Motörhead, il “nodo cruciale” ‘Iron Fist’ compie il suo quarantennale
Il 06/12/2022, di Alex Ventriglia.
In: Speciali Monografici.
‘Iron Fist’, più che il quinto full length album realizzato dalla più classica delle line-up motörheadiana, è quello che, di fatto, ne ricorda la fine, trasformato presto nel pomo della discordia tra elementi che, ormai, non si amavano più. Anzi, si detestavano cordialmente. Un album “appesantito” dagli attriti e dalle ripicche, dato che tra “Fast” Eddie Clarke e Lemmy si consumò la “battaglia” fatale, con Phil Taylor a provare invano a far da paciere tra i due, ma evidentemente il ruolo di pompiere non gli riuscì, poiché le fiamme divamparono irreparabilmente distruggendo una formazione sin lì imbattibile, alla quale restiamo ancora fedeli negli anni. Ma il fulvo chitarrista originario di Twickenham, sobborgo a sud di Londra, aveva un carattere non proprio facile e spesso si incaponiva, e voleva averla vinta, tipo quando pretese la “testa” di Vic Maile, produttore dal polso duro ma delle intuizioni brillanti, il quale non solo poteva vantare di aver lavorato con “mostri sacri” come The Who, Jimi Hendrix e Led Zeppelin, ma che aveva trainato al successo i Motörhead sull’onda lunga generata prima da ‘Ace Of Spades’ e infine da ‘No Sleep ‘til Hammersmith’ (per come la penso io il live album perfetto, ma l’ho scritto in più di una circostanza), di cui Maile fu uno dei valori aggiunti. Lemmy lo sapeva, che aveva al fianco un producer dagli attributi fumanti, uno che aveva scolpito e rifinito il sound del leggendario ‘Live At Leeds’ non poteva fallire… Vic fu sostituito quasi “a tradimento”, e nonostante egli fosse già al lavoro su ‘Iron Fist’ rinchiuso nei suoi Jackson’s Studio; in un momento di pausa dalle session di registrazione, approfittando di un mini tour in compagnia dei Tank (nuovi protetti di Clarke al punto tale che ne divenne il produttore, del devastante debut album ‘Filth Hounds Of Hades’), il chitarrista convinse gli altri a passargli le redini del gioco, probabilmente spinti sia dalle sue nuove prospettive come producer, ma soprattutto per una questione di “quieto vivere”, per non provocare una crisi pericolosa all’interno del gruppo.
Fatto sta che, Lemmy, tra i suoi pochi rimpianti, ebbe proprio quello di avergli lasciato mano libera, perché completamente insoddisfatto della resa sonora di ‘Iron Fist’, un album che, a suo dire, difettava anche di scarsa ispirazione e ben poca coesione tra le parti. Della serie: la polveriera era prossima ad esplodere. Ma lì, non lo potevano ancora immaginare… Tra le tante polemiche che scatenarono la “gazzarra”, la partnership artistica tra Lemmy e Wendy O. Williams, procace frontgirl dei provocatori Plasmatics, che non si fece sfuggire l’opportunità di poter duettare con uno dei suoi eroi, per la divertente e destabilizzante cover di ‘Stand By Your Man’, cavallo di battaglia della cantautrice country Tammy Wynette. Una collaborazione questa che Eddie Clarke vide come il fumo negli occhi fin da subito, una scusa forse, ma sulla quale puntò fortissimo, quando, a maggio 1982, neppure un mese dopo la pubblicazione di ‘Iron Fist’, decise di togliere il disturbo salutando “baracca e burattini” nel bel mezzo della loro tournée statunitense! Anzi, per la precisione fu dopo la seconda (!) data al Palladium di New York, che si consumò lo strappo, tra l’incredulità di Lemmy e Phil, presi di sprovvista ma non per questo meno motivati, e anzi spronati a chiudere del tutto la contesa. Leggenda vuole infatti che il bizzoso Eddie Clarke sbattesse spesso la porta minacciando di mollare la band, per poi fare ritorno nel giro di uno o due giorni, e l’allarme rientrava, suscitando quasi più ilarità che altro. Ma stavolta no, lo strappo era stato gravissimo e la rabbia di Lemmy e Phil fu fatta arrivare al mittente. La coppia tirò dritto come niente fosse, presentando solo una settimana più tardi, sul palco di Detroit, il nuovo chitarrista, l’ex Thin Lizzy Brian Robertson; i Nostri erano appena al loro terzo concerto americano, non avevano perduto minimamente terreno in quel tour estremamente importante per i Motörhead, fondamentale anche per la loro stessa sopravvivenza, messa a repentaglio dalle circostanze. Un tour che approdò poi in Giappone e infine in Europa e, lo riporto come curiosità, presentò il rinnovato three-piece anche in Italia, con un poker di date che a metà novembre abbracciò Milano e Reggio Emilia, Roma e Brescia. Furono spettacoli che fecero davvero epoca, sia perché nel nostro Stivale gli artisti esteri non venivano praticamente più a suonare, sia perché Lemmy & Co. furono tra i primi a concedere una chance agli appassionati italiani, letteralmente affamati di concerti ed eventi. E tra i metallers romani, il ghigno di Lemmy al fianco dello stralunato Robbo, sul palco dello storico Tenda Strisce sulla Cristoforo Colombo, è uno dei ricordi più belli che la nostra militanza possa vantare.
Album che compie ora quarant’anni e festeggia una tale, importante ricorrenza grazie alla BMG che ripubblica la definitiva ristampa celebrativa di ‘Iron Fist’, nel formato di doppio CD e triplo LP. Inclusi in questa ristampa deluxe l’intero album rimasterizzato dai nastri originali, demo inedite e un intero concerto registrato il 18 marzo ’82 all’Apollo di Glasgow, oltre che la genesi dell’album impreziosita da foto finora mai pubblicate. Disponibile anche una speciale limited edition in formato vinile del singolo album.
‘Iron Fist’, in questa sua ‘Deluxe 40th Anniversary Master’, suona in effetti corposo e al tempo stesso dinamico, con alcuni brani a fare realmente la differenza, tipo ‘Go To Hell’, ‘(Don’t Let’Em) Grind Ya Down’, ‘Speedfreak’ e ‘(Don’t Need) Religion’, un pezzo che ci sta proprio bene sotto Natale, con Lemmy che dice la sua nei confronti della religione usando il suo stile sarcastico e corrosivo, ma dannatamente vero, quando poi sentenzia ‘… Ya don’t need binoculars to see the light’, con semplicità brutale, su dove sia di casa la verità. Applausi da spellarsi le mani per il concerto di Glasgow, la band, nonostante i suoi scazzi interni, si mantiene costantemente su standard elevatissimi, letale macchina da guerra che schiaccia tutto e tutti con una setlist bilanciata alla perfezione, capace di sganciare sia i classici più distruttivi, sia il nuovo repertorio, che scatta all’attacco sin dalle iniziali ‘Iron Fist’ e ‘Heart Of Stone’. Quelli erano i Motörhead che probabilmente amavamo di più, facile farsi assalire dai rimpianti, quando si resta tramortiti sotto i colpi di quel lontanissimo show in terra di Scozia. Ma forse la parte ancor più curiosa e appassionante di tutto il restyling dedicato ad ‘Iron Fist’ è appunto il recupero dei demo originali registrati ai Jackson’s Studio, tra brani rivisti, tracce bonus e versioni alternative, all’ascolto dei quali risulta evidente che forse forse Lemmy aveva ragione ad incazzarsi… Mai come stavolta è forse valso il detto che sarebbe spettata ai posteri, l’ardua sentenza?