Decades of Aggression: luglio 2024

Il 05/08/2024, di .

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Decades of Aggression: luglio 2024

Tra le Olimpiadi, il sole che picchia e la sabbia che scotta, anche oggi siamo catapultati dal mese di luglio 2024 al mese di luglio di due, tre o addirittura quattro decadi fa. Se è vero, come è vero, che di dischi in piena estate ne escono pochi – e un recensore se ne accorge subito, allorquando inizia a fare pulizie sul desktop e a rispolverare la vecchia, cara idea di andare al mare – è anche vero che nel lotto di questo mese ci sono un po’ di release fondamentali per un motivo o per un altro, perciò… sotto con l’elenco!

Anche se la Nippon Columbia lo aveva pubblicato a gennaio dello stesso anno, è a luglio 1984 che il quarto album dei Loudness, ‘Disillusion’, esce nell’emisfero occidentale. La differenza tra le due release è il fatto che il buon Minoru Niihara, vocabolario alla mano e coadiuvato da Tommy McClendon per le traduzioni, ricanta i pezzi in inglese a favore del mercato internazionale, una mossa che sarà resa definitiva dal successivo e roboante ‘Thunder in the East’ per giungere alla parentesi con Vescera. Al di là di questo non trascurabile particolare, ‘Disillusion’ è un disco chiave per la carriera dei nipponici, dosando sapientemente episodi speedy come ‘Esper’ e momenti di pura atmosfera orientale come ‘Ares’ Lament’ (dall’Egeo al Pacifico è un attimo, per gli artigiani del Sol Levante), fino a firmare uno dei grandi classici della band, quella ‘Crazy Doctor’ collocata in apertura nella prima edizione e qui invece seguita dall’intro ‘Anthem (Loudness Overture)’. Il tutto ovviamente con un Akira Takasaki sugli scudi, a rileggere il manuale dello shredder californiano sotto le lenti dell’Impero…

Magai qualche purista storcerà il naso, ma una delle date più importanti riportate da questa rubrica è l’uscita di ‘Mucchio selvaggio’, split tra Negazione e Declino. Un momento importantissimo per la scena torinese, una delle città che darà il tempo all’intero movimento hardcore italiano, nonché un lavoro che è una vera e propria pietra miliare. Il rischio è quello di sottovalutare l’apporto del Declino (al singolare, come ama definirlo il bassista Silvio Bernelli, poi negli Indigesti: occhio all’emozionante libro ‘I ragazzi del Mucchio’ per saperne di più e per una lettura sempre piacevolissima!), ma la sola ‘Eresia’ basta già a calarsi in una realtà industriale e straniante qual era (ed è) quella della Motorcity nazionale. Sul versante Negazione… beh, che dire: vi basti sapere che per il sottoscritto la poetica della band è già tutta qua, nei riff secchi e disperati di ‘Omicida 357 Magnum’, ‘Alibi’ e ‘Chiuso in te stesso’, nel cantato lacerante di Guido “Zazzo” Sassola su ‘Irrazionalità sconnessa’, ‘Maggioranza / Minoranza’ e ‘Plastica umanità’, nonché nella versione embrionale di quella ‘Tutti pazzi’ che troverà compimento nel successivo 7″ a suo nome. Tax si mostra sin da qui sapiente architetto di accordi e passaggi che simboleggeranno un’intera scena e ispireranno generazioni a venire, assieme al basso pulsante del compianto e mai troppo incensato Marco Mathieu…

Per una digressione obbligatoria c’è un capisaldo che più ortodosso non si può: lo stesso giorno (2 luglio 1984) usciva ‘The Last in Line’ di Dio (o “dei” Dio? Non si è mai capito, o meglio non lo ha mai capito Vivian Campbell…). Probabilmente la primissima cosa che ho sentito a opera dell’immenso folletto dell’Upstate New York – e infatti la title track e ‘Evil Eyes’ restano tra i miei anthem simbolo dell’heavy metal – ‘The Last in Line’ è il degno successore dell’importantissimo ‘Holy Diver’, arrivando addirittura a superarlo secondo alcuni (indovinate chi? Ehm, ehm…). Classifiche sterili a parte, ‘The Last in Line’ è uno di quei dischi (manco a dirlo) che trasuda HM da tutti i pori, non solo per l’affabile Murray che campeggia in uno scenario evocante distopie passate e future (come si evince anche dal videoclip della title track), ma anche per la caratura dei pezzi qui presenti, tra cui oltre ai già citati emergono pezzi da novanta come ‘I Speed at Night’, ‘One Night in the City’ e ‘Egypt (The Chains are on)’. Per non parlare di ‘We Rock’, una delle opener perfette a cui il Nostro ci ha abituato molto bene nel corso di una carriera pluridecennale, sia da solista che con Rainbow e Black Sabbath. Un merito sottolineato da una voce graffiante e da brividi che qui va comunque spartito in parti uguali con il fido comprimario Jimmy Bain, con il fabbro ferraio Appice – fautore di un drumming spettacolare e riconoscibile a chilometri – nonché dalla chitarra del succitato Campbell, uno dei maggiori simboli di un sound pienamente anni ’80 e aperto alle nuove potenzialità dello stellare decennio!

Come dite? Non avete mai preso seriamente gli Stryper? Tranquilli, non è grave… anche io ero come voi! Questo non per dire che la corazzata giallonera di Michael Sweet sia tra i miei ascolti quotidiani, ma per riaffermarne l’importanza nell’evoluzione di un certo sound (e perché no, anche di certe tematiche) all’interno dell’hard’n’heavy a stelle e strisce. Che poi la componente religiosa sia un tratto che più americano non si può, quello è anche vero… in ogni caso, l’EP ‘The Yellow and Black Attack’ degli ormai ex Roxx Regime è una di quelle release che ha in sé i germi e la sana irruenza dell’evoluzione di una formula che verrà poi affinata almeno nei primi due full length: ne è esempio l’opener ‘Loud ‘N’ Clear’, dichiarazione di intenti del Christian metal ma anche protoanthem dal riffing roccioso e ben coronato dall’angelica (!) voce di Sweet. E pensare che in gioventù usavo i loro dischi come frisbee…

Di ‘Ride the Lightning’ dei Metallica ha diffusamente e approfonditamente parlato il sempre ottimo Gianfranco Monese, perciò vi rimando al suo esauriente articolo per quello che è sicuramente il disco più importante di questo almanacco di luglio. Ci basti qui citare il divertente siparietto di Hetfield e soci in occasione del debutto dal vivo della mai troppo amata (da loro) ‘Escape’ nel 2012, quando i quattro eseguirono l’intero disco dal vivo all’Orion Music and More Festival. “Potete cantarla con me, se volete… ma è meglio se non lo fate, in realtà!”, dice un Hetfield tra il divertito e il disincantato…

Gli anni ’90 si aprono nel modo meno “anni ’90” possibile in questo mese, poiché il 4 luglio esce il ‘Greatest Hits’ dei Whitesnake, una raccolta concentrata essenzialmente sulla produzione di matrice americana della band di David Coverdale, assieme a una manciata di B-sides e versioni alternative. Quindi, largo spazio a ‘Slide It In’, a ‘Whitesnake’ e a ‘Slip Of The Tongue’, una selezione che appare fuori tempo massimo nell’era dei camicioni ma che porta rinnovato interesse per il Serpente Bianco dopo lo iato seguito all’ultimo tour mondiale e al progetto Coverdale/Page dell’anno prima, tanto che il gruppo si riforma per alcune date europee. Vedremo anche in Italia questa versione della band costruita sui punti fermi Vandenberg e Sarzo assieme al nuovo innesto Warren DeMartini, anche se al Sonoria Festival l’ensemble non sembrava poi così compatto come lo era stato al Monsters bolognese di qualche anno prima. Era lo stesso leader a non essere convinto di questa nuova incarnazione della band, che infatti ritroverà progressivamente una direzione negli anni a venire, dopo aver smaltito la sbornia a stelle e strisce e aver parzialmente ritrovato le radici hard/blues che avevano fatto la gioia dei fan orfani dei Deep Purple alla fine degli anni ’70. Personalmente, ne ho recuperato una copia proprio di recente e – pur comprendendo a distanza di tempo il taglio americaneggiante della selezione – ho riflettuto sul fatto che pesasse comunque l’assenza di qualsivoglia estratto live dal tour dell’omonimo, con Vandenberg e Campbell alle chitarre: un periodo definito come “poco prolifico” dal leader, ma che ha comunque un’importanza storica come “anello mancante” nel passaggio da Sykes a Vai (tutti pesi massimi dello strumento, manco a dirlo). Che poi, buona parte dei singoli di quel periodo di “sbornia” era costituito da materiale storico oppurtunamente patinato e cotonato, ma si sa…

Ta-daa! Siamo negli anni ’90 e anche le sonorità più estreme subiscono profondi cambiamenti, neanche il tempo di aver raggiunto l’Olimpo dell’HM con i massimi esponenti del death metal europeo e americano che hanno scalzato il thrash dall’interesse dei kids più ribelli (che poi si rivolgeranno al black norvegese di lì a poco). Tempo di contaminazioni e di ritorno a origini antiche, e in questo gli scandinavi sono sempre stati maestri… ne sono esempio i finlandesi Amorphis, che con il secondo album ‘Tales from the Thousand Lakes’ arricchivano il loro sound grazie a innesti melodici (come avveniva nella scena di Gothenburg nella vicina Svezia) ma anche grazie a un impiego dei sintetizzatori dal sapore vagamente prog e al recupero di melodie e suggestioni risalenti alle tradizioni del Paese nordico. Non è un caso che il disco sia un vero e proprio concept dedicato all’epica finlandese del diciannovesimo secolo e che il singolo ‘Black Winter Day’ dispiegasse tastieroni a profusione, con un effetto straniante che dinanzi alle stridenti clean vocals di ‘Into Hiding’ ci fece definire tra amici il disco come “death metal alla Guns N’ Roses”. Scherzi a parte, l’omaggio alla fantastica Terra dei Mille Laghi resta una pietra miliare e un punto di riferimento per la band stessa, mentre la già citata ‘Black Winter Day’ è a tutti gli effetti uno dei brani simbolo del periodo, assieme a ‘Nephente’, a ‘Pity the Sadness’ e a ‘The Cry of Mankind’. Metteteci poi anche ‘Love You To Death’, presa a piene mani dall’altra parte dell’Oceano, e avrete una compilation gothic d’annata che resiste stentorea al passare degli anni…

Ricordo che a livello di fredde statistiche gli Overkill siano stati il primo gruppo thrash metal a raggiungere il traguardo dei dieci dischi in studio e roba simile. Questo la dice lunga sulla prolificità di D.D. Verni e soci ma anche sulla elevata probabilità che lo strafalcione o il passo falso siano dietro l’angolo… rischi del mestiere, riassumibili nel vecchio adagio “chi fa sbaglia, chi non fa non sbaglia mai”. Ammettiamolo, l’ex-quartetto-ora-quintetto del New Jersey ci sta da sempre simpatico, ma al di là di queste considerazioni di pura cameraderie devo aggiungere che ‘W.F.O.’ è tra i loro primi dischi da me mai ascoltati in assoluto, eccezion fatta per il seminale Ep dal vivo ‘!!!Fuck You!!!’: siamo a tutti gli effetti nell’era Gant/Cannavino, la coppia di asce che sostituì lo storico chitarrista Bobby Gustafson e che fu autrice dell’amatissimo ‘Horrorscope’ e del controverso ma affascinante ‘I Hear Black’. E poi c’è ‘W.F.O.’, denso di pezzi anthemici come ‘Under One’ o ‘Bastard Nation’, bordate acide come ‘The Wait/New High in Lows’ o ‘Gasoline Dream’ e bangers thrash al 100% come ‘Supersonic Hate’, l’opener ‘Where It Hurts’ e ‘Fast Junkie’, il cui videoclip incredibilmente all’epoca trovò spazio in una trasmissione pomeridiana di MTV, mi pare si chiamasse “Coca Cola Report” o qualcosa di simile. Da allora ci davvero siamo evoluti o no, come pubblico o come servizi di broadcasting in generale? Bella domanda… so solo che ‘W.F.O.’ resta a tutti gli effetti ciò che ci si può attendere da un disco degli Overkill esattamente come molto più tardi lo saranno ‘Ironbound’ e ‘The Electric Age’, e tanto basta.

Come affermavo all’epoca della monografia su ‘The Dark Ride’, sono poche le band che possono dire di aver schierato non una, ma due formazioni classiche nel corso della loro carriera. Una di queste sono ovviamente gli Helloween, e la “seconda giovinezza” della band coincide con l’avvicendamento tra Michael Kiske e Andi Deris nel corso degli anni ’90, fermo restando il relativamente nuovo innesto di Roland Grapow e l’arrivo di Uli Kusch dopo un passaggio negli Holy Moses e uno nei cugini Gamma Ray. E a proposito di Gamma Ray, se la palma del cosiddetto “Keeper 3” va al loro scoppiettante debut ‘Heading for Tomorrow’ va anche detto che ‘Master of the Rings’, il primo disco dei “nuovi” Helloween non è da meno, in quanto a carica e in quanto a superiorità nei confronti dei due precedenti, interlocutori capitoli discografici delle Zucche. Oltre alla scelta di mettere a inizio tracklist uno strumentale dalle intenzioni vicine ai Keepers come ‘Irritation (Weik Editude 112 in C)’, il lotto di grandi pezzi qui presenti è particolarmente ampio, come ‘Sole Survivor’ e ‘Where the Rain Grows’, la divertente ‘Perfect Gentleman’ che dispiega il tipico homor amburghese dei cinque, la stoccatina a Kiske targata ‘Mr. Ego (Take Me Down)’ e la tenera ballad ‘In the Middle of a Heartbeat’ che non fa altro che confermare le doti canore dell’ex Pink Cream 69. In altre parole, il primo asso di un poker degno di note che verrà messo a segno dai senatori Weikat e Grosskopf, prima del prematuro cambio di line-up che spariglierà ancora una volta le carte…

Per la quota anni 2000, nientepopodimeno che gli svedesi Dream Evil e il loro terzo disco ‘The Book of Heavy Metal’! Sono assolutamente sicuro che molti di voi ricorderanno il tamarrissimo video della title track (poi sottotitolata ‘March of the Metallians’!) che mandavano non più su MTV/Videomusic/TMC2/Viva2 ma su Rock TV, assieme a una altrettanto tamarra cover di ‘Holy Diver’ (no, non erano né i Liliac né Paul Gilbert, erano i Killswitch Engage) a cui si aggiungeranno i singoli dei Coheed and Cambria e dei Wolfmother. Al di là del testo più manowariano dei Manowar, la chicca legata al gruppo è la presenza in formazione del batterista Snowy Shaw, mai troppo incensato per il suo operato con King Diamond, Mercyful Fate e Memento Mori…