Decades of Aggression: febbraio 2024
Il 04/03/2024, di Francesco Faniello.
In: Metal Truth, The Birthday Party.
Ebbene sì, siamo arrivati al secondo mese di questo “almanacco del decennio dopo”, parafrasando il noto siparietto di Mamma Rai. O meglio, “dei decenni dopo”, visto che mentre a gennaio la torta è stata divisa più o meno equamente tra 1984 e 1994, stavolta le complicatissime ricerche (ehm, ehm) riportano alla luce altre date nel display di questa DeLorean con sin troppe pretese. Intanto godiamoci la sigla targata Mamma Rai, ché siamo un po’ tutti blackmoriani dentro…
E a proposito del Man In Black, è proprio uno dei dischi che vede Ritchie Blackmore alla chitarra a spegnere cinquanta candeline in questo mese. Si tratta niente meno che di ‘Burn’ dei Deep Purple, l’album che inaugura la breve ma intensa stagione del Mark III, guadagnandosi di diritto un posto sul podio della discografia della band, accanto a ‘In Rock’ e ‘Machine Head’. Fuori Gillan per la prima delle tante mozioni di incompatibilità tra lui e il leader pro tempore, fuori Glover dalla finestra per poi farlo rientrare dalla porta “executive” della Purple Records, i tre superstiti avevano corteggiato l’idea di togliere un posto a tavola prima con un irlandese di belle speranze rispondente al nome di Phil Lynott, poi marcando a uomo il frontman dei Trapeze, un inglese delle Midlands col vizietto del funk chiamato Glenn Hughes. Entrambi bassista / cantante, come si sa, ma l’infallibile fiuto di Blackmore aveva in serbo per la storia del rock un ennesimo asso nella manica nelle sembianze di un commesso del North Yorkshire dalla voce bluesy e complementare a quella di Hughes, David Coverdale.
Il risultato fu una miscela di influenze che porterà col tempo la band su binari leggermente divergenti da quelli di partenza, ma che in occasione di ‘Burn’ firmerà un capolavoro declinato in otto tracce, almeno due delle quali impresse a chiare lettere nell’enciclopedia essenziale della musica – la title track e ‘Mistreated’ – ma la qualità è costante in tutto il lavoro, fino alle gemme nascoste che rispondono al nome della malinconica ‘Sail Away’ e del bolero ‘A 200’, nato e sorretto dagli esperimenti al sintetizzatore di Jon Lord, trascinato dal ritmo ostinato delle rullate di Paice, fino all’esplosione finale apportata da uno dei mitologici assoli di chitarra del lider maximo. Il futuro riserverà un’accoglienza trionfale al California Jam dello stesso anno, l’abbandono repentino proprio di Blackmore l’anno successivo, e la gloria per i due nuovi innesti: Hughes universalmente noto come “The Voice of Rock”, Coverdale come il multiplatinato leader dei Whitesnake…
A proposito di leggende, il 1974 è anche l’anno dell’album omonimo di una band che fa (e potete scommetterci, farà) tuttora parlare di sé, i Kiss! Lo stellare quartetto giungeva al debutto dopo la militanza di Stanley e Simmons nei Wicked Lester (dalle cui session sono tratti parte dei pezzi inclusi nel primo album), il successivo reclutamento di Criss e Frehley e l’idea geniale del face painting che darà vita (assieme ad altre sagaci operazioni di marketing a opera di Gene Simmons) al mito del Figlio delle Stelle, del Vampiro, dell’Uomo dello Spazio e dell’Uomo Gatto Spaceman. Benché il successo vero sarebbe arrivato con la codificazione della loro energia dal vivo su ‘Alive!’, gli elementi che costituiscono la formula vincente dei Kiss sono tutti qui, in un album come ‘Kiss’ che per certi versi è di per sé un “best of”: pezzi come ‘Strutter’, Nothin’ to Lose’, ‘Firehouse’, ‘Cold Gin’, ‘Deuce’, ‘100,00 Years’ e ‘Black Diamond’ valgono da soli un’intera carriera, figuriamoci il loro peso specifico in un debut che ha decisamente il suo perché…
“Volevamo solo divertirci”, risponde Marisa Tomei a un nostalgico e iconoclasta Mickey Rourke che su “The Wrestler” se la prende con l’esplosione del grunge secondo il più classico dei copioni, in quanto responsabile della fine della stagione edonistica del glam metal. Ora, non voglio fare il bastian contrario a tutti i costi, ma è perfettamente evidente che i giorni di gloria di un determinato genere musicale sono tali finché lo stesso ha qualcosa di dirompente da dire, salvo poi lasciare spazio al cosiddetto “nuovo che avanza” e (fatto non per forza negativo) scivolare nell’underground naturale dei cuori dei suoi veri accoliti. Perché questa premessa? Perché questo celebre dialogo cinematografico è scaturito dall’ascolto di ‘Round and Round’ dei Ratt! Video a suo modo geniale che gioca sì con le tematiche care al sentire di allora (ma che non invecchia mai!) del rock’n’roll come contrasto alle convenzioni, ma anche con il monicker della band, rappresentata a mo’ di “ratti nei muri” disturbatori della quiete della buona borghesia. E sì che con questo album di debutto ‘Out of the Cellar’ Stephen Pearcy, Robbin Crosby, Warren DeMartini, Bobby Blotzer e Juan Croucier si ergevano a paladini dei glamster, ma il loro stile diretto e stradaiolo era figlio del più verace HM, al di là dell’immagine e in maniera affine a quanto proponevano i primissimi Mötley Crüe. Un aspetto che era ancor più evidente dell’EP di debutto ‘Ratt’ e che qui emerge con pezzi da novanta del calibro di ‘Wanted Man’ e ‘Back for More’, quest’ultima non a caso già proposta in un’altra versione nella precedente release. Curiosità: la fatalona in copertina poi presente anche nel successivo ‘Invasion of your Privacy’ era l’allora ragazza di Crosby, la compianta Tawny Kitaen che ritroveremo nei video di fine anni ’80 del successo stellare dei Whitesnake, nonché al fianco dello stesso David Coverdale…
È un fatto ormai acclarato: quando nomini gli Europe a un pubblico generalista la reazione è sempre quella di grande rispetto e commozione pensando ai tempi che furono, per via delle due hit che anche le ziette conoscono, ma anche di impressione generale che si sia al cospetto di meteore pronte a risorgere per i programmi TV pomeridiani o magari per i palchi dei vari Capodanni. Strano destino, per una band che in “quel” disco aveva azzeccato praticamente tutto, che aveva poi tirato fuori un album successivo dal successo quasi equivalente e che è tornata nel XXI secolo per raccogliere un successo di critica senza precedenti con lavori lontani dai lustrini e del clamore dei palchi sanremesi (tanto per citarne uno). Soprattutto, per chi conosce la storia di Tempest e Norum sono i primi due album a far tremare i polsi con la loro formula di hard’n’heavy epico, rombante e genuino, parzialmente nello stile di quanto proposto del conterraneo Malmsteen. In particolare, il secondo ‘Wings of Tomorrow’ è senza dubbio l’apice dell’allora quartetto (Mic Michaeli non era ancora entrato in formazione e dietro le pelli sedeva Tony Reno, prima dell’ingresso di Ian Haugland), con una serie di frecce al suo arco come l’iniziale ‘Stormwind’ e la successiva ‘Scream of Anger’ (poi ripresa anche dagli Arch Enemy!), con le delicate ‘Dreamer’ e ‘Open Your Heart’ (ripresa, manco a dirlo, in una nuova e più laccata versione due dischi più tardi) e con episodi ora rocciosi, ora speedy ma sempre fortemente anthemici come la title track, la strumentale ‘Aphasia’ e il protopower di ‘Wasted Time’. Da incorniciare, a partire dalla copertina (inconsapevolmente?) priestiana!
Mutande muschiate, testosterone a manetta e morte agli infedeli: ecco riassunto il credo Manowar, a beneficio del bignami più riassuntivo e riduttivo che ci sia. In realtà la corazzata guidata da DeMaio era all’epoca molto di più del carrozzone autoreferenziale che ci viene propinato da tanti, troppi anni, tra festival annullati, imperial editions e rifacimenti dei classici sotto steroidi, Italia accuratamente evitata e full length che sono ormai un pallido ricordo – e per più di qualcuno magari è anche meglio così. Parliamo di ‘Hail to England’, il terzo album che giungeva a incoronare una triade praticamente perfetta originata dal patto d’acciaio tra il bassista roadie dei Sabbath con Dio e il chitarrista di una delle band di supporto, noto come Ross The Boss, le cui forze si unirono all’ex bambino prodigio Louis Marullo, poi noto come Eric Adams (praticamente i nomi dei suoi due figli!). Completava il quartetto Scott Columbus, un fabbro ferraio della batteria che contribuiva non poco all’impatto “estremo” e primitivo degli alfieri dell’epic metal. Un album che è sin dal titolo un tributo ai maestri della NWOBHM realizzato però sulla sponda opposta dell’Atlantico, con tutti gli eccessi e le declinazioni “ammerigane” che il tutto comporta. Esclusa la sola ‘Kill with Power’, manca qualsivoglia concessione alla velocità, con i quattro che prediligono macinare intrecci tra chitarra e basso a velocità e impatto da caterpillar, su cui si staglia la voce possente di Adams: trentatré i minuti di durata per un vero e proprio manuale dell’HM classico a stelle e strisce, che – non dimentichiamolo – valse alla band il posto da headliner in corso d’opera nel tour che inizialmente li vedeva di spalla ai Mercyful Fate, non certo gli ultimi arrivati. ‘Blood of My Enemies’, ‘Each Dawn I Die’ e così via, bisognerebbe davvero citarle tutte. E a proposito di citazioni, come dimenticare una nota rivista specializzata dell’epoca che dinanzi alle svisate al basso di ‘Black Arrows’ commento qualcosa tipo “il chitarrista vuole imitare Eddie Van Halen, ma non arriverà mai a quei livelli?”. Puro spasso, probabilmente aggiunto alla schiera di intimidazioni denunciate dal lider maximo in occasione del suo “discorso della montagna” in Italia…
Anche voi sempre alla ricerca del proto-tutto, dell’anello mancante, del brodo primordiale? Sullo speed/thrash si è detto di tutto, ed è chiaro che un disco come ‘Kill ‘em All’ non è venuto fuori da solo, ma il tutto è un po’ come le invenzioni e i brevetti: ci lavorano in tanti, ma il merito va all’ultimo, al finalizzatore. Ecco, tra gli antesignani dello speed ci sono di sicuro i canadesi Exciter, uno di quei gruppi che non ha sicuramente raccolto quanto la proprio spinta pionieristica avrebbe meritato. ‘Violence & Force’ è il loro secondo album, giunto a un anno scarso di distanza dal debut ‘Heavy Metal Maniac’, e se non li avete mai ascoltati… vi consiglio di rimediare. Non so se sarà lo speed duro e puro della title track o di ‘Saxons Of The Fire’ a conquistarvi, o se lo farà il furore primigenio di ‘Pounding Metal’, o ancora l’innata simpatia che ispira un personaggio come il batterista/cantante Dan Beehler, ma alla fine vi ritroverete a fare air guitar o air drumming, ve lo assicuro.
Eccoci agli anni ’90, in una Belfast da poco pacificata (l’Accordo del Venerdì Santo verrà firmato il 10 aprile 1998), là dove un pugno di rockers influenzati in egual misura dal punk, dall’indie e dal noise aveva messo su un trio dal monicker Therapy? nel 1989. Apparentemente, la formula del successo sarebbe rimasta per sempre fuori dalla porta e invece nel 1994 arriva la svolta: un approccio un po’ più consistente e di conseguenza più fruibile, e via con un po’ di video in heavy rotation su MTV a tutte le ore. Ecco, personalmente vedere il videoclip di ‘Nowhere’ in orario mattutino non mi ha lasciato indifferente, tutt’altro: il Seattle sound era sul punto del collasso e nelle isole britanniche la risposta si presentava differente, come era logico che fosse (brit pop o Radiohead), perciò vedere Andy Cairns armato di SG nera e alla testa di un trio di disadattati che proponeva cose tipo “Screw that, forget about that / I don’t wanna know about anything like that / I’ve got nothing to do ‘cept / Hang around and get screwed up on you” portava all’identificazione istantanea, ecco tutto. Personalmente ho conosciuto più detrattori che estimatori, ma non si può negare l’importanza di ‘Troublegum’ nel panorama della Nazione Alternativa dell’epoca, nonché la sua influenza su tutta una serie di progetti che sarebbero venuti dopo. D’altronde, il numero dei singoli era considerevole (‘Nowhere’, ‘Die Laughing’, ‘Screamager’, ‘Turn’, ‘Trigger Inside’), ma anche quello dei deep cuts riusciti dannatamente bene, come l’opener ‘Knives’, la secca ‘Hellbelly’, l’accorata ‘Unbeliever’, l’anthemica ‘Lunacy Booth’, la cover di ‘Isolation’ dei Joy Division e la versione in acido della lezione degli U2 che risponde al nome di ‘Unbeliever’. Per una sorta di scherzo del destino, in Italia li vedremo con un gruppo spalla che sarebbe di lì a poco esploso in particolare nel Bel Paese, gli Skunk Anansie; e poi, non va dimenticato che l’anno dopo i Nostri sarebbero stati chiamati su richiesta degli stessi Metallica ad aprire la loro ‘Escape from the Studio’ a Donington ’95…
Si scrive Svizzera, si legge Celtic Frost. Che poi non è del tutto vero, eh… ci sono anche i Gotthard e i Krokus a sventolare la bandiera crociata, ma Tom G. Warrior e soci sono un po’ l’equivalente dei Death SS da noi, come punto di riferimento “nazionale” quando si parla di sonorità estreme. E i Samael degli esordi non facevano certo eccezione, nonostante una svolta più marcatamente industrial a partire dal quarto disco e nonostante l’innesto delle tastiere su questo ‘Ceremony of Opposites’. Una di quelle ricette con cui leccarsi i baffi, all’epoca come adesso: Vorphalack e soci ci andavano giù pesante, citando Baba Yaga su ‘Baphomet’s Throne’ prima ancora che lo facesse Sgrang su TMC2, codificando tutta la disperazione mitteleuropea su ‘Celebration of the Fourth’ e ‘Till We Meet Again’, e pagando il giusto tributo al maestro Poe su ‘Mask of the Red Death’. Davvero un bel disco, malinconico ma ancora in buona parte attualissimo.
Difficile abbandonare il 1994 in musica senza parlare del fatto che è l’anno che segna il debutto discografico dei Cradle of Filth. Magari non sono il mio gruppo preferito, magari il black non è il mio genere preferito, ma ‘The Principle of Evil Made Flesh’ resta comunque un disco chiave per lo sdoganamento delle sonorità nate nella nera Norvegia (nera di genere e di cronaca) secondo un’ottica più… britannica. E poi, mi sento di citare quanto detto da un amico nel suo commento al primo ascolto di ‘Nymphetamine’: tolto il grand guignol, le tastiere e l’immagine che hanno attorno, Dani Filth e soci hanno proprio la stoffa di un gruppo punk/HC genuino. Valeva per ‘Gilded Cunt’ così come per la title track di questo debut, al netto dello stile da gatto scannato che da sempre caratterizza il Nostro…
Vi piacciono i progetti con molti ospiti? A me sì… potenzialmente, intendo. Infatti è strano (o no?) che non mi sia mai interessato agli Avantasia, pur avendo apprezzato davvero tanto ‘Outrider’ di Jimmy Page e ‘Iommi’ di Tony Iommi. Anzi, su quest’ultimo ho sentito una delle poche performance sopportabili di Billy Corgan, pensate un po’… Ma veniamo ai Probot e al loro disco omonimo, uscito nel 2004: per me è un buon lavoro, certo, ma è anche un disco riuscito a metà. Anzi, per tre quarti, per essere precisi, e non mi riferisco al fatto che magari i pezzi buoni siano otto su undici, la matematica non c’entra stavolta. Piuttosto, gran parte del valore dell’album sta nell’innata e clamorosa capacità di Dave Grohl non solo di radunare i suoi miti di infanzia ma di cucir loro addosso dei pezzi assolutamente aderenti al loro stile – tranne su ‘Sweet Dreams’ di King Diamond, che però resta un pezzo davvero ben fatto, benché si basi su un generico sostrato horror/sabbathiano piuttosto che sull’inarrivabile estro dei Mercyful Fate. Per il resto, ascoltare i clamorosi contributi di Cronos, Max Cavalera e Lemmy per credere. O magari ‘Ice Cold Man’ con Lee Dorrian, per me il picco dell’album e non mi stupirei se i Cathedral la suonassero da vivo, in una delle loro reunion future. Anche gli episodi di matrice COC, DRI e Saint Vitus/Obsessed portano a casa la pagnotta, arrivo a dire. Rispetto ai succitati risultati eccelsi, per me i pezzi con Tom G. Warrior, Snake e (in parte) con Eric Wagner lasciano però l’amaro in bocca, ma è anche vero che l’ago della bilancia pende sostanzialmente verso la promozione. Dovrò decidermi ad ascoltare seriamente i Foo Fighters, prima o poi…
Ed eccoci negli anni ’10! Di quale secolo, chiederete voi, visto che ho scelto ‘Heavy Metal Sanctuary’ dei Battleaxe per rappresentare il febbraio 2014, un disco uscito esattamente a trent’anni di distanza dal bell’esordio ‘Power From The Universe’ che già nel 1984 suonava fuori tempo massimo, pensate un po’. Insomma, i Battleaxe sono quello che ti aspetti. Marco Denti e Sacha Gervasi li avrebbero definiti uno one trick pony sulla scia degli Anvil, e io, che non sono né regista né scrittore, potrei solo aggiungere che hanno quella rocciosità tipicamente europea che fa pensare agli Accept senza però dimenticare l’epicità della NWOBHM. Il tutto con il Prete di Giuda a fare da supervisore e benevolo padrino, come è stato per centinaia di bands prima di loro, insieme a loro e anche dopo di loro, fuori dal tempo massimo dell’heavy primigenio. Senza la minima pretesa di metter su un ritornello catchy, un riff memorabile o una linea vocale che si imprime a fuoco nel cervello, i nostri riescono discretamente in tutti e tre gli intenti. Insomma, i Battleaxe sembrano nati apposta per tutti i ricottari come voi, che non sognerebbero altro che centinaia di dischi come questo. ‘Heavy Metal Sanctuary’ è un lavoro perfetto, a suo modo, con il suo incipit declamatorio affidato alla title-track (una dichiarazione di intenti o una dichiarazione di guerra? Fate voi…) in cui il singer Dave King si colloca sulla rocciosa scia di colleghi più celebri come Dirkschneider e Tornillo, e con quella ‘Hail To The King’ che sceglie di basarsi su quel riff che ha già reso immortali ‘Swords And Tequila’, ‘Curse Of The Pharahos’, ‘Two Minutes To Midnight’, ‘Harder Than Ever’ e ‘Stand Up And Shout’ (ho reso l’idea?). Dodici pezzi che sicuramente farebbero storcere il naso ai palati più fini, ma che vi faranno esaltare senza ritegno, in barba alla data che inesorabilmente campeggia sui vostri calendari e sul disco in questione. Alla prossima!