‘Argus’ – compie cinquant’anni la magnifica intuizione delle chitarre gemelle a firma Wishbone Ash

Il 08/05/2022, di .

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‘Argus’ – compie cinquant’anni la magnifica intuizione delle chitarre gemelle a firma Wishbone Ash

Quando si pensa agli anni ’70 come al periodo che ha gettato le basi per un certo sound, viene subito in mente la sacra triade Sabbath/Purple/Zeppelin; talmente sacra da essere menzionata con i nicknames più disparati, e in effetti foriera di un’importanza che travalica i confini del Grande Rumore per incastonarsi nella Storia della Musica come patrimonio dell’umanità, senza dubbio alcuno. Eppure, ci sono realtà apparentemente “minori” – se confrontate con i giganti di cui sopra – che hanno rivestito un’importanza riconosciuta e riconoscibile per lo sviluppo di determinate sonorità nel decennio successivo: una di queste sono i Wishbone Ash, e in particolare il loro terzo disco ‘Argus’.
Ora, tenderei a dare per scontato che il lettore conosca l’album in questione, ma se così non fosse… è decisamente il momento di approfondire e prendere appunti: non è mai troppo tardi, per dirla con Alberto Manzi.
La band originaria del Devon giunse a scrivere il suo capolavoro dopo una gavetta che includeva le più disparate sperimentazioni jazz/proggy (ascoltare il precedente ‘Pilgrimage’ per credere), fino a imprimere una svolta importantissima al proprio sound consolidandone le componenti di hard/prog e folk britannico, conferendo al contempo alle proprie composizioni una solennità indiscussa.
Per quanto di ottima fattura, l’opener ‘Time Was’ non lascia presagire l’importanza elevatissima di questo lavoro, che emerge con forza nella successiva ‘Sometime World’, impreziosita da una coda costruita sul susseguirsi degli assoli della coppia Andy Powell/Ted Turner, con la sezione ritmica che ne sorregge le evoluzioni in maniera articolata ma modernissima per un’epoca in cui si era avvezzi all’emergere delle singole peculiarità; al contrario, Martin Turner e Steve Upton costituiscono un ensemble compatto, anticipatore delle migliori ossature del nascente movimento hard’n’heavy. Ecco dunque che l’ascoltatore si immerge progressivamente in un ambiente costruito a misura delle armonizzazioni tra le due asce, in un deciso contraltare rispetto ai duelli tra chitarra e tastiera resi celebri dai Deep Purple.
Curiosamente, è il lato B di ‘Argus’ a rivestire l’importanza maggiore, con le linee vocali di ‘The King Will Come’ che costituiranno il canovaccio su cui si muoverà tutta la parte più melodica della NWOBHM, a partire dai Praying Mantis, e con l’elegia ‘Leaf and Stream’ che richiama l’anima più folk del quartetto, costruita com’è sugli arpeggi di Turner e Powell, senza l’apporto della sezione ritmica. Nonostante ciò, la band non perde neanche per un attimo la carica suggestiva che l’ha sinora caratterizzata, riscrivendo in chiave suggestiva e “passatista” quanto realizzato fino ad allora da Led Zeppelin e Jethro Tull.
Altro piccolo capolavoro è ‘Warrior’, su cui la tensione e il crescendo sono costruiti gradualmente, come la proverbiale goccia che scavi la roccia, raggiungendo punte di epicità impensabili per molti degli act coevi nel climax costituito dal ritornello. E a proposito di proverbiale, come non riconoscere a ‘Throw Down The Sword’ la matrice di tutte le twin guitars che imperverseranno almeno nei due decenni successivi? Tutto il sound di coppie celebri come Gorham/Robertson e Murray/Smith viene da qui, da questo incedere pacato che aggiunge strato dopo strato le proprie linee melodiche, come in un canone seicentesco. D’altronde, basta dare un’occhiata a chi sedeva dietro la consolle di questo capolavoro per avere un’ennesima conferma del suo valore: sua maestà Martin Birch, che non ha certo bisogno di presentazioni, specie da quando ha assunto un nickname dopo l’altro nelle note di copertina della Vergine di Ferro. Da avere assolutamente.

Hammer Fact:
– Anche se più improntato su sonorità stradaiole, il sound dei Saxon era ugualmente incentrato sulle armonizzazioni di chitarra tanto in voga nella “nuova ondata” del periodo. Sarà anche per questo che Biff Byford ha voluto rendere omaggio all’iconica ‘Throw Down The Sword’ nel suo debut come solista, ‘School of Hard Knocks’.
– Interpellato sulle origini del sound dei Maiden, Steve Harris ha orgogliosamente ammesso che buona parte di esse vadano ricercate in ‘Argus’. Facendo un giro in Rete è poi facile imbattersi in pazienti aficionados che hanno tracciato paralleli tra alcuni passaggi della citata ‘Warrior’ e di due pezzi della Vergine di Ferro, ‘Revelations’ e ‘The Aftermath’. Stupisce dunque che nel proliferare di B-side che vedono Harris e soci omaggiare i propri beniamini (UFO, Montrose, Thin Lizzy) manchi proprio l’importantissimo quartetto del Devon. Magari in futuro?

Line-Up:
Martin Turner: bass guitar, vocals
Andy Powell: lead, rhythm and acoustic guitars, vocals
Ted Turner: lead, rhythm and acoustic guitars, vocals
Steve Upton: drums, percussion

Tracklist:
01. Time Was
02. Sometime World
03. Blowin’ Free
04. The King Will Come
05. Leaf and Stream
06. Warrior
07. Throw Down the Sword

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