Decades of Aggression: agosto 2024

Il 30/08/2024, di .

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Decades of Aggression: agosto 2024

“Agosto… un mese che fa PAURA!”, declamavano i pubblicitari delle reti commerciali una trentina d’anni orsono introducendo un qualche ciclo di film horror in onda all’epoca. Di sicuro fa paura ai discografici, data la sparuta truppa di dischi raccolta qui dal Vostro Illustrissimo per il corrente almanacco. Pochi ma buoni, come si suol dire, perché siamo in una classica situazione all killer, no filler, dati i nomi in lista.
Prima però di snocciolarvi i tre (e dico tre) dischi del mese di agosto è doveroso parlare di un anniversario importantissimo, quello del Woodstock ’94, per gli amici “2 More Days of Peace and Music”, anche se i giorni furono tre: il 12, il 13 e il 14 agosto. Bene, è vero che questo mese cadono anche i relativi anniversari del Woodstock originale (55 anni suonati!) e di Donington ’95 aka “Escape From the Studio” – laddove i fuggitivi erano gli headliners Metallica, in gradita pausa dalle lavorazioni di quelli che diventeranno ‘Load’ e ‘Reload’ – ma come potete ben vedere, la cifra tonda appartiene appunto alla citata kermesse del 1994. Che per la mia generazione fu tanto sentita da tenerci in piedi fino a notte fonda per registrare le esibizioni dalla radio; decisamente, si trattò della risposta adeguata allo storico predecessore che allora compiva 25 anni, senza che nessuno potesse immaginare il disastro che avrebbe atteso il mondo della musica nella terza parte delle celebrazioni, il famigerato Woodstock ’99.
Che poi, personalmente l’esibizione che ho ascoltato di più negli anni è quella di un artista estraneo al mondo del metal, Carlos Santana. Da sempre nel gotha dei miei chitarristi preferiti, questo autentico mariachi dell’elettrica aveva qui dato tutto se stesso, in una setlist accorata che prevedeva ‘Make Somebody Happy’ subito dopo il discorso della sorella di Hendrix, l’accorata preghiera universale di ‘Somewhere in Heaven’ e tutta una serie di altri pezzi tratti da dischi poco conosciuti come ‘Spirits Dancing in the Flesh’, da poco pubblicato. Soprattutto, conteneva la movimentata improvvisazione poi nota come ‘(Da Le) Yaleo’, brano apripista del futuro blockbuster ‘Supernatural’ che avrebbe finalmente rimesso il Nostro al centro della mappa della musica “che conta”.
Bando alle divagazioni (ma neanche tanto) e passo a sottolineare che quell’edizione di Woodstock fu al contempo di elevatissimo interesse per i palati affini ai nostri, a partire da quei burloni dei Metallica

Per non tacere dei Nine Inch Nails e della loro sanguigna esibizione, con Trent Reznor trasformato nell’alter ego di Dolores O’Riordan su ‘Zombie’ (ehi, è vero… c’erano anche i Cranberries!) – solo che lui non è ricoperto di oro, ma di fango!

Vi ho gia detto quanto la Rollins Band fosse composta da alieni in quel periodo, vero? Sì, ve l’ho detto. Non mi resta che ribadirlo con questa fantastica versione di ‘Liar’, che offre un senso addizionale all’annotazione crescendo.

Oltre a essere l’edizione che ha lanciato definitivamente i Green Day nello stardom internazionale, Woodstock ’94 viene ricordata anche per alcune defezioni importanti, vere o presunte che siano state. Gli organizzatori avevano ovviamente pensato ai Nirvana, salvo dover abbandonare definitivamente l’intento dopo la prematura scomparsa di Cobain nell’aprile dello stesso anno. Si vocifera persino dovessero esserci i Kiss, in una ipotetica reunion anticipata che però non avvenne e che dunque ha fortunatamente consegnato alla nostra timeline il loro MTV Unplugged in formazione “allargata”. I Guns N’ Roses erano già dilaniati dalle faide interne, pertanto non se ne fece nulla (al netto di un’ospitata di Slash da qualche parte). E poi, ci sono gli Alice In Chains: tanto attesi ma vittime della tensione autodistruttiva di Layne Staley che avrebbe contestualmente fatto saltare un tour di spalla ai Metallica, fino all’implosione propria e della band. Secondo lo stesso principio portato avanti da Slash, abbiamo però avuto la fortuna di vedere Jerry Cantrell sul palco dei Primus, con un assolo ispirato e ispiratore nel bel mezzo di ‘Harold of the Rocks’. Un plauso di gratitudine a Cantrell e un altro di riconoscenza a Larry LaLonde per aver generosamente condiviso il palco con lui, il tutto sotto l’egida del sornione Les Claypool, vero mattatore di un’esibizione che cita opportunamente Hendrix (“sorry Hendrix”, è il suo commento all’accenno dell’inno americano) ma anche ‘Master Of Puppets’ dei Metallica, un gruppo le cui strade si sono più volte incrociate con quella del talentuoso bassista.

Ma veniamo all’almanacco propriamente detto, dopo il preambolo più lungo della pur breve storia di Decades of Aggression. Il 31 agosto del 1984 esce il debutto/non debutto di una band ad alta caratura spirituale, i Cult di Ian Atsbury e Billy Duffy. ‘Dreamtime’ giunge dopo che i Southern Death Cult si erano fusi con i Theatre of Hate dando vita ai Death Cult, autori di un EP omonimo che è il predecessore a tutti gli effetti di questo disco. Marcatamente appartenente alla fase new wave dei Cult, l’album alterna brani anthemici come ‘Go West’, ‘Spiritwalker’ e ‘Horse Nation’ a elegie sciamaniche come ‘Gimmick’, ‘A Flower in the Desert’ e ‘Rider in the Snow’, con la danza incontrollata di ’83rd Dream’ che rappresenta la sintesi perfetta di una miscela che troverà compimento nel successivo e più fortunato ‘Love’, ma che su questo lavoro appare in tutta la sua capacità di sintesi tra wave e rock che all’epoca aveva in Italia due contraltari di peso come Diaframma e Litfiba. Tutti e tre, neanche a dirlo, di enorme influenza diretta e indiretta sul mondo hard’n’heavy…

All’inizio del mese di agosto del 1994 esce poi una delle testate d’angolo del metal del futuro, seppure (come spesso capita) con i piedi ben piantati nel passato. Si tratta di ‘Burn My Eyes’ dei Machine Head, debutto di quella che per breve tempo era stata vista dagli addetti ai lavori come “la band di Rob Flynn che era nei Vio-Lence” per poi trasformarsi in una delle corazzate del metal degli anni e venire, nel bene e nel male. L’appartenenza di diritto di Flynn al mondo del thrash è chiarissima su episodi come ‘A Nation on Fire’ e ‘Block’, salvo prendere strade inconsuete per l’epoca come nei singoli ‘Davidian’ e ‘Old’, sulla cadenzata ‘Death Church’ e sull’insolitamente melodica (per l’epoca) ‘A Thousand Lies’. Tanto per dirne una, il mio primo approccio alla band avvenne ancora una volta grazie a Mixo e soci su Planet Rock, con ‘Blood for Blood’: l’assalto era frontale, ma qualcosa lasciava presagire un’allargamento dell’ortodossia che sarebbe divenuto legge, di lì a poco. La genialità di ‘Burn My Eyes’ probabilmente è stata un’arma a doppio taglio per i Machine Head, che secondo molti non sono più riusciti a ripetersi sugli stessi livelli, contendendo qui addirittura ai Pantera di ‘Vulgar Display Of Power’ la palma di punto di riferimento per il nascente movimento groove metal. Certo è che ‘Burn My Eyes’ – per essere un disco uscito nel bel mezzo dell’estate – dispiega un’importanza tuttora fondamentale per un certo panorama musicale, tanto che Flynn ha riunito in occasione del venticinquennale buona parte di “quella” formazione, con Chris Kontos e Logan Mader tornati all’ovile per una parte della setlist, laddove il fido comprimario Adam Duce era invece da tempo nella lista nera del lider maximo. Un debutto col botto, suggellato dal tour con gli Slayer e dalla successiva apparizione al già citato “Escape From the Studio”, l’anno dopo…

Ebbene, siamo giunti alla fine. E che finale, signore e signori. È vero, avrei potuto provocarvi con ‘Definitely Maybe’ (uscito ad agosto anch’esso) dato anche il recentissimo hype sulla reunion degli Oasis, ma questa è quella che si definisce una licenza poetica in piena regola, poiché stiamo parlando a tutti gli effetti di “poesia”.
‘Dummy’ dei Portishead è quanto di più distante dal metal delle origini e da quello del periodo in cui è uscito (su quello odierno avanzerei qualche dubbio…) ma resta comunque una delle opere d’arte principali del Novecento, travalicando di gran lunga la scena di Bristol e il genere di appartenenza, il trip hop.
Ogni volta che scriviamo sulle nostre recensioni “atmosfere da spy story”, ogni volta che ascoltiamo passaggi che definiamo “eterei ed evocativi come una pellicola degli anni ’30”, ogni volta che sogniamo in bianco e nero ascoltando un refrain dal sapore antico e senza tempo, beh… i Portishead erano già lì, esattamente come lo erano i Black Sabbath quando si tratta di catalogare i riff portanti del libro del Grande Rumore. Il loro debut ‘Dummy’ usciva proprio trent’anni fa, e se non bastano titoli come ‘Sour Times’, ‘Numb’, ‘Roads’ e ‘Glory Box’ a commuovervi, allora provate con il concerto al Roseland Ballroom, in cui la band dispiega – assieme all’orchestra – tutta la sua delicatezza ma anche la sua energia, proponendo una versione di ‘Sour Times’ ad alta caratura elettrica. Ecco, le immagini sonore evocate dagli undici pezzi in tracklist sono l’esatta definizione del “ricordo di un passato non vissuto”, proprio perché si collocano in una dimensione senza tempo, ben orchestrata da Barrow e Utley (produttori ma anche strumentisti a tutti gli effetti, ricordiamolo) e convogliata dalla bellissima voce di Beth Gibbons, vera barda di quelle scogliere dalle tonalità blu e malinconiche…