Giovanni Versari, dalla passione innata per la Musica all’arte del Mastering

Il 17/04/2024, di .

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Giovanni Versari, dalla passione innata per la Musica all’arte del Mastering

In un sabato soleggiato di Marzo si sono aperte per Metal Hammer e per i nostri lettori, le porte dello studio di mastering ‘La Maestà’ di Giovanni Versari, uno dei padri del mastering italiano e un professionista della produzione audio dall’esperienza ormai ultra trentennale dentro e fuori i confini nazionali. Dai big della musica italiana al Grammy quello con i Muse, passando per l’alternative nostrano, circa due ore per conoscere la sua storia, per parlare della tecnica del mastering e per avere un punto di vista trasversale sulla Musica tra arte e tecnica. 

Partiamo dall’inizio della tua storia: come è nata la passione per la musica e come sei arrivato al mastering?
“La passione per la musica nasce da quando ero bambino. Non sono figlio di musicisti e i miei genitori non ascoltavano particolarmente la musica, quindi la passione mi è venuta così da dentro. Non è che me ne lamenti, ma diciamo non mi sono ritrovato in casa una collezione di musica da ascoltare quindi me la sono proprio andata a cercare. Fin da quando ero piccolo piccolo sono partito dalle cassettine perché era la cosa più abbordabile, poi piano piano sono passato ai vinili. La vera fortuna questo sì da parte della mia famiglia, è stata quella di avermi mandato quando ero molto giovane all’estero e questo sicuramente mi ha aiutato molto. Prima un anno di scuola e di vita in Canada, avevo 12 anni, lì mi si è aperto un mondo anche soprattutto nella musica. Vedere il mondo americano a 12 anni e scoprire la produzione della musica lì mi ha sicuramente aperto la mente. Prima avevo visto qualche concerto in Italia da ragazzino, però lì ho visto spettacoli di un certo livello con i laser a Toronto, proprio un altro pianeta, grande il divario. Mentre adesso se tu vai a Milano, o a New York, Londra, si ci sono delle differenze ma non sono così abissali. All’epoca quindi quello sicuramente mi ha stimolato ad andare alla ricerca di qualcosa di più di quello che avevo intorno a me. Da piccolo avevo cercato di avvicinarmi alla musica da musicista, solfeggio e pianoforte quando avevo sette o otto anni, ma poi dopo da ragazzino ho riprovato ad avvicinare la musica suonando il basso e ho avuto una band nella quale poi piano piano sono sempre stato quello che gestiva i bottoni, quindi da lì è nata la mia passione nel seguire più la parte tecnica. Tutti questi interessi hanno un filo conduttore comune, un grande ascolto di musica che ho sempre fatto da quando ero ragazzino, tantissima musica di tantissimi generi diversi. Dopo l’esperienza in Canada, i miei genitori mi hanno mandato tutte le estati in Inghilterra per 5/6 anni che voleva dire stare due mesi in una famiglia dove comunque avevo la libertà di uscire, di fare le cose classiche del turismo e dei musei, andare ai concerti, e vivendo anche un’esperienza da giornalista tra virgolette, perché sapendo l’inglese e avendo un sacco di amici in Italia che avevano negozi di dischi e che scrivevano per le prime riviste o fanzine italiane, praticamente facevo l’inviato. Artisti incredibili, cioè da Robert Wyatt, leader dei Soft Machine, a Jaco Pastorius, Annette Peacock, tutta la scena industrial londinese ho intervistato, Nico dei Velvet Underground, Julian Cope, Genesis P-Orridge, il leader dei Throbbing Gristle, 23Skidoo e Test Department e tanti altri. Un sacco di gente e questo chiaramente mi ha portato a frequentare locali ma avevo tra quattordici e sedici anni. Inoltre ai tempi io ascoltavo molto un’etichetta che mi piaceva tanto che faceva Dub che era molto innovatrice e che si chiamava On-U Sounds e guardando nei loro vinili, ho visto che la loro sede era vicina dove abitavo io a Londra e quindi sono andato un giorno a bussargli alla porta che avevo 14 anni. Il direttore è rimasto ovviamente colpito, si chiamava Adrian Sherwood, produttore inglese di Dub, ma che ha prodotto anche i Primal Scream e anche dischi italiani, come quelli degli Almamegretta. Lui è rimasto così stupito che oltre a concedermi un’intervista, mi ha anche portato in studio e quindi lì la mia prima esperienza, per giorni con lui a vedere come funzionava uno studio. Quella è stata sicuramente una porta che mi ha aperto molto il mondo della parte tecnica della musica. Tra l’altro ci siamo continuati a sentire, mi ha sempre mandato i vinili della sua etichetta fino a che è esistita, e lui quando viene in Italia racconta sempre l’aneddoto del nostro incontro. Mentre finivo il liceo mi sono guardato un po’ in giro, cosa avrei potuto fare, non c’era all’epoca in Italia un percorso come quelli che ci sono adesso, non c’erano scuole per tecnici del suono, non c’erano neanche università. L’unica cosa che poteva interessarmi ma che era diciamo più finalizzata alla ricerca musicale più dal punto di vista accademico e tecnologico, era il Centro di Sonologia Computazionale dell’Università di Padova. Un laboratorio incentrato sulla ricerca della Musica Elettronica e sull’Elettroacustica, c’erano i primi elaboratori di sintesi elettronica con dentro macchine digitali molto ingombranti, che avevano motherboard con circuiti cablati a mano, con ventimila, trentamila collegamenti, che se si rompeva qualcosa era la fine del mondo. Laboratori che permettevano di fare la prima sintesi digitale dove ho seguito una serie di seminari con i migliori ingegneri italiani e ricercatori del settore. Quindi li mi sono appassionato anche a tutta la parte elettronica e di ricerca anche se è diventata più accessibile con i primi computer e i primi campionatori a fine anni ottanta, anni dove ero tra la fine del mio liceo e l’inizio dell’università”.

Quindi le prime esperienze in studio risalgono a questo periodo della tua vita?
“Quando sono andato a fare il primo anno di università a Bologna, ho seguito il primo e forse all’epoca unico corso di tecnico del suono tenuto da Maurizio Biancani, che era il fonico storico della Fonoprint e lì ho avuto una bellissima preparazione di quello che era proprio il lavoro di studio, cioè il lavoro pratico di registrazione e missaggio. Dopo questa esperienza ho avuto la possibilità di andare a lavorare in uno studio che cercava un assistente a Rimini e che aveva una sala di ripresa bella e per l’epoca una delle più belle regie di mix d’Italia. C’era un Solid State G 4000 che era un banco incredibile con automazione e total recall. Ho fatto l’assistente per un anno circa in questo studio dove sono transitati un po’ tutti gli artisti mainstream italiani dell’epoca e io lì mi sono reso conto di due cose: la prima, che non mi piaceva così tanto il lavoro di studio perché non ero così appassionato a stare così tanto tempo su un lavoro, che invece richiede la produzione di mix e recording, soprattutto se il materiale non è nelle mie esatte corde. Cioè tu stai tanto tempo a lavorare e a plasmare un suono che è vergine perché per quanto sia nella testa del musicista o comunque esca dai suoi strumenti, la registrazione è un’altra cosa. Quindi tu devi in qualche maniera plasmare un suono insieme al musicista, altre volte il musicista ce l’ha già e tu devi tradurlo in una registrazione, però comunque la traduzione non è diciamo che tu accendi un microfono e quello che tu prendi con il microfono esattamente poi assomiglia a quello che era l’esecuzione. Devi imparare tutta una serie di cose però non era quello che a me interessava. Seconda, è il fatto che mi sono accorto, e stiamo parlando del 1988, 1989, che in quegli anni dove si era passati dal vinile al cd digitale non c’era in Italia un passaggio fondamentale che io leggevo nei dischi stranieri che compravo, cioè il mastering”.

Siamo quindi al mastering?
“Ho cominciato a chiedermi ‘che cos’era il mastering?’, ma neanche il proprietario dello studio esattamente lo sapeva. Molti dei dischi, direi quasi tutti, che ho visto nascere e poi chiusi da un punto di vista del mix in quello studio, venivano finalizzati per avere il master da mandare in stampa per creare i cd ma non esisteva un computer in grado di scrivere un master, cioè esistevano già i computer per carità però non esistevano nei computer dei CD-writer, che chiamavamo negli anni novanta masterizzatori, quindi bisognava comporre il master sempre su nastro facendo semplicemente quello che si faceva a casa con le cassettine, quando da delle cassette si voleva fare una copia o una compilation. Quindi in studio io prendevo i brani e dal registratore 1 andavo nel registratore 2, componendo così la scaletta, con la distanza fra i pezzi e il volume ovviamente a scendere, perché nel digitale non si può salire a meno che non sei lontano dello zero. Quindi io componevo la mia scaletta e mandavo in stampa dischi che sono usciti esattamente come il mix e in quegli anni uscivano così perché non c’era un processo di mastering, che è un’ottimizzazione successiva alla fase di mix. Mi sono detto ‘ma come? non viene fatta questa parte di lavoro?’. Quindi ho iniziato a cercare come questa cosa si potesse fare e di nuovo la fortuna di poterla andare a vedere all’estero. Poi negli anni successivi, anche perché le macchine per fare questo lavoro qui costavano una follia, ho cercato delle occasioni per poterlo fare senza dilapidare un patrimonio. Ho avuto la fortuna di avere il contatto con questo corso che è stato finanziato dalla Comunità Europea che era sul restauro della pellicola che esiste tuttora a Bologna. A questo volevano affiancare il laboratorio del restauro del suono, mettendo a disposizione le attrezzature necessarie. Stiamo parlando del 1991/92,  quando ho scoperto che parallelamente a Milano anche Antonio Baglio, che è il proprietario dello storico studio milanese Nautilus, ha iniziato a fare un ragionamento e un percorso simile anche se con macchine e studi diversi . A quel punto ho realizzato che il mastering andava fatto usando una serie di macchine analogiche come si faceva storicamente nel cutting, ma sarebbe servita anche una workstation digitale, perché alla fine dovevi consegnare un master per duplicare un cd, e per farlo dovevi avere un sistema e un software adatto e che all’epoca si chiamava Sonic Solution con un masterizzatore per scrivere un “gold master”. In quel momento per fare questo il Sonic Solution era praticamente l’unica macchina sul mercato e che costava una follia, ma aveva anche tutte le funzioni di denoise /declick/ decrackle che quindi servivano anche per il restauro e la pulizia dopo acquisizione in digitale dell’audio di una pellicola, per una successiva ripulitura da quelli che potevano essere rumori e disturbi. Di fatto con la stessa attrezzatura si potevano fare entrambe le cose, restauro, editing e finalizzare il mastering di un disco. Quindi io ho avuto da subito la visione di aprire un laboratorio del restauro del suono a cui affiancare anche l’attività di mastering. Il laboratorio/studio chiamato Officine Sonica è stato a Bologna per quasi tre anni con un altro paio di persone che erano con me. Piano piano ho fatto un po’ di dischi della scena bolognese hip hop, poi i primi dischi di pop e piano piano ho conosciuto la scena milanese, dove ho iniziato a lavorare con una band, i La Crus anche per i loro concerti, siccome mi piacevano particolarmente. Il live penso che sia per quanto possa sembrare strano, forse la cosa più vicina al mastering, perché anche lì c’è una visione più di insieme, il risultato poi finale è che tu devi far suonare bene il tutto. In questo senso secondo me è più vicino all’immediatezza e alla finalizzazione del mastering”.

Primi contatti con la scena milanese, quindi in questi anni ha inizio l’esperienza del Nautilus?
“Si, grazie a questa band poi ho avuto la possibilità di conoscere Antonio, perché abbiamo deciso di masterizzare il secondo disco al Nautilus, uno studio bellissimo appena aperto a Milano. Dopo poco Antonio mi ha proposto di lavorare insieme quindi finita l’esperienza a Bologna sono venuto a Milano e dove ho passato 15 anni insieme ad Antonio, a Claudio e Francesca e un sacco di altre persone”.

Un percorso costruito quasi istintivamente per quella che era la tua visione insomma.
“Sì, non è stato un percorso molto lungo, per arrivare dall’inizio nel 1987, fino a quando avevo il mio primo studio di mastering nel 1991-92. Quindi sono stati 4/5 anni nei quali io ho cercato di capire prima cos’era il lavoro di fonico di studio, poi che c’era un altro lavoro che era tra l’altro più vicino alla mia sensibilità, che è quello del mastering.  Secondo me nel mastering “puro”, uso questo termine non vorrei che fosse frainteso, puro nel senso che studi e persone che fanno solo mastering e non fanno altro, perché poi ci sono tante sfumature e tante persone che adesso fanno un po’ tutto, che va bene ci sta vista l’evoluzione della produzione, però è un altro modo di vedere le cose e impostare il lavoro. Chi fa solo mastering o solo cutting, è una persona che secondo me ha un’attitudine e la sviluppa, perché se non ce l’ha fa la fatica. Cosa vuol dire? Vuol dire che il mastering non lavora su una materia vergine, lavora su una materia che è già in dirittura d’arrivo, è già stata confezionata e plasmata, quindi chi fa mastering deve in qualche maniera intuire dove quella cosa vuole andare, facendo quello che serve, può essere tanto o può essere poco, e deve per forza di cose avere una conoscenza ampissima della musica e deve soprattutto piacergli ascoltare tantissima musica diversa perché è difficile nel mastering che in un mercato come quello europeo si possa lavorare ad un solo genere musicale. Forse nel mercato americano un pochino di più potresti, ma anche lì lo trovo comunque limitante, e i fonici di mastering più importanti o più conosciuti sono comunque generalisti, non fanno un genere e basta. Il mercato non ti permette in Europa di fare il fonico solo di metal o solo di jazz. Si potrebbe anche o forse faresti fatica ad andare avanti, forse se sei proprio bravissimo puoi, però all’estero qualcuno c’è. Per esempio in Brasile conosco un fonico di mastering che chiaramente è specializzato nella musica Sud Americana lui fa praticamente solo la musica brasiliana storica. Però il mercato brasiliano è enorme…. In America conosco dei fonici che fanno solo musica metal, musica estrema o solo elettronica per esempio, però sono mercati così ampi che te lo permettono. Allora chi fa mastering puro, nel senso che ha proprio scelto di fare mastering nella vita, è di solito una persona che è in grado di gestire qualunque genere, poi è chiaro che ha i suoi gusti. Però i suoi gusti non riguardano i generi secondo me, sono un po’ onnivori, e io sono una persona onnivora, perché fin da quando ero ragazzino io ascoltavo veramente di tutto. Poi c’erano le cose che mi piacciono di più in ogni genere, però io come vi ho raccontato, ho fatto musica elettronica contemporanea, ascoltavo jazz, andavo ai concerti rock, ai concerti punk, ai concerti metal, che avevo 12, 13, 14 anni e a seguire ancora oggi, quindi passo dai concerti di musica estrema ai concerti di musica jazz classica e pop senza problemi … diciamo che la musica pop più banale l’ho sempre un pochino più ascoltata meno. La musica pop fatta bene invece mi ha sempre più interessato, però deve essere di qualità…. Adesso non voglio fare dei nomi, però insomma…”

Ecco, ci fai qualche nome?
“Se mi portavi a vedere Michael Jackson ci andavo volentieri, e sono andato a vedermelo, se andavo a vedere Prince o Madonna , andavo e vado volentieri. Ci sono anche artisti contemporanei che mi piacciono e che sono molto interessanti, ad esempio The Weeknd, se vogliamo parlare di uno recente, sicuramente un’artista pop eccelso, anche se poi non tutto quello che produce mi fa impazzire… però ci sono tante cose nel pop belle che non sono scontate, ma quelle più banali non mi hanno mai affascinato troppo. Poi alcune cose con gli anni, anche che magari avevano un po’ sottovalutato, mi sono reso conto che erano valide . Ad esempio nel loro periodo d’oro io non è che ero grande fan di Duran Duran, ma andando a riascoltarli nel tempo sicuramente musicalmente avevano delle cose valide, però in quell’epoca lì mi sembravano troppo commerciali. Poi mi sono reso conto cacchio se c’era e c’è di peggio oggi”.

Infatti c’è sempre questa dinamica che poi col tempo…
“Sì sì, col tempo, perché magari all’epoca c’era tantissima roba fatta bene, non importa che sia pop, secondo me l’importante è la passione. E quindi quello che mi ha guidato in generale è sempre stata la passione, perché il mio lavoro non è che non ha creatività. La creatività non sta in quello che faccio, ma in come lo faccio. Nel mastering secondo me questa è la differenza che molti, ed è per quello che molti secondo me che si approcciano al mondo dell’audio, non possono secondo me capire se non lo toccano con mano o se non ce l’hanno dentro. Io credo che questa cosa io ce l’ho. Sicuramente l’ho sviluppata, ma ce l’avevo dentro fin da quando avevo 10-12 anni che ascoltavo tantissimo, avevo le cassette di musica, avevo una cassettina con dentro De André, la Rettore, una con Paolo Conte e qualche straniero come Beatles e Pink Floyd e avevo 10 anni, capito? E quindi già lì spaziavo e questa cosa quando ho iniziato ad averne 12-13-14 anni per arrivare ad oggi è diventata estrema.

C’è stato quindi un percorso di crescita per te su più fronti?
Quello che ho sviluppato è la capacità di mettere creatività nel come fare a finalizzare un lavoro, perché quella registrazione vada al meglio per quello che voleva essere lei, ma non devo cambiarla io, perché se quello che arriva a me non è già ben indirizzato vuol dire che c’è un problema, vuol dire che non hanno lavorato bene prima. In questi casi non è che non si può fare, si può fare ma è più complicato. La prima domanda che io faccio sempre a chi mi propone un lavoro e non ci conosciamo è ‘sei contento del mix?’, perché se non sei contento del mix è meglio che lo sappia, così almeno so e non interpreto male. Perché secondo me se tu mi hai dato una cosa di cui sei contento sarà chiarissimo, ma se tu mi hai dato una cosa di cui non sei contento è meglio che me lo dici, così io so, perché se no non riesco a posizionarla. L’esempio nel metal sarebbe ‘quanti colori diversi esistono nel metal?’, cioè c’è quello che vuole le bassone, c’è quello che vuole essere tutto smilzo, tutto puntato, se tu non hai ascoltato tutti i vari generi e colori del metal, come fai a masterizzare una roba metal? Cioè ti arriva una roba e capisci se dici no c***o suona male, no perché suona male? La volevano così, la volevano tutta grossa scura, no la volevano tutta chiara o tutta distorta, devi aver ascoltato tanti dischi metal per poter identificare subito se quello che ti arriva è giusto da un punto di vista del mix e delle scelte”.

Da quello che mi racconti capisco che è importante il concetto di trasversalità, perché alla fine conta il percorso che hai fatto, pesano le  competenze, ma anche il fatto di aver toccato diversi ambiti per avere una somma di un certo tipo. Hai disegnato il tuo percorso perché di fatto ai tempi era avanguardia, quindi fine anni ’80, inizio anni ’90.
“Questo lavoro era avanguardia ai tempi, certo. In Italia ci sono stati sicuramente dei fonici degli anni ’60, anni ’70, c’è stata veramente tanta qualità secondo me, per carità. L’arrivo del digitale in Italia, per quello che riguarda gli studi è stata una rivoluzione, come in tutto il mondo è stato uno shock, ma la fase di ulteriore finalizzazione non c’è stata molta gente che l’ha portata avanti subito, quindi in un certo senso era avanguardia, eravamo pionieri quantomeno. Soprattutto la mentalità secondo me, io non ho mai conosciuto personalmente uno degli storici tagliatori di vinile italiani, però ho conosciuto mastering engineer stranieri che essendo più grandi di me, avevano fatto i tagliatori prima. Ho saltato quella fase perché quando ho iniziato io c’era già il digitale, fare il taglio era rimasto appannaggio di certe persone. Ho sempre avuto l’idea più, ma non vi voglio parlare male, per carità, che questi tagliatori fossero un po’ i dottorini con il camice, cioè l’ingegnere col camice che faceva il taglio. Poi erano sicuramente persone competenti che sapevano tagliare, che facevano il loro, per carità. All’estero secondo me c’erano alcuni fonici che avevano già sviluppato questa cosa di lavorare molto sull’ottimizzazione del suono. In Italia erano più finalizzati a fare un prodotto che suonasse bene. Invece all’estero si era già arrivati a una fase in cui si facevano interventi sul suono che andavano a ritoccarlo anche tanto e non solo a scriverlo perfettamente”.

Nella vita di tutti noi appassionati di Musica, c’è quella band, quell’album che è stata la scintilla, che ci ha illuminato, è stato così anche per te?
“Ce ne sono tantissimi. Il primo che mi è venuto in mente, beh sicuramente i dischi di Gabriel, sicuramente erano dei dischi dove c’era tanta ricerca musicale. Dischi degli anni ’70, tantissimi, cioè tutta la discografia dei Pink Floyd, Led Zeppelin, i Beatles, cioè tutte opere che erano bellissime. Io sono andato a vedermi quando mi sono avvicinato alla parte tecnologica, come erano state registrate, cioè quello che si riusciva a sapere, leggere, ad avere informazioni. Poi comunque anche tutta la scena della fine degli anni ’80 e ’90 elettronica, industriale, punk, rock e grunge , molto interessante, e ad esempio questo fonico che vi ho citato prima, Adrian Sherwood, con la scena Dub, lui sicuramente era uno super sperimentatore, non solo tanto perché mischiava il sound giamaicano a quello occidentale, ma anche proprio per l’uso che faceva del sound, delle macchine. In chiave più metal i dischi dei Metallica. C’era il periodo degli anni ’80 per il metal, era quasi ricercato il sound da garage, cioè questo è stato un po’ la storia. Ci sono state varie fasi. Poi c’è stato il periodo Metallica che invece poi è diventata musica di massa, quindi lì sono arrivati ovviamente dei capitali diversi che hanno permesso anche delle produzioni diverse. Lì c’è stato poi praticamente un cambio epocale. Ho iniziato ad ascoltare sicuramente le produzioni più sporche, quelle degli anni ’80, quindi anche tutte le produzioni hardcore, americane, quelle robe lì. Ho visto anche un sacco di band a Bologna. E poi negli anni ’90 sì, sono arrivati più soldi, più cose, quindi tutte le band sono un pochino diventate più mainstream. E anche il sound è diventato più enfatico, si sono attrezzati in modo diverso”.

Ed ora un dispiacere per i nostri lettori e un mancato scoop per Metal Hammer. C’è stata una band storica del Metal che ti ha contattato, ma non possiamo citarla perché a loro hai dovuto dire di no. Possiamo dire soltanto che ha fatto la Storia del Metal ed è ancora in attività.
“Non è che ho detto di no, è che a certi artisti, il concetto è che non puoi dire neanche un si ma….! Che è anche un po’ il problema di questi ultimi tempi … ma in realtà per motivi diversi, legati alla frenesia delle uscite discografiche … i tempi sono diventati senza una programmazione, mentre all’epoca almeno di solito c’era una programmazione. Allora il no detto a questa famosa band è un caso estremo, perché in quel disco lì sicuramente erano arrivati lunghi per certi motivi e io non potevo per motivi personali farlo in tempi brevissimi come richiesto. Oggi spesso, in produzioni mainstream, anche straniere, è tutto last minute, non c’è più programmazione. Si decide di uscire, magari il lavoro si è pensato di farlo con altre tempistiche , poi all’improvviso il discografico decide che bisogna uscire quindi è tutto per ieri. E questa non è una cosa che fa bene alla musica. Se tu a certi artisti dici no, tu dici di no perché non posso domani, non perché gli dici di no, perché non voglio fare il lavoro con te. Nel disco in questione c’era una tempistica stringente, però ai big non puoi dire “Sì, ma”, devi dire “Sì” e basta. Però il vero dramma è che adesso anche nelle produzioni piccole, se tu gli dici “No, domani non posso” e vabbè sarà, la prossima volta. E’ così diventa tutto per ieri”.

Il futuro del mastering secondo te?

“Io non so quanto questo lavoro, ecco questa è un’altra cosa che non so se è il caso di dire… o come trovare un modo più romantico di dirlo. Io non so se questo lavoro continuerà ad esistere, perché il mondo sta cambiando, il mondo musicale intendo, e secondo me non so se è un bene o un male… il fonico di mastering che finalizza è un’esperienza diversa, ed è staccato dal resto del lavoro, ed è un plus che può esserci se è un orecchio diverso, un orecchio esterno, un’esperienza diversa, un modo anche di trovare soluzioni sempre che siano rispettose di quello che viene prodotto nel mix. In molti lavori è un plus, perché quello che fa un fonico di mastering può avere caratteristiche diverse da quello che potrebbe fare il fonico che l’ha mixato. Vuoi che chi lo ha mixato non sappia mettere un equalizzatore o finalizzare quello che ha in testa? Sicuramente sa farlo, la differenza è che i modi in cui lo faccio io, che sono specializzato in questo, e l’eventuale visione che posso avere … questa è la creatività del mastering , sono specializzato da 30 anni a fare solo quello, possono in molti casi trovare soluzioni che ti danno quella sfumatura in più che tu non avresti potuto avere perché sei ormai chiuso nella tua idea che è giusta sicuramente musicalmente, ma che non magari dà quella finezza, quel tocco in più, quindi la creatività sta in quello. Questa cosa qui sicuramente si sta un po’ perdendo, quindi sicuramente rimarranno dei fonici di mastering qua e là nel mondo però la vedo sempre più difficile la loro sopravvivenza futura perché vedo sempre più in questi tempi, per le modalità lavorative così veloci che vi ho detto prima, così mordi e fuggi che sono diventati sia l’ascolto ma anche il lavoro. Quindi il produttore che si è specializzato nel fare quel genere di hip hop, la trap, il metal, si finalizza lui i suoi mix e non andrà oltre. Questo purtroppo lo vedo come un lavoro che per quanto io ci ho messo la passione, non dico che finirà ma non avrà più una identità come una volta, incredibile”.

Tempo fa ho letto questa citazione, l’autore dovrebbe essere John Lennon: l’incisione, ovvero la registrazione su supporto audio, ha rappresentato per la Musica, quello che la scrittura ha rappresentato per il teatro e la letteratura. Una rivoluzione. Quindi vengono alla mente le prime incisioni dei bluesman afroamericani e gli studi di registrazione d’avanguardia degli anni ’60 in Inghilterra. Cosa ne pensi?
“Quello che ti posso dire sulla registrazione, che sicuramente esistono due modi per farla secondo me, uno è quello che è una fotografia esattamente di quello che è una esecuzione, l’altra sicuramente grazie alla tecnologia c’è la possibilità di sperimentare, si può far cantare anche gli stonati oggi …ahahaha….ma non è quello, è che la tecnologia a partire da quando l’hanno usata i Beatles in primis ha permesso di mettere e aggiungere strati compositivi che non sarebbero stati pensati, non sarebbero stati neanche immaginati senza l’uso della tecnologia, se non ci fosse stato un registratore multitraccia non si potevano realizzare, sarebbe stato necessario avere un’orchestra di venti o mille persone ma anche solo il pensarle, tagliare i nastri, mandarli al contrario, mille cose che sono state fatte nella musica grazie alla tecnologia e che oggi sono ancora più incredibili… Però io vedo che questi sono tutti strumenti per creare musica, la tecnica deve essere funzionale a creare nuove cose, nuova musica, nuovi stimoli che senza questa tecnologia non sarebbero stati possibili, quindi in questo ha perso sicuramente, però non è che quella è la verità o quell’altra è la verità. Sono tutti strumenti e tutto dipende da come si usano, molto tecnicismi in realtà servono per aiutare la fruizione della musica e renderla più vicina a quello che era il pensiero o la sensazione dell’artista, non la fotografia dell’artista. La finalità non deve essere quella solamente di “fare godere” un audiofilo, forse questo è uno degli aspetti meno interessanti, anche se tutte queste macchine che si usano negli studi di mastering sono il massimo tecnologico, da un punto di vista di una visione di un audiofilo sarebbero il massimo, perché si usano i migliori convertitori tra analogico e digitale, le macchine con la circuitazione più pulita nella catena di lavoro, nel caso che debba essere pulita, se invece la si vuole distorta, allora più efficace, con più trasformazione elettrica possibile, c’è il top della tecnologia, nello studio di mastering tu trovi il top, l’estremo di tutta la tecnologia di registrazione musicale, però non è finalizzato per fare un disco che suoni bene e basta , cioè si quello è importante, ma non basta godere solamente della parte audiofila . Bisogna invece cercare di portare a compimento nella maniera migliore un processo compositivo che va poi a finalizzarsi in una registrazione di un artista che vuole trasmettere un’emozione musicale, e questo secondo me è il nocciolo , tradurre al meglio le emozioni, altrimenti, secondo me se lo dobbiamo vedere a un livello tecnico diventa tutto molto riduttivo. Poi se c’è un disco che è registrato benissimo e suonato impeccabilmente e i suoi canoni estetici sono quelli proprio della migliore qualità sonora, come è stato quel disco sudamericano che ha vinto il Grammy e che parlando strettamente della musica era molto lontano dalle mie corde, quella roba lì sicuramente una catena di macchine top da mastering l’aiuta,  però quella era l’estetica di quel disco al di là della tecnica, la musica lì richiedeva quell’approccio ma non deve essere per forza una cosa finalizzata solo ad un estetica di perfezione sonora fine a se stessa“.

Un album italiano tra quelli da te masterizzati che mi è piaciuto in modo particolare è ‘A sangue freddo’ del Teatro degli Orrori, veramente con un sound eccezionale. Un tuo parere su questo lavoro e qualche aneddoto che ti viene in mente e ci vuoi raccontare sulla scena italiana.
“Come di tutti i dischi del Teatro e anche degli One Dimensional Man ho un ricordo molto divertente perché loro erano diciamo belli estremi all’epoca, piacevolissime persone ma anche belli pazzi quindi ho un ricordo sicuramente piacevole. Giulio è sicuramente un grande produttore, una persona che ha sempre osato, alle volte si divertiva a fare esperimenti e a chiedermi di spingere oltre l’inverosimile e poi magari pentirsene in un secondo momento, però sicuramente sono stati dei dischi dove sicuramente mi sono divertito tantissimo perché c’è stata una richiesta proprio di sperimentare, quindi cos’altro può esserci di divertente se non quello, piuttosto che l’ansia di dire dobbiamo fare una roba perché funzioni assolutamente come se avessimo una fantastica “bacchetta magica” . Quelli erano gli anni in cui la presenza degli artisti/produttori era una costante in studio perché il mastering diventava il punto in cui si chiudeva tutto, sicuramente si riversavano tutte le ansie della produzione e del successivo risultato. Alle volte si esulava quindi da quello che era usare le orecchie e sentire quello che c’era, ma prevalevano le ansie di funzionerà o non funzionerà. Quindi quando capitavano lavori come quello del Teatro o anche di altri dischi rock e metal è tutto molto più piacevole perché  hai la possibilità di sperimentare più liberamente. Un progetto molto interessante quello del Teatro degli Orrori. Suonavano anche più freschi di tante cose secondo me quei dischi, pur con alcuni difetti, perché difetti di ingenuità alle volte ci sono, però secondo me suonano più veri perché c’è una ricerca nella musica”.

Nelle tue diverse esperienze con l’estero, per esempio quella con i Muse con cui hai vinto un Grammy, c’è qualcosa che vuoi raccontarci, che ti ha segnato in positivo?
“Guarda l’esperienza di lavorare con l’estero ti apre fondamentalmente gli occhi sul fatto che benché noi ci siamo sempre sentiti in Italia, io stesso sempre consideravo un po’ l’Italia indietro rispetto a certe cose per quello che riguarda la musica. In realtà non è così. Nel lavorare e nell’avere scambi con persone che fanno lavori tecnici o comunque produttivi, con gli artisti stessi, non ho trovato divario, anzi è stato molto figo essere apprezzati e chiudere un lavoro come quello con i Muse, un disco che va a vincere un Grammy Rock dall’Italia. Addirittura da un posto sconosciuto come la mia sede dell’epoca, Tredozio un paesino nelle colline della Romagna. Mi è sembrata molto figa questa cosa e anche loro che non si siano fatti problemi o condizionamenti. Forse un pochino se li è fatti il fonico di mix che all’epoca non mi conosceva ma poi ha apprezzato il risultato e ora lavoro spesso a suoi progetti. La cosa più interessante secondo me è che lavorare con l’estero ti rendi conto che non cambia molto e addirittura alle volte non è che le competenze siano così diverse all’estero, assolutamente no. Quello che sta cambiando man mano all’estero come in Italia purtroppo è l’organizzazione, quello sì. In Italia c’era un po’ di organizzazione una ventina di anni fa, soprattutto anche perché lavoravo in una struttura che poi metteva un filtro, una studio manager che era molto blindata. Le case discografiche bene o male avevano una metodologia, adesso io non voglio parlare male perché questi ragazzi giovani che sono nelle case discografiche mi sembrano anche persone in gamba da un punto di vista musicale, ma sicuramente dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro no, spesso un disastro figlio dei tempi quindi questo è un po’ il gap che abbiamo noi, se vogliamo trovarne. Questa cosa sta cambiando anche all’estero perché mi arrivano un sacco di lavori all’ultimo, anche adesso c’è una band straniera che mi ha chiamato un giorno per l’altro”.

Una domanda che mi è venuta qualche giorno fa parlando con un mio amico appassionato di Musica per chiudere: come esistono magari nei generi delle declinazioni nazionali, a livello di mastering, c’è una sorta di scuola italiana? Ovvero, ci caratterizziamo per alcuni motivi o c’è un qualcosa di diverso rispetto quello che tu ascolti negli Stati Uniti, in Germania, in Inghilterra? Forse la parola adatta è stile, quindi esiste uno stile italiano di mastering?
“Secondo me questa cosa è abbastanza relativa un pochino alle varie differenze di cultura di un popolo, quindi non c’è una varietà di produzione, oddio… qui andiamo in un territorio in cui magari mi potrei esporre troppo, ahahah , però ti dico aspetti negativi e positivi … Allora secondo me nel mondo mainstream, a parte pochi casi, io parlo del mondo mainstream degli ultimi 15 anni, si è persa molta ricerca in Italia. Però la modalità in cui viene prodotta la musica secondo me dovrebbe avere dietro un fondo di ricerca che può essere il suono, può essere la scrittura, o può essere in entrambe le fasi. In Italia si è un po’ persa questa cosa nel nel mainstream, cioè c’è il pezzo, viene pensato prima e costruito a tavolino, e ci sono vari team sicuramente bravi e professionali ma tutto è un po’ omologato. Negli altri mondi musicali come può essere nella musica jazz, nella musica rock alternative e anche nella musica metal, c’è un pochino più secondo me di volontà di ricerca. Questo non vuol dire che quelli che producono il mainstream non sono capaci, non sono bravi, hanno sicuramente skill, non sto dicendo questo. Secondo me quello di cui spesso non si rendono conto è che per fare la musica pop che loro vogliono fare e che ha come riferimenti spesso l’estero, dove per fare quel suono magari c’è qualcuno che ha impiegato una settimana di lavoro per fare quel suono e non ha usato una libreria standard. Qui invece spesso si prendono suoni omologati, magari li si modificano un pochino, e si pensa che usando quella si ottiene lo stesso risultato. E la stessa cosa può essere secondo me nella scrittura/nell’arrangiamento. Quindi, questo insieme di cose secondo me fa sì che tante volte i brani italiani che guardano al pop purtroppo, secondo me suonano più banali, di quelli stranieri, pur essendo anche quelli brani semplici ma con una ricerca . Non stiamo parlando dei capolavori della musica, stiamo parlando di brani anche semplici , sia da una parte che dall’altra, però quelli stranieri se vado ad analizzarli sento che comunque c’è un grande lavoro di ricerca che li rende meno banali . Poi non è esattamente il mio gusto e magari va bene così …. Questa è a mio avviso la parte negativa della produzione italiana. Quella positiva invece è tutta una scuola di persone che invece  devono essere meno competitivi da un punto di vista della discografia e dei numeri, quindi sono riusciti a fare della ricerca e hanno anche, secondo me, ottenuto dei grossi risultati anche paragonabili a quelli stranieri e anche con un gusto diverso. Questo sì. Però è un peccato e soprattutto che questa cosa sia d’esempio per le nuove generazioni. Io quando  tengo delle masterclass, vado nelle scuole o nei seminari , ho come la percezione che si stia creando una generazione di produttori fonici che vanno un po’ in questa direzione, cioè nel fare il tutto un pochino standardizzato. Mentre secondo me questo è quello che fa veramente la differenza e in Italia forse questo c’è stato nella scrittura, ma non nella parte produttiva, tecnica. Secondo me all’estero spesso si divertono di più nella produzione, io non sono esterofilo, ma li sembra che si divertono per fare un suono anche banale. Si creano le condizioni per fare il lavoro al meglio in un certo modo e non si vanno ad individuare dei paletti che poi sono come una gabbia. Si divertono, cioè giocano nel fare musica che sia semplice, quasi banale anche ma almeno giocano. Qua invece devono spesso arrivare al risultato subito e questo leva freschezza ai progetti“.

Quindi il rischio è, per quello che dicevi prima, che il gap aumenti anche nel tempo?
“Sì, non voglio essere assolutista, sicuramente spero che non sia tutto così e spero di essere smentito presto, spero che qualcuno mi stupisca prima o poi. Secondo me manca questa ricerca, manca, soprattutto adesso che abbiamo tutta questa ondata infinita di rapper, trapper da classifica e quant’altro, io la sento tanto questa mancanza e non sento questa ricerca musicale che sento nei progetti stranieri. E questo me la appiattisce. Poi magari ci sono delle cose belle, altre meno belle, altre più banali, ma queste ci sono anche nei dischi stranieri. Se vai a leggere i testi di alcuni dischi stranieri potresti anche inorridire, però magari la musica è così interessante che rimani e l’ascolti lo stesso, cioè poi se gli analizzi dici “oh mamma mia”, ma rimangono comunque interessanti… invece qui alle volte la banalità di tutta la produzione ti impedisce di andare oltre”.

 

Leggi di più su: Giovanni Versari.