Dario Parisini, il ricordo di Giovanni Rossi
Il 11/06/2022, di Giovanni Rossi.
In: Speciali Monografici.
Difficile pensare alla parola morte a fianco del nome di Dario. Difficile e doloroso. Tremendamente doloroso. Uno di quei dolori che ti graffiano l’anima nel profondo e che ti fanno dire che dopo, per te, nulla sarà più come prima. Perché Dario era così, una persona che non poteva lasciare indifferenti, e che lasciava sempre qualcosa, tanto, lungo le strade di chi aveva camminato al suo fianco. Dario ha azzannato la vita fin da subito, con il carattere di chi non si vuole accontentare di parrocchie e circoli, alla ricerca fin da subito di un luogo di affinità. Di affinità, non di complicità o di emulazione, dell’uguaglianza e dell’omologazione non sapeva cosa farsene. Cercava gente come lui, disgraziati e ultimi a cui non andavano bene le cose, che non si accontentavano, capaci di dirsele in faccia, di litigare, di darsele di santa ragione e poi di berci su del buon vino rosso in un bar. E quell’affinità Dario la trovava in spiriti inquieti con cui ebbe per tutta la vita un rapporto che andava oltre il sangue e la carne, era qualcosa di molto più profondo. Alcuni di quegli amici sarebbero poi stati il nucleo dei Disciplinatha, una delle creature più uniche e irripetibili della musica italiana. Lui dei Disciplinatha era una delle colonne, era quella chitarra che alla fine degli anni Ottanta mi colse come una secchiata di acqua gelida in faccia. Ma da dove vengono questi? Da che anno del futuro? Sfacciato sperimentatore, contaminatore di stili, Dario aveva sintetizzato punk, industrial, rock, in un suono che non si era mai sentito prima. E dopo i Disciplinatha, fu la volta di Massimo Volume, Post Contemporary Corporation, molte importanti collaborazioni e, infine, il ritorno con i suoi Dish-Is-Nein.
Come molti grandi artisti, in Dario l’arte si era fusa con la persona, era un blocco unico di sferzante irrequietezza e violenta avversione nei confronti di tutto ciò che puzzava di ipocrisia, perbenismo, sopraffazione. Odiava la banalità, il politicamente corretto, la convenienza. Detestava l’opportunismo, la diplomazia, il progressismo. Dario era quello in fondo alla sala che alzava la mano e che ti diceva, unico fra tutti, che a lui no, non andava per niente bene. Era scomodo, non te le mandava a dire, non si tirava mai indietro. Dario era stato animato fin da subito dalla consapevolezza di una società che non era l’utopia propagandata dall’ambiente in cui era cresciuto, dalla voglia di dire la sua e di farlo con una sensibilità artistica spaventosamente grande, in tutti i modi, con tutte le sue forze. Se ne era accorto tra i primi il grande Pupi Avati, che lo aveva voluto con sé in alcune sue splendide opere, perché bastavano il suo viso pulito e il suo sguardo di ghiaccio, senza ipocrisie, affilato e penetrante come un coltello piantato nell’anima. Che male…
Dario era innamorato degli ideali in cui credeva, in un modo totalizzante, assoluto, senza mediane o compromessi. Dario amava la sua terra, amava i suoi amici, pensi a Dario e subito ti vengono in mente la provincia di quell’Emilia dalle mille contraddizioni ma così straordinariamente unica, la calura di una serata estiva in trattoria, i portici di Bologna con i manifesti del suo gruppo. Dario era amato, e lo sarà sempre, in modo viscerale da chi gli ha voluto bene. Dario sapeva dividere come poche persone sanno fare, perché in lui risuonavano perfettamente l’aut – aut di Kierkegaard, il sì, sì, no, no evangelico, lo yin e lo yang. Dario era la nemesi vivente del concetto di compromesso, e questo, in una società di compromessi, lo rendeva un paria, un emarginato, uno scomodo. Dario aveva saputo rendere benissimo tutto questo nella sua arte e nella sua persona, lasciando a tutti noi un patrimonio di bellezza dolorosa e ammonitrice, che ogni giorno ci ricorda che non siamo fatti per vivere di mediocrità e accomodamenti.
Ho avuto il privilegio di conoscere Dario otto anni fa. Avevo divorato i dischi dei Disciplinatha da ragazzino, ma lui non lo avevo mai incontrato. Mi colpirono subito la sua acutezza intellettuale e una capacità di leggere le cose che trascendeva il normale. Ci perdevamo spesso in lunghe telefonate, e le sue previsioni su eventi politici e sociali di cui discorreva, poi puntualmente si realizzavano. Sei un indovino!, gli dicevo per scherzo. E lui mi rispondeva che no, basta solo guardare le cose. Ecco, Dario sapeva guardare, ti penetrava dentro con il suo sguardo, senza dire nulla, senza sentenziare, e tu sapevi che in quel momento non potevi fingere, non potevi girarci intorno, sapevi di poter contare su un amico che era lì completamente per te, e che ti avrebbe detto tutto quello che pensava per il tuo bene. Quattro anni fa si era fatto quattrocento chilometri per venirmi a trovare in ospedale dopo che ebbi un intervento molto difficile, solo per salutarmi nei trenta minuti di visita concessi. Questo era Dario Parisini. Questo è Dario Parisini.
Dario, mi manchi da morire. Ci manchi da morire. Penso alle grafiche del tuo ultimo lavoro con i Dish-Is-Nein: la corona di spine, il rosario, i proiettili, le spighe di grano. È racchiuso tutto lì dentro. Ci sono la tua terra, la tua lotta, il tuo sacrificio e una dimensione intima che hai sempre gelosamente custodito per te. Non so dove sei, ma spero tu sia dove ti vorrei. Per certo, qui su questa terra sei e sarai nel mio cuore e nei miei ascolti quotidiani, per sempre. Grazie per tutto quello che ci hai dato e per quello che continui a darci.
Ciao amico mio.