Decades of Aggression: marzo 2024
Il 20/03/2024, di Francesco Faniello.
In: Metal Truth, The Birthday Party.
Terzo mese dell’anno, tre decenni a spartirselo, ma quello che solletica in prima battuta il Vostro narratore è l’occasione sin troppo ghiotta di avere disponibile sul Tubo una versione della ‘Chanson balladée’ di Antonino Riccardo Luciani acconciata appositamente per il mese di marzo. Vi lascio in primis ai vostri ricordi (o alla curiosità, per i più giovani…):
Iniziamo dagli anni ’70 e da quello che viene spesso definito un disco di transizione alla corte del Re Cremisi, ‘Starless and Bible Black’. Stretto com’è tra due pesi massimi come ‘Larks’ Tongue in Aspic’ e ‘Red’, il secondo capitolo dell’ideale trilogia con Wetton e Bruford in formazione magari manca di un pezzo di spicco come ‘Exiles’, le due parti di ‘Larks’ Tongue in Aspic’ o i fantasmagorici estratti dal capitolo successivo di cui parleremo a tempo debito, ma esemplifica in maniera esemplare l’eclettica modalità di assemblaggio che Fripp stava sperimentando all’epoca, con sei degli otto pezzi tratti direttamente dalle frequenti improvvisazioni live dell’epoca, segno di un avvicinamento al jazz americano a scapito del classico sound progressive ma anche del superamento di nuove frontiere di improvvisazione, come testimoniato da ‘Trio’, ‘The Night Watch’, ‘We’ll Let You Know’ e dalle insolitamente heavy ‘The Great Deceiver’ e ‘Lament’. Un disco dei King Crimson da riscoprire assolutamente, assieme alla vasta collezione di concerti dal vivo dell’epoca in cui il violinista David Cross era in formazione, esemplificata dal quadruplo ‘The Great Deceiver’…
Cos’è per voi il doom? Il primo disco dei Black Sabbath assieme a ‘Master Of Reality’, i primi due dei Candlemass o magari il seminale debut dei Cathedral? In questa ideale linea di continuità che scorre attraverso uno spazio temporale di una ventina d’anni, non è in realtà possibile prescindere dagli americani Trouble, che nel marzo del 1984 giungevano al debutto con il loro ‘Psalm 9’. Impossibile negare l’importanza di pezzi come ‘The Tempter’, ‘Assassin’, ‘Victim of the Insane’ (poi inclusa su ‘Dark Passages II’, il sampler della Rise Above di Lee Dorrian) e ‘Bastards Will Pay’, caratterizzate da repentine accelerazioni che magari faranno storcere il naso ai puristi del Suono Lento, ma che sono perfettamente aderenti alla lezione sabbathiana. Per non parlare della title track, contenente il verso della King James Bible che dà il nome alla band, in una versione speculare e più “oscura” di applicazione delle tematiche cristiane al rock rispetto a quello che faranno gli Stryper in quegli stessi anni: “The Lord will be a refuge for the oppressed, a refuge in times of trouble”.
Ricordo ancora distintamente il commento di un amico all’attacco di ‘Assassing’ dei Marillion: “Ehi, ma questo è ‘Ceremony’ dei Cult!”. Vaglielo a spiegare che Astbury e soci sarebbero arrivati a quell’intro tribale (presente sull’album ma non nel video promozionale qui incluso) ben sette anni dopo, per non parlare degli Iron Maiden di ‘If Eternity Should Fail’ e del David Hasselhoff di ‘True Survivor’! Come affermato anche da Massimo Longoni su ‘Marillion – Tutta la storia: la biografia non autorizzata’, ‘Fugazi’ è il disco più marillico dei Marillion, talmente rappresentativo dell’era Fish che Steve “H” Hogarth si è sempre rifiutato di cantarne le composizioni dal vivo, sin da quando ha sostituito il gigantesco singer scozzese nella formazione. Funestato da vari problemi di gestazione, come l’instabilità di line-up prima dell’ingresso di Ian Mosley alla batteria e le session avvenute in un numero imprecisato di studi di registrazione, il secondo album dei Marillion è un capolavoro indiscusso che vale di per sé una carriera, dal prog estremo della ritmica di ‘Punch & Judy’ e ‘Emerald Lies’ alle dolcissime ‘Jigsaw’ e ‘She Chamaleon’ (poi ripresa a piene mani dai Cradle of Filth di ‘Nymphetamine Fix’!) alla carica heavy dell’opener ‘Assassing’ e di ‘Incubus’ (non a caso entrambe collocate a far bella mostra di sé nel live ‘Real to Reel’) fino alla dichiarazione di intenti conclusiva dell’articolata title track, incalzante nel suo crescendo e quasi una summa tragica di quanto ascolteremo nel successivo e fortunato ‘Misplaced Childhood’. Senza dimenticare le iconiche raffigurazioni dell’artwork di Mark Wilkinson, una vera e propria risposta in salsa prog all’operato di Derek Riggs!
Il marzo del 1984 è anche il mese definitivo per gli Scorpions, che centrano l’obiettivo della conquista dell’America da tempo perseguito. Infatti ‘Love at First Sting’ resta il loro record imbattuto in campo Billboard, raggiungendo la posizione numero sei e acquisendo lo status di doppio platino in pochissimo tempo. Si tratta indiscutibilmente del compimento del “nuovo corso” segnato dalla coppia di chitarre Rudolf Schenker / Mathias Jabs, un disco che mette a frutto la formula “a stelle e strisce” inaugurata sin dai tempi di ‘Lovedrive’ e che vedrà la perfetta consacrazione nel doppio ‘World Wide Live’ dell’anno successivo. Oltre agli arcinoti singoli ‘Big City Nights’, ‘Rock You Like a Hurricane’ e ‘Still Loving You’, come non citare la gemma ‘Coming Home’ (che qui beneficia di un’introduzione estesa che riprende il tema on the road caro ai cinque da tempo), la marziale ‘Crossfire’ (a cui non a caso sarà riservato il posto d’onore nelle orchestrazioni di ‘Moment of Glory’ agli albori del nuovo millennio) o la roboante opener ‘Bad Boys Running Wild’ con un Jabs subito a pieni cilindri? Tra le curiosità va annoverato che il buon Rudolf era pronto a giocarsi la “carta americana” con l’inclusione di Jimmy Bain e Bobby Rondinelli nella sezione ritmica (una mossa bocciata dal management, ma che era di uso comune per le band euroasiatiche che volessero trovare un posto al sole sotto la Statua della Libertà), nonché la scelta di una copertina iconica ricavata da una foto del celebre Helmut Newton che portò successivamente a designare un ennesimo artwork “alternativo” per il mercato USA. E a proposito di immagini forti, avete mai notato che il videoclip di ‘Rock You Like a Hurricane’ sarebbe stato fonte di ispirazione per ‘Engel’ dei connazionali Rammstein?
Chiusa la pagina degli Eighties, tocca a una serie di pesi massimi usciti nel decennio successivo. Si è discusso a lungo se nella discografia dei Soundgarden il podio toccasse a ‘Badmotorfinger’ o ‘Superunknown’, e la verità (ammesso che esista) non verrà certo fuori in queste poche righe. Personalmente ricordo ‘Superunknown’ come uno dei dischi “perfetti” di quella stagione, frutto di una band in stato di grazia che riuscì a mettere a segno un numero incredibile di tracce (per un album che dura ben settanta minuti!) con un numero elevatissimo di capolavori “nel capolavoro”, e questo al di là dei singoli inclusi. Dando spazio ai deep cuts, mi si lasci citare le accorate ‘Mailman’ e ‘Limo Wreck’, la carica punk di ‘Kickstand’ e l’eredità sabbathiana senza compromessi di ‘4th of July’, che seguiva un filone ben preciso tracciato sin dagli esordi del quartetto – non dimentichiamo che certa stampa specializzata definirà questo come il vero nuovo album dei Black Sabbath del 1994, in barba a ‘Cross Purposes’ uscito un paio di mesi prima. Un disco imprescindibile segnato da atmosfere plumbee e perfetto antesignano della tragedia che incomberà su Chris Cornell, col senno di poi. Ai più attenti non sarà poi sfuggita la versione di ‘Fell on Black Days’ presente sullo show radiofonico “Self-Pollution” curato dai Pearl Jam, poi ribattezzata ‘Black Days III’, totalmente diversa dalla tipica versione in 6/4 presente sul disco e riconoscibile praticamente solo dal tipico refrain post ritornello…
L’8 marzo 1994, nello stesso giorno di ‘Superunknown’ (pensate!) usciva ‘The Downward Spiral’ dei Nine Inch Nails, altro capolavoro imprescindibile della musica di quegli anni, nonché summa della poetica di Trent Reznor. Anche qui sono stati versati fiumi e fiumi di inchiostro: basti qui ricordare l’influenza sulla crescita artistica del leader esercitata dalla collaborazione con un chitarrista del calibro di Adrian Belew (che firmerà a sua volta il suo capolavoro con ‘Thrak’ dei King Crimson l’anno successivo), l’incredibile performance “infagata” dei NIN al Woodstock 1994 e l’insospettabile ripresa di ‘Hurt’, otto anni più tardi, da parte di un artista apparentemente distantissimo da quello stile, Johnny Cash.
Dell’omonimo dei Mötley Crüe ha parlato in maniera approfondita l’ottimo collega Gianfranco Monese, ed è alla lettura del suo articolo che vi rimando in questa sede. Il mio intervento ha la sola funzione di ribadire il mio particolare apprezzamento per questo lavoro “diverso” ma davvero ben fatto della band losangelina, nonché per condividere l’altro singolo estratto, quella ‘Misunderstood’ perfettamente in linea con lo spirito del tempo:
Giunti alla fine di questa carrellata, siamo al classico “last but not least” che stavolta risponde al nome di ‘Far Beyond Driven’ dei Pantera. Anche qui, tanto è stato detto e scritto su quello che è uno dei dischi cardine della band texana, del decennio in oggetto nonché dell’evoluzione stessa dell’HM, con una formula che spariglia le carte del groove metallizzato dei due capitoli precedenti per alzare il livello di violenza e tuttavia tornare in qualche modo alle sonorità più fangose del southern e alle origini del Grande Rumore che rimandano (e come potrebbe essere altrimenti?) ai sobborghi di Birmingham, a un chitarrista mancino con due falangi saltate e così via. Non a caso, l’album si chiude con una cover di ‘Planet Caravan’ dei Black Sabbath, una scelta priva di compromessi difesa a spada tratta dallo stesso Phil Anselmo nelle note esplicative allegate. Per il resto, a parte le arcinote ‘5 Minutes Alone’ e ‘I’m Broken’, ‘Strength Beyond Strength’ e ‘Slaughtered’ parlano da sole sul versante ultraviolenza (con quest’ultima che vede un Vinnie Paul sugli scudi, vero contraltare al Portnoy di quegli anni!), ‘Hard Lines, Sunken Cheeks’ e ‘Use My Third Arm’ sul versante sabbathiano e ‘Good Friends and a Bottle of Pills’ su quello dell’assenza di compromessi tipica di chi viene dal Sud degli Stati Uniti. Un’ondata dirompente che vedrà la band tra i protagonisti assoluti al Monsters of Rock di Donington di quell’anno, nonché autrice di uno show con i fiocchi in terra italica, al Forum Assago di Milano, un concerto trionfale di grande importanza per aficionados e organizzatori, nonché per l’evoluzione della ricezione della musica dal vivo nel nostro Paese.