Marziona (Marthe, Horror Vacui, Kontatto…) – I miei 10 dischi fondamentali
Il 28/08/2024, di Francesco Faniello.
In: Hammer Chart.
L’ospite questo mese della rubrica Hammer Chart è una di quelle figure per cui sarebbe appropriata una monografia ancora più approfondita di una semplice Top 10. Per chi bazzica l’undergound punk/HC e affini, il nome di Marziona è legato non solo alla maestria nel D-beat sciorinata con i Kontatto o alle trame oscure intessute in casa Horror Vacui, ma anche per i Marthe, una one woman band in piena regola di pagan metal che è stata tra le rivelazioni discografiche degli ultimi anni con lavori come ‘Sisters of Darkness’ o ‘Further in Evil’. In occasione di una ghiotta intervista di imminente uscita, non potevamo non chiederle la Top 10 per Metal Hammer Italia!
Metallica – ‘Ride The Lightning’ (1984)
Avendo di recente realizzato il giro di boa del quarantennale, il secondo album dei quattro cavalieri di Frisco è il disco che ha trasformato “i Metallica nei Metallica”, secondo una definizione molto in voga. Dopo le influenze NWOBHM velocizzate all’inverosimile e imbevute di punk/HC dell’incredibile debut, i Metallica cambiarono decisamente passo, rallentando in alcuni punti e mantendendo la furia iconoclasta in altri, ma in generale alzando il tiro e preparandosi alla loro imminente dominazione del mondo…
Sepultura – ‘Chaos AD’ (1993)
Benché una recente vulgata collochi gli anni d’oro dei Sepultura a cavallo tra gli ’80 e i ’90, è con ‘Chaos AD’ che il quartetto carioca ha staccato il proprio biglietto per l’immortalità, un’opinione condivisa anche dall’allora leader Max Cavalera. Forte di un suono nuovo che non deve per forza basarsi sulla velocità per colpire in profondità, questo disco ha esercitato un’influenza incalcolabile su tutte le nuove band giunte dopo di esso, sdoganando al contempo le periferie del mondo metal e mettendo definitivamente il Brasile sulla carta del Grande Rumore, forte di pezzi da novanta come ‘Refuse/Resist’, ‘Territory’ e ‘Slave New World’, ma anche di avveniristici esperimenti del calibro di ‘Kaiowas’ o ‘We who are not as others’.
Iron Maiden – ‘Somewhere In Time’ (1986)
Immeritatamente considerato come un disco di passaggio tra la magniloquenza egizia di ‘Powerslave’ e le fredde atmosfere apocalittiche di ‘Seventh Son Of A Seventh Son’, il sesto album della Vergine di Ferro è un lavoro avveniristico anche a dispetto dell’opinione di alcuni dei soggetti in campo, e non a caso è stato di recente ripreso e rivalutato nel ‘Future Past Tour’ degli Iron Maiden. ‘Somewhere In Time’ vede Murray, Smith e Harris sperimentare con guitar synth e bass synth, ma vede anche in prima fila Adrian Smith in fase compositiva, e i risultati si sentono, per un lotto di tracce di stampo futuristico, pur con i piedi ben piantati nella tradizione maideniana qui rappresentata dall’opener ‘Caught Somewhere In Time’ e dalla conclusiva ‘Alexander The Great’. Un album senza una nota sbagliata o fuori posto, che entra di diritto sul podio della band anche grazie a un artwork da incorniciare nel vero senso della parola…
Tiamat – ‘Wildhoney’ (1994)
Dopo che nella formazione svedese John Hagel e Johan Edlund saranno i soli superstiti dalla pubblicazione del precedente ‘Clouds’, l’orientamento stilistico prende una direzione ben precisa: quella del capolavoro. ‘Wildhoney’ è uno dei simboli stessi di quella stagione artistica, mischiando le suggestioni goth con il sostrato extreme metal della formazione, e lanciando i Tiamat nei meandri della psichedelia contemporanea, un sound lungi dall’essere elitario ma capace di scrivere pagine di eterna bellezza, come ‘Whatever That Hurts’ e ‘Gaia’.
Bathory – ‘Hammerheart’ (1990)
La scelta è stata dura ed è stata il frutto di un testa e testa con i due ‘Nordland’, ma ciò che rende ‘Hammerheart’ speciale è il compimento della transizione dal progetto che ha praticamente inventato il black metal come lo conosciamo oggi al progetto che ha praticamente inventato il viking metal come lo conosciamo oggi. Il tutto sotto l’egida di un solo uomo, Quorthon, e sotto lo stendardo di un unico monicker, quello dei Bathory!
Wretched – ‘Libero di vivere / Libero di morire’ (1984)
Il debutto sulla lunga distanza dei milanesi Wretched è più di un disco punk/HC, è un vero e proprio manifesto programmatico. Giunto dopo due sette pollici seminali per la scena italiana, di cui uno in comune con gli Indigesti, il disco è uno dei lavori portabandiera della scena lombarda, legato com’è all’ambiente del Virus e alla Chaos Produzioni, espressione della band stessa. I Wretched dispiegano qui tutte le influenze della scena anarcho/punk britannica, forti della timbrica profonda di Gianmario che lacera pezzi come ‘Disperato ma vivo’, ‘Devi riuscire’, ‘Quale domani quale futuro’ e ‘Dentro te’, nonché ‘Spero venga la guerra’, già presente sul precedente 7″ ‘In nome del loro potere…’.
L7 – ‘Smell The Magic’ (1990)
‘Smell The Magic’ è il secondo disco delle riot grrrls L7, band apripista del movimento sospesa a metà tra il punk rock e il nascente fenomeno grunge. Non a caso, quest’album segna il passaggio dalla Epitaph alla Sup Pop, con il sagace Jack Endino dietro la consolle e un lotto di pezzi pesanti e incazzatissimi tra cui spicca la cadenzata ‘Deathwish’, vera e propria pietra miliare del genere.
Wolfbrigade – ‘In Darkness you feel no regrets’ (2003)
Non ci sono dubbi: all’equipaggio di un’ipotetica astronave aliena che approdi sulla Terra e sia incuriosita su cosa significhi suonare crust/D-Beat oggi, l’unica soluzione sarebbe presentare un disco dei Wolfpack. O Wolfbrigade, come hanno iniziato a chiamarsi a partire dal nuovo millennio. ‘In Darkness you feel no regrets’ è il loro secondo album con il nuovo nome e appare come la risposta all’arma bianca a quella frangia anarcho/punk inglese che si è estremizzata regalandoci gioiellini come Napalm Death e Bolt Thrower. I Lupi non lasciano prigionieri…
Antisect – ‘In darkness, there is no choice’ (1984)
Come scrive la Rise Above in occasione della ristampa di questo disco, ‘In darkness, there is no choice’ degli Antisect rientra perfettamente in quella definizione di “leggenda” troppo spesso abusata quando si parla di musica. Con la loro miscela di thrash/hardcore e filosofia DIY, i britannici erano la risposta a quanti si professavano crossover orientandosi verso il mainstream più che verso le radici stradaiole che avrebbero dovuto contraddistinguere i due mondi che sempre più marciavano affiancati, il metal e il thrash. Sicuramente da riscoprire!
Amebix – ‘Arise!’
Anche se lo scettro del crust sta saldamente nelle mani dei Wolfbrigade, è innegabile come siano i britannici Amebix a detenere una delle chiavi originarie del Grande Rumore, forti di una miscela di punk estremizzato a cui vengono aggiunte dosi folli ed esplosive di Venom e Celtic Frost. Il loro debutto ‘Arise!’ è un album fondamentale, per palati forti ma anche per menti pensanti…