Opeth – I vent’anni di ‘Deliverance’
Il 12/11/2022, di Alessandro Ebuli.
In: The Birthday Party.
E così anche ‘Deliverance’ compie vent’anni. Soltanto un anno e otto mesi dopo la pubblicazione dello straordinario ‘Blackwater Park’ – capolavoro indiscusso di una produzione ancora florida – gli Opeth pubblicano il qui presente ‘Deliverance’, un concentrato di sonorità 100% Death/Prog con incursioni in territori acustici già battuti in passato dalla band svedese, ma qui attualizzate con suoni più corposi e dinamici. Sesto album, quindi gruppo perfettamente rodato sia in studio che in sede live, ‘Deliverance’ ha l’arduo compito di non far rimpiangere il capolavoro di cui sopra, album balzato in testa alle classifiche di mezzo mondo che ha attirato su di sé e sul gruppo una meritata dose di attenzione da parte degli addetti ai lavori e soprattutto del pubblico.
Ciò può essere evidentemente una nota a favore, da qui in poi gli Opeth hanno iniziato a pensare in grande, ma da un altro punto di vista deve essere preso come una massiccia responsabilità perché tutto, volenti o nolenti, si riflette sulle aspettative del pubblico stesso. ‘Deliverance’ viene partorito il 12 novembre del 2002 e fin da subito viene aspramente criticato, nonostante riesca a raggiungere posizioni in classifica del tutto considerevoli. Ma il paragone con ‘Blackwater Park’ è inevitabile. C’è chi li taccia di troppo ammorbidimento nei suoni – quei “chi” con tutta probabilità non hanno ascoltato con attenzione gli album precedenti – e chi invece urla a gran voce di non essere minimamente riusciti ad avvicinarsi alla qualità compositiva di ‘Blackwater Park’.
Ora, chi conosce gli Opeth sa benissimo cosa aspettarsi, o per meglio dire cosa non aspettarsi – a posteriori, memori di tutto ciò che hanno pubblicato (si ascoltino ad es. gli splendidi ‘Ghost Reveries’, ‘Watershed’, e quella perla di Prog vecchio stampo che è ‘Heritage’) lo possiamo affermare senza timore di essere smentiti -, e sa che Åkerfeldt & Co. non hanno bisogno di presentazioni, questa è la loro musica, questo è ciò che vogliono in primis per se stessi, poi per il pubblico. Prendere o lasciare. Ed ecco che ‘Deliverance’ si presenta nella forma di un’opera composta “soltanto” di sei brani per un totale di circa sessantadue minuti di musica. Fate due calcoli veloci, dieci minuti a brano? Non esattamente, ma andiamo con ordine. Intanto due parole sulla genesi del disco. Il frontman Mikael Åkerfeldt, così come i compagni, era combattuto sul percorso da intraprendere per la lavorazione del nuovo album, ormai piuttosto pressato dagli impegni e dalla tipica routine disco-tour-disco-tour e avanti di questo passo. Inoltre seri problemi di natura personale e un lutto a complicare la situazione. Sul web circolavano da tempo voci riguardo un probabile doppio album in arrivo, voci che lo stesso Åkerfeldt dapprima smentiva sottovalutando l’imperante avvento della rete, ma una volta compreso il suo potenziale capisce che avrebbe dovuto modificare l’approccio alla lavorazione del nuovo album, del resto il mondo della musica stava cambiando drasticamente e molto in fretta. Grazie a un registratore a otto tracce il cantante, coadiuvato da Peter Lindgren, inizia a riversare numerose idee che avrebbero poi dato vita all’opera compiuta. “Senza questo registratore probabilmente non ci sarebbe stato alcun nuovo album” sentenzia il cantante. Una volta in studio però le cose si sono complicate a causa dell’inesperienza del fonico che ha causato un enorme spreco di tempo al gruppo, stimato in circa quattro settimane di lavoro. Così Åkerfeldt, affiancato da Steven Wilson dei Porcupine Tree per la produzione del materiale, vola in Inghilterra e raggiunge l’ingegnere del suono Andy Sneap, scelto per mixare il disco e non solo, a detta dello stesso Åkerfeldt “per fare un miracolo”. ‘Deliverance’ viene completato, invece ‘Damnation’ (si tratta del gemello di ‘Deliverance’ e vi rimando agli Hammer Fact a fine articolo per saperne di più) necessita di ulteriori rifiniture; nel contempo l’etichetta Music For Nations, per motivi puramente promozionali, decide che i due prodotti dovranno essere pubblicati separatamente in quanto opere sostanzialmente troppo diverse tra loro sia nell’aspetto che nella sostanza.
In apertura del disco troviamo la potente ‘Wreath’, un concentrato di suoni full Opeth, in cui i riferimenti vanno immediatamente al più volte citato ‘Blackwater Park’ con le interessanti suggestioni dark e gotiche prese a piene mani da ‘Still Life’ – quest’ultimo un album spesso, troppo sottovalutato. In particolare in ‘Wreath’ si nota una pulizia nei suoni davvero invidiabile, tutto è preciso, metodico, pulito, volutamente studiato in ogni dettaglio, merito della mano sapiente di Steven Wilson in cabina di regia, ma non pensiate sia un brano fiacco, tutt’altro. Il growl di Åkerfeldt non lascia scampo, avvolgente eppure quadrato nel suo incedere maestoso; intanto il brano apre con una rullata spiazzante di Mendez, quasi voglia farci intendere che il lavoro dietro le pelli sarà un perno importante nella composizione delle sei canzoni. In effetti è così, il drumming è una war machine che non lascia scampo, ma questo lo sapevamo già dai precedenti album. Undici minuti martellanti e pulsanti di batteria e basso con incursioni di chitarra straordinarie. Se non è un antipasto ghiottissimo questo, ditemi voi quale altro. ‘Deliverance’ (il brano) pompa Death con potenza, ma dopo solo un minuto esplora territori semiacustici tipici della band – si prendano ad esempio le parti sognanti ed eteree provenienti dai brani dei vecchi dischi: ‘Advent’, ‘Face Of Melinda’, alcune parti di ‘When’, ‘To Bid You Farewell’ e molte altre; queste parti vengono amalgamate con sapienza a quelle più tipicamente Death grazie a semplici innesti di elettrica a fare da ponte, scelta perfetta per la resa finale del brano. Nella titletrack inoltre si odono rimandi alla struttura portante dei brani del successivo disco ‘Damnation’, che è stato pubblicato ad aprile del 2003 e la cui scrittura è stata parallela a quella di ‘Deliverance’.
Il terzo brano ‘A Fair Judgement’ è uno slow/mid-tempo estremamente interessante, in quanto al suo interno troviamo parti esplicitamente acustiche in un crescendo sempre più intenso, in cui la voce di Åkerfeldt rimane pulita e la chitarra vola su splendidi assoli. Arrivati a questo punto mi soffermerei a fare un doveroso parallelo con il predecessore di ‘Deliverance’: c’è sicuramente una importante somiglianza, del resto questi sono gli Opeth e il tempo intercorso tra i due prodotti non è moltissimo, ma le differenze sono comunque evidenti e si sentono, a partire da un’evoluzione nel suono che troveremo preponderante nel gemello ‘Damnation’ e che sarà – oggi possiamo affermarlo con certezza – il tassello fondamentale per quelle che diverranno pura sperimentazione in ‘Ghost Reveries’ e ‘Watershed’ e che culmineranno nell’album più Progressive/Rock che la band finora abbia partorito: ‘Heritage’ del 2011. Questo per dire che ‘Deliverance’ è sicuramente un prodotto di transizione, ma di ottima fattura e che nulla ha da invidiare ai fratelli maggiori. Continuiamo dunque con il brano ‘For Absent Friend’, un ponte di soli due minuti in cui la chitarra di Åkerfeldt ci rimanda per stile alla chitarra di David Gilmour e quindi ai Pink Floyd, in particolare quelli precedenti a ‘The Dark Side OF The Moon’ e mi riferisco al periodo compreso tra ‘More’ e ‘Obscured By Clouds’. Melodia dal gusto sopraffino, non c’è dubbio. A seguire ‘Master’s Apprentice’, un brano che a posteriori si rivelerà tra i più apprezzati dell’intero catalogo dei Nostri; si tratta di un concentrato di violenza Death in cui il growl fa da padrone accompagnato da un riffing di chitarra piuttosto semplice ma efficace, nella parte centrale fa capolino una sezione con clean vocal su toni semiacustici (da notare intorno al settimo minuto i cori in pieno stile pinkfloydiano dai forti rimandi a quelli presenti su molti brani di ‘The Wall’), per poi tornare con prepotenza al Death/Prog a cui la band ci ha abituati. Last, but not least, i quasi quattordici minuti di ‘By The Pain I See In Others’, traccia dal forte sapore rétro – e intendo legata al Prog più sperimentale di due o tre decenni prima – pur rimanendo all’interno dei confini cari al gruppo. La voce di Åkerfeldt si alterna tra parti in growl classico ed altre filtrate da effetti ed echi che la rendono spettrale; ma è nella parte centrale che si può ascoltare uno strumentale dai forti rimandi ai temi delle soundtracks cinematografiche, ed è qui che torno a parlare di gusto rétro, ma soprattutto di “Progressive” nel senso stretto del termine per quanto concerne l’ambito strettamente musicale, ovvero progressione ma anche evoluzione e sperimentazione di nuovi territori. Per questo motivo torno a dire che ‘Deliverance’ è un prodotto sì di transizione, ma un album capace di coniugare la forza del passato più tradizionale in ambito Death Metal con una forma canzone meglio definita e più lineare, all’interno di un contesto musicale di altissima qualità e ricerca stilistica. Forse qui non troverete i guizzi creativi dei precedenti album del gruppo, ma di sicuro ‘Deliverance’ ha saputo soddisfare anche i palati più esigenti grazie alla coniugazione dei due elementi portanti del percorso della band: la potenza e la melodia.
Come sempre riascoltare con attenzione un album al fine di una (ri)valutazione a distanza di così tanti anni dalla sua uscita permette di osservarlo con occhi diversi, certamente più abituati alle sue varianti di colore e alle sue eventuali derivazioni stilistiche – almeno in questo caso, vista la proposta degli Opeth – e di essere più critici oppure più generosi. Non c’è voto qui, eppure ritengo che gli anni abbiano permesso a ‘Deliverance’ di mostrarsi in tutta la sua maestosità e mi auguro che anche coloro i quali al tempo della sua pubblicazione lo avevano guardato con sospetto possano tornare ad ascoltarlo con orecchie più allenate e guardarlo con occhi diversi perché in fondo tutti ci meritiamo una seconda possibilità.
Hammer Fact:
-‘Deliverance’ è stato scritto e registrato contemporaneamente al suo gemello ‘Damnation’, pubblicato esattamente cinque mesi più tardi, il 22 aprile 2003. Inizialmente Åkerfeldt avrebbe voluto pubblicarli insieme, ma data la lunghezza del prodotto finale e vista la sostanziale differenza tra il primo, più tipicamente aggressivo e metal e il secondo, al contrario, più intimista, riflessivo ed acustico, il cantante e chitarrista di comune accordo con l’etichetta Music For Nations decide di pubblicare i due album separatamente. Soltanto nel 2015 è stata pubblicata un’edizione speciale contenente entrambi i dischi all’interno di un elegante cofanetto celebrativo con tutti brani rimasterizzati e copertina bianca.
-l’album è stato prodotto da Steven Wilson dei Porcupine Tree, che si è anche prestato a suonare il pianoforte nel brano ‘A Fair Judgement’.
-la copertina dell’album, oscura ed estremamente evocativa, è un’opera dell’artista Travis Smith, già autore di front cover di una lunghissima serie di album metal.
-al termine del brano ‘By The Pain I See In Others’ sono presenti due Ghost Tracks. La prima si può ascoltare un minuto e venti secondi dopo la fine del brano, precisamente al minuto 12:00: si tratta di un backmasting, tecnica usata per inserire tracce audio all’interno di tracce già esistenti, nella quale si può sentire la voce di Åkerfeldt trattata con numerosi effetti intonare un canto poco comprensibile. Al minuto 13:15 la seconda Ghost Track: ancora la voce nuovamente ricca di effetti intona un altro canto di difficile comprensione. In realtà, se ascoltate in sequenza e al contrario le due Ghost Tracks comporranno una breve porzione del brano Master’s Apprentice (che potete ascoltare qui sotto).
Line-Up:
Mikael Åkerfeldt: vocals, guitar
Peter Lindgren: guitar
Martin Mendez : bass
Martin Lopez: drum and percussions
Altri musicisti:
Steven Wilson: Piano in ‘A Fair Judgement’
Tracklist:
01. Wreath
02. Deliverance
03. A Fair Judgement
04. For Absent Friend
05. Master’s Apprentice
06. By The Pain I See In Others
Ascolta il disco su Spotify