Black Sabbath – l’Anno del Signore

Il 26/08/2024, di .

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Black Sabbath – l’Anno del Signore

Anno Domini
Rileggendo di recente nuove indiscrezioni sui famigerati fatti di Costa Mesa del 1992, c’è un dettaglio che mi ha colpito. Nonostante sia cosa nota la diceria accreditata da più parti per cui Wendy Dio si sarebbe spesa per negare un visto americano a Tony Martin, è l’antefatto che mi ha incuriosito: Gloria Butler – in qualità di allora manager dei Black Sabbath – avrebbe chiamato il nostro Brummie chiedendogli disponibilità per un paio di show di supporto all’uscita di scena del Madman in cui la scaletta sarebbe stata rigorosamente quella classica, senza alcun riferimento al “suo” periodo nella band. Quindi niente ‘The Shining’, ‘Headless Cross’ e (men che mai, data l’occasione) ‘Devil and Daughter’: stasera si recita a soggetto, avrebbe detto qualcuno.
In un 1992 alternativo avremmo dunque assistito a un’anticipazione del periodo in cui Thayer e Singer erano nei Kiss, con tanto di pedissequa riproposizione dello spettacolo dei gloriosi anni ’70, sbavature comprese. Decisamente, il mondo non era pronto per questo revival caro ai nostri giorni e dovremo tenere per noi l’idea di un Martin dedito a ripercorrere l’intercalare dell’illustre predecessore – “God bless you”, “I love you all” e così via. Sappiamo tutti com’è andata, alla fine: Rob Halford ha realizzato il sogno di una vita cantando con i Black Sabbath nei due show di supporto a Ozzy in occasione del ‘No More Tours’ (!) con una scaletta in cui per la verità il concetto di “classico” travalicava gli anni ’70 e giungeva fino al 1981 (un po’ come i Kiss degli ultimi tour, fateci caso), dando inoltre uno spunto importante alla “regista” Sharon Osbourne per la futura reunion dei Judas Priest con un Halford che avrebbe opportunamente sostituito Ozzy nel momento del bisogno, un decennio più tardi. Insomma, Gloria, Wendy e Sharon come le tre Moire tessitrici del Fato dinanzi a Tony Martin, novello Ulisse, un attimo prima destinato a recitare in una pantomima appositamente predisposta, un attimo dopo apparentemente relegato all’oblio del destino.
Ecco, ‘Anno Domini 1989 – 1995’ dei Black Sabbath è la prometeica risposta degli Uomini alla sentenza di condanna emessa dalle Dee, tutto qui. Come saprete, si tratta di un cofanetto con quattro dei dischi realizzati dal Sabba Nero durante la cosiddetta “era Martin”, tre dei quali (‘Headless Cross’, ‘Tyr’ e ‘Cross Purposes’) rimasterizzati per l’occasione, mentre il famigerato ‘Forbidden’ beneficia di un nuovo remix che corregge in buona parte le pecche simil moderniste e impastatrici frutto del lavoro svolto dall’odiatissimo Ernie C. all’epoca. Odiatissimo dalla cerchia dei “martinisti”, perché immagino che la stragrande maggioranza dei fan dei Black Sabbath non sappia neanche chi è, a parte quelli che per motivi anagrafici hanno familiarità con Body Count e simili.

Supertzar: the Gates of Hell
Citare questi due pezzi mi sembra il modo migliore per intitolare uno dei paragrafi introduttivi a quest’articolo, dato che si tratta delle intro usate alternativamente da Iommi e soci nel corso del decennio più oscuro della loro carriera. Ecco, secondo gli espertoni della Rete con ‘Anno Domini’ la montagna ha partorito il topolino. Laddove la montagna è Iommi e il topolino è il cofanetto reo di essere privo di ‘The Eternal Idol’, di ‘Cross Purposes – Live’ e di qualsivoglia chicchia non già in possesso di chi si è svenato in tempi (sospetti e non) a suon di edizioni giapponesi o di vinili non ufficiali. Ci è voluto lo stesso Martin per spiegarlo, quello stesso Martin dalle cui labbra e dai cui canali social avevamo iniziato a pendere in occasione dell’inaugurazione del monumento a Cozy Powell alla presenza sua e di Tony Iommi: senza girarci intorno, il motivo è che ‘The Eternal Idol’ era l’ultimo album che onorava il contratto Warner (un contratto che era già una zavorra all’epoca, per la label) mentre il live del 1994, antesignano com’era dei “by request” tanto in voga ai giorni nostri, conteneva sin troppi “classici” degli anni ’70 su cui altre etichette avrebbero avanzato diritti su diritti. E questo la nostra Sharon (perché potete scommetterci, nonostante le evidenze è lei la regista ultima del progetto) non poteva permetterlo: i quattro album in questione sono stati all’epoca licenziati dalla IRS – che incidentalmente ne sottovalutò il potenziale, ma chi poteva fare diversamente all’epoca – ma i concerti del quartetto (o quintetto, con Geoff Nicholls che acquisiva o perdeva pari dignità a seconda dei momenti) si chiudevano comunque con ‘Paranoid’, quindi c’era poco da largheggiare con i live.
Sul fronte delle bonus tracks, tre su quattro dischi ne contengono e va bene così: si parte dal maligno blues di ‘Cloak And Dagger’ (sorta di ‘Heart Like A Wheel’ pt. 2, con in più le atmosfere care a ‘Headless Cross’), si passa dalla velocità “da viaggio” di ‘What’s The Use’ che decisamente non condivide le atmosfere moderniste e ben piantate negli anni ’90 del resto di ‘Cross Purposes’ pur rappresentando una buona prova speculare all’opener ‘I Witness’, per finire con l’articolata ‘Loser Gets It All’ – interlocutoria come il resto di ‘Forbidden’, se volete la mia opinione, al netto di un assolo di Iommi come sempre da incorniciare. Nessun pezzo dal vivo con Brian May, nessun duetto con Ian Gillan, nessuna testimonianza registrata del passaggio di Eddie Van Halen a parte il fatto di essere stato co-autore di ‘Evil Eye’, nessun demo tratto dalle sessioni di ‘Dehumanizer’ che veda il Nostro dietro al microfono, un po’ come era successo nelle fasi preparatorie dell’omonimo dei Candlemass che lo avevano visto in prima fila. Un peccato, perché quell’album è un momento chiave della storia della Sabbath family, collocato com’è a spezzare il continuum temporale che va dall’89 al ’95 ma pietra di paragone per ciascuno dei lavori successivi dei protagonisti, ‘Cross Purposes’ per Iommi e Butler e ‘Strange Highways’ per Dio e Appice. Fa nulla, ‘Time Machine’ la riascoltiamo qui: c’è chi sostiene che quella presente su ‘Cross Purposes – Live’ sia addirittura meglio della versione originale, ma io non sono così estremista…

1989 – 2024, oggi più di ieri
Se c’è un fattore che è oggi è nuovo rispetto all’epoca della cosiddetta “era Martin” è la presenza di estimatori di per sé di quella formazione. Questa distinzione appare fondamentale, poiché invece negli articoli della stampa specializzata e no, nonché nelle biografie dei soggetti coinvolti (‘Iron Man’ di Iommi in primis) emerge il fatto che la cosa importante all’epoca fosse traghettare il monicker dei Black Sabbath in quelli che venivano definiti anni bui per stessa ammissione di chi li stava vivendo. Non si spiegherebbe altrimenti la corte fatta a R.J. Dio a partire dal 1990, l’abbandono di Butler in favore della corte di Ozzy Osbourne e di ‘Ozzmosis’ nel 1995 o il congedo non comunicato (“il telefono ha semplicemente smesso di squillare”, nelle parole di Tony Martin) in vista della reunion di Birmingham del 1997.
E la differenza è anche – banalmente – nel pubblico: gli astanti dal 1989 in poi (ma anche prima) erano lì per sentire i grandi classici anche se la formazione era ben lontana dall’essere quella originale (o quasi) che la contemporaneità ci ha invece regalato, dalla fine degli anni ‘90 fino a tutti gli anni 2000 e agli anni ‘10. Oggi invece tutti quelli che erano in fibrillazione ben prima che Iommi desse il sibillino annuncio dell’arrivo di “sorprese in primavera” erano in attesa esattamente di quel materiale la cui fortuna non è neanche paragonabile a quella accorsa ai classici degli anni ‘70 o quantomeno ai cosiddetti “Dio Years”, né come apprezzamento del pubblico né tantomeno come influenza su chi è venuto dopo, fatta eccezione per chi inserisce la formazione Iommi/Martin/Murray/Powell in un ideale gotha a cui magari appartengono i Candlemass, gli Angel Witch, King Diamond o i Trouble. Nonché i Memento Mori, tutti campioni di oscurità: magari Tony Iommi non ha il piglio “flashy” di uno come Mike Wead, ma in quanto a rifferama non gli è secondo: è primo assoluto anche su questo campo.
Per tracciare un paragone solo apparentemente irriverente, i Black Sabbath che la maggioranza del pubblico e della critica non ha considerato “veri” erano un po’ come il fenomeno delle bande da giro nato nel Sud Italia nella seconda metà dell’800 per sopperire all’assenza di teatri e all’impossibilità da parte del pubblico di ascoltare le grande pagine operistiche e sinfoniche nei luoghi preposti. Gli arrangiatori dell’epoca riuscirono a istruire intere generazioni che per lungo tempo ebbero la cassa armonica di paese come punto di riferimento, anziché le platee e le gallerie a cui erano avvezzi i loro connazionali del Nord – per poi diventare compositori di brani celebri di per sé, come ‘A tubo’ o ‘L’orientale’. Se poi pensate che il paragone sia irriverente per l’assenza degli autori originali nell’ambito della storia bandistica, pensate al periodo pugliese di Mascagni e ricordatevi di quante volte si è detto che Iommi ha tenuto vivo il nome del Sabba Nero. Di diritto, accanto a lui c’è Martin tra coloro che hanno tenuto in vita la memoria negli “anni bui”, checché ne dicano alla Hall Of Fame o presso consessi di quel genere.

Come eravamo
Per un attimo mi contraddico e vi dico che è vero, l’assenza di ‘The Eternal Idol’ pesa un po’. In qualche modo, è come se l’arpeggio di ‘The Shining’ sia connaturato alle pagine dei Black Sabbath, almeno quanto lo è quello di ‘Children Of The Sea’. Ma più probabilmente ciò avviene perché quello era l’ultimo disco comprato dalla generazione precedente, quella dei fratelli maggiori (degli altri), vuoi per il marchio Warner, vuoi per le offerte Nannucci o Sweet Music, ed ecco perché non mancava mai nelle collezioni della “vecchia guardia”, pur guardato con una punta di commiserazione anche dinanzi a una sfilza infinita di musicisti, introdotta con l’eloquente definizione “the players” a fronte dell’unico e solo “the player”, il nostro riffmaster baffuto. Eppure, ciascuno dei players che si sono succeduti da allora è fondamentale per la Storia dei Black Sabbath, a partire da un batterista che ha dato il tempo a tanti capolavori della nostra musica e non.
Ricordo distintamente quando lessi su una rivista specializzata dell’epoca un articolo che suonava tipo “se credete che il migliore sia Dave Lombardo solo per come suona la doppia cassa, allora non avete mai sentito Cozy Powell”. L’occasione era l’uscita di ‘The Drums Are Back’, quarto album solista dello spericolato drummer allora fuori dai Black Sabbath per l’infortunio dovuto a una caduta da cavallo, avendo tra l’altro mal digerito il ritorno di Ronnie James Dio in formazione. L’epicità del personaggio mi si sarebbe manifestata in quella scarica con la doppia cassa in bella mostra sul video di ‘Headless Cross’, un pezzo che condivideva quella carica oscura che avevano altri miei preferiti di Headbangers Ball, come ‘Sleepless Nights’ di King Diamond, ‘Pity the Sadness’ dei Paradise Lost o ‘The Seeds of Hatred’ dei Memento Mori. Stiamo parlando di un album che possiamo collocare tra gli imprescindibili di quelli “non classici” (gli inarrivabili primi sei con Ozzy, i primi due con Dio e ‘Born Again’ esclusi, insomma) e che resta un disco di heavy metal valido ed ispiratissimo, nonché una delle migliori uscite del 1989 – a naso, mi viene in mente solo ‘Bleach’ dei Nirvana come suo rivale, con buona pace del pur stellare ‘Alice in Hell’ degli Annihilator.

Tra gli altri players di rilievo della storia dei “nuovi” Sabbath andava poi annoverato un signor bassista che – senza inutili confronti con l’altro storico senatore Geezer Butler – si rivelerà tra i più importanti musicisti nella seconda o terza fase della band, nonché il secondo bassista più longevo in formazione. Neil Murray resta il dinamicissimo strumentista che ha costituito l’ossatura dei Whitesnake del perioso hard/blues, trovandosi poi a registrarne l’omonimo bestseller: entrato nei Black Sabbath in occasione del tour di ‘Headless Cross’, il suo debutto in studio sarà ‘Tyr’, un album che per me sarà un miraggio fino a che non ne scoverò il CD nell’edizione Classic Rock Series o fino al video di ‘Feels Good To Me’ presente nella seconda delle VHS retrospettive ‘The Black Sabbath Story’. Ecco, parliamo di un lavoro che può contendere tranquillamente al predecessore la palma di “miglior disco dell’era Martin” forte soprattutto di un trittico d’attacco per cui la maggior parte dei gruppi HM venderebbe l’anima (e con l’arpeggio di ‘Anno Mundi’ gentilmente preso in prestito dagli Hellacopters per la loro ‘Hopeless Case Of A Kid in Denial’). Poi, ‘The Sabbath Stones’ è sicuramente il pezzo più “alla Ozzy” di quelli senza Ozzy, il triduo simil vichingo ha un’importanza di per sé per un’intera scena, mentre la conclusiva ‘Heaven In Black’ è evocativa di per sé della ferocia zarista sui costruttori di San Basilio, grazie anche a una delle terremotanti intro di Powell. Un album così solido da beneficiare persino dell’assenza di bonus, e che vede come unico neo il “lento” un po’ mieloso della citata ‘Feels Good To Me’, che pure iniziava con tutti i presupposti migliori grazie all’arte “arpeggiosa” del sommo Iommi.

A completare il quadro c’è l’arrivo di Bobby Rondinelli per ‘Cross Purposes’, uno degli album più coraggiosi dell’intera discografia del quartetto di Birmingham, sicuramente uno di quelli che meglio si è adattato al volgere dei tempi, con buona pace di chi scrisse che il vero “nuovo” album dei Black Sabbath nel 1994 era ‘Superunknown’ dei Soundgarden. Certo, nonostante il gradito e temporaneo ritorno di Butler parliamo di un lavoro non di immediata fruibilità, con soluzioni ardite e “un po’ così” come ‘Back to Eden’ o ‘Psychophobia’, chiare strizzate d’occhio alla contemporaneità come ‘Virtual Death’ e il suo flavour Alice In Chains degno dell’Eterno Ritorno nietzschiano, nonché con la ruffiana ma tutto sommato riuscita ‘Dying for Love’, la suprema ‘Cross of Thorns’ e la già citata apripista ‘I Witness’ che farà capolino nel cinema di casa nostra grazie all’attento occhio di Carlo Verdone. Il drummer (che aveva coincidentamente sostituito Powell anche nei Rainbow nel decennio precedente) resterà in sella fino alla pubblicazione del live, per poi essere sostituito dal redivivo Bill Ward in occasione del tour sudamericano e infine tornare nella seconda parte del tour di ‘Forbidden’, dopo che lo stesso Powell avrà impegni coincidenti.
Già, ‘Forbidden’… il pomo della discordia, quello che viene quasi unanimamente definito il “peggior” album dei Black Sabbath. Tolto il fatto che in una classifica riferita al Sabba Nero l’ultima posizione andrebbe tolta d’ufficio esattamente come si fa con la stanza numero diciassette negli alberghi, ‘Forbidden’ è il tipico lavoro più criticato che ascoltato da parte del pubblico, percepito come fuori tempo massimo e con quell’aura da dinosauri che verrà ancor più accentuata alla luce della reunion della formazione originale di due anni dopo, che riaccenderà (giustamente) i riflettori su quello che resta uno dei gruppi più importanti della Storia della Musica. Ne è esempio la demonizzata presenza di Ice-T nell’opener ‘Illusion Of Power’ (un pezzo dal rifferama che più sabbathiano non si può): no, quell’ospitata non trasforma i Nostri in un gruppo rap metal, e di certo non mi è capitato di leggere critiche simili quando i Megadeth hanno pubblicato ‘Night Stalkers’ (con lo stesso ospite nel break centrale). Ovvio, parliamo di un album che di per sé è un po’ il fratello minore del predecessore, piantato a metà nel decennio di appartenenza e a metà nella ricerca di un blasone che non avrà mai, per mancato diritto di nascita. Sicuramente la presente edizione costituisce un passo avanti dal punto di vista del sound, benché ovviamente la vituperata versione originale annoveri già degli estimatori in nome della purezza primigena a opera del succitato Ernie C., chitarrista dei Body Count. Volete però un paio di esempi a supporto di quella tesi? Il remix abbassa la prepotentissima doppia casa di Cozy Powell sotto il parlato di Ice-T anziché elevarla a volumi esagerati come dovrebbe essere, e in più l’assolo di ‘I Won’t Cry for You’ è completamente stravolto! Sacrilegio, da un lato, per quello che è forse il pezzo più bello dell’album (nonché la ballad “definitiva” dell’era Martin), ma poco male, visto che invece di avere un solo assolo da manuale di Tony Iommi ora ne abbiamo ben due, l’originale e il remix…

End of the Beginning, Beginning of The End
Lungi da me dirvi cose tipo “buy or die” in quest’occasione: non devo convincere proprio nessuno, quanto piuttosto mettere sul tavolo i miei proverbiali due centesimi su ‘Anno Domini 1989 – 1995’ e più in generale sull’era Martin. Benché abbia luci e ombre di per sé, questo lasso di tempo rappresenta un tassello fondamentale sia per l’evoluzione del sound di Iommi e del Sabba Nero, sia per l’hard’n’heavy in generale, dotato com’è di splendide pagine scritte da una formazione non sempre fissa ma finalmente ferma su alcuni perni fondamentali, dopo l’instabilità degli anni precedenti. Poi, inevitabilmente in me scaturisce il valore affettivo per quelle bacchette di Cozy Powell viste in gita scolastica a Malta, incorniciate assieme al vinile di ‘Headless Cross’ in uno dei posti toccati dal tour dei Nostri, per il video di ‘Get a Grip’ con le lacrime di coccodrillo e con una grafica che oggi fa sorridere, ma che per noi all’epoca era tutto, o ancora per i racconti dei fortunati avventori del live a Firenze del 1994, dove in apertura c’erano i Cathedral all’apice. Va anche detto che l’Italia è stata terreno fertile per questa incarnazione dei Sabs, il che non è esattamente un punto a favore della loro notorietà internazionale – Gene Simmons diceva che il singolo di ‘I’ dei Kiss ebbe il discusso merito di essere entrato nella classifica italiana, e a questo punto speriamo che Iommi e soci conservino un ricordo migliore del nostro Paese (altra coincidenza, anche loro scriveranno una ‘I’ di maggior fortuna in quegli anni!). Non ci resta che attendere un’edizione in 12″ o 10″ delle sparute bonus qui presenti – e ora disponibili solo in CD, scelta che più old fashioned non si può – nonché, vecchia scuola per vecchia scuola, nell’uscita della terza parte della VHS ‘The Black Sabbath Story’, no? Anche se non si può mai dire cosa bolla nel pentolone magico del mancino più geniale di tutta la storia della chitarra elettrica…

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