tutto in automatico, era già settato il banco dovevi solo settare il volume e la profondità dei solchi e basta. I dischi non avevo contestazioni, però quando c’era il cliente invece più esigente allora venivano fuori problemi e poi ti tornava indietro. Alcune volte il disco si scuriva troppo oppure era troppo basso, perché tu comunque avevi i filtri attivi, avevi il passa alto, il passo basso. Dopo cinque anni lui è morto e mi sono ritrovato a gestire il tutto perché quello studio lavorava solo sul vinile all’epoca. La mia crescita professionale è continuata in solitaria. Si tornava a casa e studiavo, ho comprato i manuali sul cutting, sul playback, tutte le robe qua e cercavo di capire perché gli altri in America e in Inghilterra riuscivano a fare dei dischi così e io non ci riuscivo. Anche perché i miei colleghi a livello nazionale comunque lavoravano come me, erano ancora vecchia scuola. Io ero il più giovane all’epoca, tutti mi dicevano così devi fare, però era palese che non bastava. In alcuni casi non si riusciva a gestire troppa stereofonia, allora il fonico che ha fatto il master è un cazzaro. Può anche essere un suono difficile ma tu devi capire come trasferirlo facendo meno danni possibili. Alla fine ho fatto tanta esperienza, ho avuto la fortuna lì dentro di farne tanta utilizzando tanto materiale che costa tantissimo e quindi da questo punto di vista sono stato anche molto fortunato.
Adesso ad esempio uno che vorrebbe iniziare a fare questo lavoro in maniera indipendente la vedo dura perché i costi da sostenere sono elevatissimi. Una scatola di acetati da 25 pezzi costa più di 1.100€, 25 pezzi ci fai 12 LP se non sbagli, ti deve andare tutto bene ed è raro. Ti dimentichi una roba ed è un disastro, devi rifarlo, te lo sei brasato e un conto se hai un’azienda, ma se sei da solo… Questo mestiere è tutto questo percorso, per la maggior parte di quelli che fanno questo lavoro è sempre stato lunghissimo e pieno di intoppi. Lo faccio da 23 anni, 24 anni, oggi non è successo niente ma è la rarità, succede sempre qualcosa, è molto artigianale”.
Quindi ti si è occupato sempre di cutting in modo esclusivo?
“Sono rimasto in questo ambiente, non ho più guardato oltre perché mi ha preso, assorbito, anche tutti gli aspetti legati alla macchina. Abbiamo a che fare con la macchina che qui in questo caso è del 1958. Una macchina datata ha bisogno di determinate cure e attenzione. Questa è della Neumann ed è stata modificata con un controllo di feedback, un primo modello creato che è poi diventato uno standard per il cutting. Questa qui proviene da un teatro di Vienna, è stata staccata e portata via, per non diventare pazzi hanno tranciato i cavi quindi era impossibile ripristinare il pitch originale. Abbiamo deciso di installare un computer, che risale all’inizio degli anni 80 come logica. Il risultato più evoluto, non ne sono stati fatti altri. Il computer che analizza il suono in anticipo su questa è recente però si basa su quella tecnologia lì. L’elettronica con il quale è accoppiato è comunque l’ultima fatta dalla Neumann quindi quella più evoluta perché poi dopo è uscito il CD e quindi erano arrivati al massimo dello sviluppo. Si potrebbero fare altri interventi, per esempio al motore che da trazione diretta in sincrono alla corrente elettrica, quindi lui analizzando il 50 hertz praticamente fa in modo di mantenere stabile i 33 giri o 45. C’è stata poca evoluzione, poca diversificazione sui torni. Alla fine parliamo di una tecnologia che c’è ancora dai tempi di Edison, non è cambiato niente a livello meccanico, si è evoluta la parte elettrica e l’elettronica del controllo, però abbiamo a che fare comunque con un chiodo e quindi deve vibrare e vibrando crea un solco, che tu poi lo rileggi con un altro chiodo. Molto semplice ed è per questo che sembra così magico, come fa a trascrivere così fedelmente il suono essendo concettualmente così grezzo il lavoro? Però è il suo bello alla fine. Adesso qualche artigiano c’è che fa ancora le testina, che comunque negli anni ha fatto esperienza smontando e rimontando le macchine, parliamo di tre o quattro persone al mondo. Fondamentalmente poi ti rendi conto che loro erano arrivati proprio al top quindi questo è il massimo”.
Parlando di supporti quindi tra nastri e vinile c’è una bella differenza a livello tecnologico?
“Il discorso dei nastri è diverso da quello del vinile, perché lì c’è stata un’evoluzione dei materiali, invece il vinile è rimasto sostanzialmente quello. Ci sono varie tecniche, tipo l’inside-out oppure ci sono i locked groove, però poca roba. Non è che ti puoi inventare che ne so il vinile surround, facciamo cinque o sei piatti che girano con un perno unico, ma poi il problema più che tecnico diventerebbe economico”.
Passando al supporto CD, una riflessione sui due mondi contrapposti vinile-CD, il concetto dell’alta fedeltà, cosa ne pensi?
“Tutto il processo di creazione del vinile ha tutta una serie di criticità e quindi non si può definire alta fedeltà. Bisogna però capire che cosa si intende per alta fedeltà, cioè se è un qualcosa puramente tecnico siamo tutti d’accordo che c’è il digitale, qualsiasi tipo di digitale ha comunque una gamma dinamica molto più ampia, un rumore di fondo praticamente nullo, separazione stereofonica anche lì infinita e sul vinile invece parliamo di un qualcosa invece che è fisico torno a ripetere. Quindi proprio per questo ha dei limiti. Poi c’è la musica alla fine, deve essere un’esperienza d’ascolto, deve dare delle emozioni che sia perfetta sulla carta come specifiche mi centra un cazzo, cioè se un disco è fatto bene, stampato bene e quando lo ascolti ti emoziona, basta ha fatto il suo dovere. Quindi che tu hai poi 10dB o 20dB in più di rumore di fondo ma che te frega. Se poi capita il disco fatto magari da qualcuno che comincia a chiudere la stereofonia, a mettere troppe robe equalizzare, troppo di qua, di là e quindi va a modificare tantissimo il suono di partenza, allora ovviamente quelli non sono dischi, quelli sono delle padelle nere che ci puoi giocare in spiaggia”.
A livello tecnico pensando all’obbiettivo principale del processo, quando si fa mastering nella pratica ci sono delle scelte dettate dal supporto che poi si andrà ad utilizzare?
“Secondo me all’inizio era soltanto un trasferimento uno a uno di quello che avevi sulla bobina. Per quanto riguarda il digitale invece entri già in un contesto di rielaborazione del suono, non è più un trasferimento uno a uno quindi. La vera loudness war è nata sul vinile perché se il cliente mi dice da questa stessa canzone faccio il singolo, per ipotesi 12 pollici, deve suonare come quelli da discoteca diventa tutto un altro lavoro. Mi ricordo una roba di un single di Jovanotti che gli ho dovuto mettere tipo 6 de-esser in cascata per farlo suonare a volume mostruoso, perché altrimenti c’era sempre troppa corrente che arrivava alla testina e rischiavo di bruciarla. Quindi equalizza, metti questo, metti quello, cioè alla fine era tutto un taroccamento mostruoso ma perché altrimenti a quel volume non ci potevi arrivare perché gli mandavi dentro talmente tanta corrente che avresti bruciato le bobine. La riflessione quindi, se si va a fare mastering e sai di andare su CD, hai per certi versi più possibilità, ci sono più margini a livello creativo, questo mi viene da pensare. Sì perché il digitale ti permette di fare degli interventi anche molto drastici. Se ad un certo punto su questo pezzo voglio un solo su un canale e sull’altro voglio lo zero assoluto, lo puoi fare. Questo è uno dei limiti. Ma se tu ascolti un disco dei Beatles la batteria la senti sempre da una parte, la chitarra la senti sempre dall’altro, cioè quindi non è una questione che allora se metti tutto in mezzo tu la stessa sensazione la percepisci uguale, non hai proprio questa drasticità a livello tecnico, cioè che proprio veramente devi avere lo zero assoluto su un canale. Essendo meccanico, quando la puntina scorre anche se tu sul canale destro non hai niente, la puntina sfrega la parete comunque e di conseguenza del rumore lo introduci. Finché non capisci anche la meccanica di movimento queste cose fai fatica a capirle. Quando si replica il suono è in bassa frequenza che effettua i movimenti più ampi non sulle medie o alte frequenze. Di conseguenza se hai delle differenze di fase molto grandi tra un canale e l’altro lei per poter scrivere la stereofonia deve fare un movimento verticale e quindi avrai un solco che all’inizio è molto profondo e quando c’è la controfase scompare. Quindi entro certi limiti lo puoi fare ma oltre no perché poi hai il salto della puntina che scorre a una velocità assurda e se a un certo punto si trova una strettoia di colpo, ti parte il braccio perchè hai creato un trampolino”.
Quali sono i passaggi che portano dal master al vinile su una macchina del genere?
“Se partiamo da un nastro fatto in studio, mixato, già assemblato, quindi già editato, fade-in, fade-out, le pause tra un brano e l’altro, già collegati correttamente con i toni in testa o in coda per l’allineamento della macchina, questo passa dalla prima testina che è quella di preview che manda il segnale al computer, dopodiché a seconda della velocità di registrazione del nastro e del vinile che dobbiamo fare, gli si fa fare un giro per cui tu crei un ritardo tra la prima e la seconda testina, questa poi è quella che va effettivamente in registrazione. Questo viene cablato col banco, dal banco non è nient’altro che un insert switcher, quindi se devo collegare delle cose, sono sempre l’equalizzatore, compressore, de-esser, da qua va direttamente all’amplificatore, che poi pilota di fatto le bobine qua dentro. Quindi è collegato, in questo caso lo abbiamo modificato, abbiamo fatto una catena super diretta praticamente, che è più pericolosa perché non ha molte protezioni, però è quella che ti dà il risultato più pulito, quindi direttamente arriva già il segnale, anche se non sto tagliando niente, anche se la testina è sollevata, già arriva il segnale. Invece con tutti gli altri sistemi originali passava tutto da una patch-bay, quindi il suono ovviamente cambiava, poi una sezione di monitor, che da qua puoi poter selezionare l’input che stai mandando lì. Quindi vado proprio diretto con l’XLR dentro, left e right, e va tutto direttamente qua dentro, l’altro segnale va al computer e quindi lui analizza il suono e poi con il dovuto ritardo. Se invece uso il digitale lo faccio direttamente da Pro Tools, con il dovuto ritardo, arriva lo stesso segnale alla testina che può trascrivere. Ogni rotazione lui la scannerizza in 18 spicchi e quindi in 18esimi lui aggiornerà sempre il segnale, quindi sa la fase del segnale che dovrà scrivere, le basse e tutto quanto, quindi accomoda il solco subito dopo, a seconda del setting che poi gli ho dato io insomma. Una volta scritto va tirato via da qui e maneggiato con cura. E’ una lacca quindi è un materiale molto soffice, ha una base d’alluminio però è rivestito da questa vernice che quindi devi evitare di toccarla ovviamente, mani pulite e quant’altro. Viene praticamente messa poi in una scatola con dei distanziali, che viene chiusa e viene spedita direttamente al laboratorio. Quei dischi lì che partiranno domani però anziché tenerli qui li metto in frigo, perchè a una temperatura più bassa si evita che la vernice si ammorbidisca troppo e ritorni indietro con un effetto tipo pongo. Questo se non è un problema per le basse frequenze perchè i solchi sono decisi, per le frequenza più alte va a perdere linearità e quindi la definizione del taglio per la riproduzione di corretta. Poi c’è il discorso anche delle lacche che ormai è un casino perché c’è rimasto un solo fornitore a livello mondiale quindi c’è un monopolio pazzesco e ovviamente dovendo produrre per tutti, ormai controllo qualità non è che sia proprio preciso come 15 anni fa, quindi ti capitano anche lacche che non vanno bene. L’importante è avere una filiera controllata dall’inizio alla fine, perché se tu hai il controllo su tutto allora tu sei sicuro che il risultato arriva. Però oggi ci sono un sacco di broker che ti prendono il file e li mandano a una fabbrica, fanno l’ordine, poi ti spediscono i dischi ma nessuno ha controllato niente. Tu gli hai mandato un file che non va bene, è intagliabile, cioè non hai dialogo né con chi ti taglia la lacca né con la galvanica, né con chi te lo stampa, non hai dialogo con nessuno e quindi ti ritrovi con una traccia che non suona bene, per mille motivi. E’ molto artigianale, c’è tanta gente che ci lavora dietro e quindi è fondamentale questa cosa di avere il controllo su tutto, dall’inizio fino alla fine”.
Ci parli di tanti dettagli, competenze, una grande complessità tecnica. Ci sono ragazzi interessati che si stanno formando? C’è un futuro per questa professione?
“C’è stata una sorta di buco generazionale di professionisti. La situazione in cui ci troviamo adesso è insanabile. Non c’è stato un passaggio di testimone. Prima i dischi li facevano comunque quelli della precedente generazione, erano sono sempre stati loro a farli, io ho imparato da uno che lo faceva già da tanti anni ma era una persona anziana. Noi italiani non abbiamo pensato in maniera intelligente alle generazioni successive, ci siamo sempre fregati di questa cosa e adesso ci ritroviamo così con con un qualcosa che è ancora richiesto. Non c’è più la gente preparata, c’è qualche giovane che comincia però su che base comincia? Se non hai avuto qualcuno dietro che ti ha dato un attimino i primi input, su che base vai ad imparare questi mestieri? Sulle cose che leggi su internet? Impossibile, devi avere la possibilità di stare comunque già in un posto dove fare pratica e ha le macchine. Una macchina del genere ormai raggiunge un costo da 200 mila euro. Se già sei dentro in un posto che utilizza una macchina del genere e hai anche la possibilità di sprecare tanto materiale. Anche solo la puntina è uno zaffiro sintetico che costa 200 euro, ma rovinarla cioè ci metti veramente un secondo già soltanto per montarla rischi di sbeccarla, se non quando è già montata quando abbassi la testina o che ti dimentichi che ne so…però abbassi la testina ma il piatto non sta girando, perché ti sei dimenticato di farlo patire. Uno di quei mestieri che si perdono perché non si è creata poi continuità. Probabilmente ci vuole anche passione, i dischi si vendono anche tra i giovani però forse loro lo vedono più come un oggetto molte volte, sono veramente pochi quelli appassionati che decidono veramente di conoscerlo a fondo. Quindi poi ti ritrovi anche a non avere magari nessuno veramente interessato a questa cosa, che ti viene a bussare e che abbia un minimo di spirito di sacrificio per dire, che viene qua e guarda nel tempo perso, così cerca di capire come cazzo funziona. Purtroppo adesso con il digitale tutto è molto più semplice, molto più comodo, ma non puoi tagliare una lacca e poi metterla su Instagram. Tutte le altre attività e i mestieri che ci sono di mezzo nella produzione audio sono cose fighe, ma devi avere una vena di un certo tipo”.
Andando sui tuoi lavori, quali artisti ti è capitato di incontrare?
“Inizialmente quando ho cominciato facevo tanta dance, mix, per etichette tipo la Media Records, la Time. Etichette con cui ho avuto la fortuna comunque di lavorare già con un sacco di artisti mega conosciuti, tutti i dj più famosi, D’Agostino. Oltre al master per i CD, arrivavano i dischi nove volte su dieci già masterizzata e quindi era da riadattare diciamo. Molte volte quindi proprio da un mastering fatto per CD tu riprendevi e adattavi, le volte anche da mp3. Poi il vinile è tornato in auge, quindi c’è gente che si è ritrovato a comprare un vinile che è stato fatto da mp3. Tutto è successo grazie comunque agli indipendenti, ai piccoli artisti, ad etichette che hanno cominciato a fiutare che poteva esserci potenziale guadagno anche su questo supporto, anche se l’avevano dato per morto già da tempo. Si sono buttate dentro proprio a capofitto, hanno cominciato ovviamente a rifare tutti i cataloghi, una volta, due volte, tre volte, prima con le bonus poi senza le bonus, quello giallo e quello nero. Si cerca di fare le cose anche come si deve quindi partendo anche da mix in alta risoluzione. Capita di fare magari anche dei dischi di livello storico, ma sei costretto a farlo da una sorgente rimasterizzata perché il disco è molto vecchio e non c’è più il suono originale, l’unica cosa a disposizione è un file masterizzato magari dieci anni prima con dei convertitori di dieci anni fa, magari con un approccio alla loudness e quindi è dinamica completamente sventrata solo per avere il volume e ti ritrovi poi a trasferire, a fare una riedizione di quel disco che per quanto bello però sai già che verrà una cagata, perché comunque era già stato distrutto a livello di dinamica. Sì riesci a farlo il disco magari che suona anche decorosamente, ma poi avrai sempre quello che ti dice ‘cazzo ma io ho la stessa edizione di 30 anni fa e come è che suona meglio?’. Suona meglio sì, per forza è stata fatta comunque con il suono originale, magari il tecnico all’epoca aveva giusto messo due robe”.
All’inizio ci hai parlato della tua passione per il metal e generi estremi, oggi cosa resta?
“Ancora adesso vado a vedere i Fulci per dirne una, sono un loro grande amico. Tutti i gruppi death, black metal così, me li ascolto. I Meshuggah, gli Slayer, Pantera all’epoca, ho visto i loro live varie volte, però cominciando a fare questo mestiere ovviamente ti si allargano molto gli orizzonti perché tu passi nella stessa giornata magari a lavorare su cinque dischi di cui magari uno è metal, però poi hai una roba ultra pop, un’altra roba di classica, jazz, quindi col passare degli anni abitui il tuo cervello, le tue orecchie a percepire tutti questi suoni, a comprenderli anche ovviamente perché devi comunque fare un master che sia per CD o per vinile, però devi fartela anche un po’ tua questa musica, devi capire come deve suonare poi. Ricordo per la batteria, ai tempi ero innamorato delle batterie dei Pantera di Vinnie Paul, sentivo questa cassa mega puntata, e la mettevo ovunque, anche la band che faceva la roba più pop, io gli schiaffavo dentro sta punta. Impari tutti gli altri generi anche sbagliando ovviamente, però hai un sacco di feedback poi, e quindi impari ad apprezzarli tutti gli generi, quindi ascolto ovviamente qualsiasi roba proprio, e quindi il discorso del metal, ovviamente mi piace un sacco anche poterlo fare così. A parte qualche tipo lavoro con la Scarlett, quindi tutti quei dischi lì, che però molti sono anche di un genere che non è che mi piace molto, tipo gothic, metal, ecco quella roba lì non ho mai detto niente. Stratovarius quelle roba lì un po’ così, non sono un grandissimo fan proprio di quel genere, quindi non è che li conosco benissimo, però quando sento qualcuno che urla… io ad esempio odio gli Iron Maiden dopo Paul Di’Anno, cioè bravo eh, e praticamente li ha fatti esplodere probabilmente, però secondo me i veri Iron erano dei primi dei dischi. Preferisco molto di più roba più estrema”.
Della scena italiana conosci qualche gruppo, hai lavorato per qualche gruppo?
“Beh, ai tempi ero amico e innamorato degli Extrema, magari ci si trovava al pub, ci sbronzavamo insieme. Erano sempre molto thrash, e hanno un po’, tra virgolette, preso tanto dai Pantera, anche se il primo disco secondo me è il più bello, però mi sono sempre piaciuti, ecco. Poi vabbè, adesso seguo tanto i Fulci, il cammino che stanno facendo loro, perché sono più attirato un po’ adesso da quel sound lì. Però sempre thrash, ecco, perché io sempre ho suonato comunque quella roba lì, o new metal, ecco. Ho vissuto un po’ il periodo Deftones, Korn, anche mentre suonavo ancora la chitarra. I Chaos Lord, ecco, ero molto amico perché abbiamo fatto tutte le scuole insieme, quindi i fratelli Carafuri, all’epoca i Mesmerizers”.
A livello di mastering, ricordi qualche band su cui hai lavorato?
“Ma vabbè, Bulldozer, ho fatto un sacco di lavori con loro, poi sì sicuramente un sacco di roba di nicchia anche per la FUAD ad esempio. Migliaia. Adesso se ne fanno di meno perché c’è più cura, ma all’epoca veramente era una catena di montaggio, io facevo tipo anche 10 dischi ogni giorno, 15 ore, cioè nel giro di un anno se fai anche soltanto 8 dischi tutti i giorni che era la media, cioè nel giro di un anno sono una caterva, l’ho fatto almeno i primi 10 anni. Eh sì perché comunque a fare questo mestiere siamo in pochi, eravamo pochi prima siamo pochi ancora adesso quindi tutto quello che gira, che arriva in Italia, che deve essere stampato, bene o male ti passa tra le mani. Quindi prima o poi ti capitano un po’ tutti. In tutto il mondo eravamo tipo 200 fino a qualche anno fa. In Italia siamo 4, però di cui uno fa più il manutentore, quindi dedica molto più tempo alla riparazione degli amplificatori, testine e cose del genere. Tutta gente che deve ancora farsi un po’ di esperienza, forse quello più vecchio sono io. C’è un altro collega che lavora adesso che tra l’altro è bravissimo, ci ha aiutato a mettere in piedi e a sistemare questa macchina. Pietro della Tape2Disc che sta a Salerno, lui è un genietto secondo me, perché si sistema gli amplificatori, si fa i compressori, si fa tutto lui e ha imparato da pochi anni. Ha imparato a tagliare, però sai, dipende anche un po’ dall’esperienza che tu hai acquisito in precedenza perché c’è chi è più predisposto a sistemare le macchine e ha sviluppato meno un orecchio da fonico diciamo, e quindi il lavoro te lo fa però magari non ha quelle accortezze. Sì è un mix di competenze e poi questo mix può essere più o meno bilanciato. Io ad esempio non ho competenze per sistemarle, per ripararle, so mantenerle diciamo per fare la manutenzione ordinaria, però se mi salta un componente su qualche scheda, si alza la cornetta per forza e lì sei schiavo dei quei 4 o 5 che ci sono in tutto il mondo”.
Ho scoperto grazie a Versari questa realtà dello Spazio Zenit: com’è lavorare insieme a Giovanni ed Esau Remor?
“E’ bello confrontarsi, ognuno di noi ovviamente fa più esperienza nel proprio mondo e quando ci si incontra si cresce, ci si arricchisce. Si fa oro dell’esperienza altrui, quindi il fatto che nascano altre figure professionali in questo campo è un qualcosa che fa bene”.
Grazie mille Gengy per il tuo tempo e per averci raccontato tanto del tuo lavoro. Probabilmente qualche appassionato avrà ora voglia di sporcarsi le mani, così che la magia non finisca.