Metal Lords – dentro la Provincia dell’HM, una manciata di decenni dopo
Il 27/04/2022, di Francesco Faniello.
In: Metal Cinema, Metal Truth.
Non è per farvi sorridere a tutti i costi, ma se iniziassi semplicemente questo contributo dicendo “ho visto Metal Lords su Netflix” chi mi conosce personalmente si sbellicherebbe dalle risate. Io, l’ultimo custode delle VHS, colui per cui la massima frontiera del digitale audiovisivo è per ora rappresentata da RaiPlay che al contempo concorre a farmi risparmiare la spesa per un decoder DVB-T2, io guardo un film su Netflix comodamente seduto a casa mia? Certo che no, ma grazie alla mia sagace nipotina (“zio, qui dice addirittura che è uno dei più richiesti di questo periodo. E pensare che l’avevo skippato e continuerò a skipparlo”) ho raggiunto il duplice obiettivo di vederlo sul suo aggiornatissimo account e rilevare il primo effetto straniante di questa visione: lo scarto generazionale tra i primissimi fruitori di un certo genere di musica e gli adolescenti degli Anni Venti del ventunesimo secolo. Un potentissimo scarto generazionale, che colloca nella stanzetta/sala prove di Hunter gli stessi poster che possiamo ammirare con ammiccante soddisfazione su Airheads, nella Londra di Dylan Dog, nei personaggi interpretati da Jack Black o magari nella stanzetta di Ragman, nei titoli di testa di Morte a 33 giri. Con la differenza che i casi succitati sono direttamente ambientati negli anni ’80 o ’90, o al limite si riferiscono ad appassionati cresciuti in quegli anni:
In effetti, su Metal Lords non c’è traccia di genitori con i vinili lasciati a prendere polvere, di fratelli (o sorelle) maggiori passati essi stessi attraverso un’operazione di recupero, di mentori diretti in sostanza. Fa eccezione Troy Nix, leader dei Kilotone, leggendaria band vincitrice della Battle of the Bands liceale un quarto di secolo prima, un evento che li portera a diventare i nuovi leader dell’underground in America (“Put in position to wage teenage mayhem / A common affair for the ones who are juiced”, diceva appunto Phil Anselmo un anno prima di questo fittizio evento passato). Su Nix/Manganiello torneremo più avanti, per ora basti considerare che occupa una posizione non dissimile da quella di Sammi Curr nel kolossal di cui sopra: mitizzato ma non ancora incontrato di persona. In tutto ciò, se misuriamo dal punto di vista aritmetico/temporale i modelli delle vicende di Hunter, Kevin ed Emily è come immaginare che gli outsider della cosiddetta Generazione X si fossero invaghiti perdutamente di Elvis Presley e Chuck Berry (e ci può stare), senza trascurare l’eredità di Glenn Miller, Frank Sinatra e dei crooner del decennio precedente alla nascita del rock. Vero, la matematica non è un’opinione, ma considerando la reazione delle mie nipoti (“Metal Lords? Metal?”) e delle madri di famiglia a cui mi sarei rivolto per una seconda visione (“di che musica si tratta? Ascolti l’heavy metal?”), possiamo stare tranquilli: l’HM è ancora bandito dalla fascia protetta e recepito come un fenomeno pericoloso e di rottura, persino a cinquantadue anni suonati dai rintocchi di ‘Black Sabbath’. Ora, superato l’effetto straniante di cui sopra che comunque ci accompagnerà per tutta la visione (la scritta PWRSLVE sulla targa dell’auto di Hunter parla più di mille trattati), possiamo guardare la vicenda da un altro punto di vista, quello delle apparenti incoerenze che divengono realismo, iperrealismo, lontane dalle epiche cronache della nascita dei nostri miti musicali ma molto più vicine al vissuto quotidiano di quanti si siano cimentati nella formazione di una band lontano dai cosiddetti “centri nevralgici”: ne è esempio Kevin, timido e nerd, distante da tutta l’epopea metallica evocata da Hunter con dovizia di particolari, eppure dotato dell’elemento che serve all’esuberante amico, una batteria. Se Metal Lords si inserisce evidentemente nel filone “di formazione”, lo stesso avviene per il drumming di Kevin: inizialmente ingaggiato per opportunismo, comodità o sincera opera di proselitismo, entra poco a poco nel personaggio, nell’ottica, e anche nello stile esecutivo, che è quello che conta – non dimentichiamolo. Galeotto fu l’ascolto di uno dei “compiti a casa” più rappresentativi, galeotto fu l’incontro con Emily (ingaggiando la quale, Kevin dimostra di aver capito esattamente “cosa è metal e cosa no”, persino sotto l’apparente scorza) e la pressoché simultanea attrazione nei confronti di due dei protagonisti mai citati del film, Bill Ward e Geezer Butler. Sarà infatti la costruzione progressiva dell’intro di ‘War Pigs’ – con quei decisivi colpi di charleston prima chiuso e poi aperto, fino alle due note finali – a rendere gli Skullfucker una vera band, a farla uscire dai sogni di gloria della costosa strumentazione di Hunter per lasciarla materializzare in un’angusta sala prove scolastica, tra una batteria implementata dalla stessa carta di credito saccheggiata di cui sopra e un violoncello che ci ricorda pari pari l’epopea degli Apocalyptica. Il tutto impresso negli occhi sgranati di Emily alla vista – sul suo laptop – di quelli che diverranno di colpo i suoi beniamini…
Comunque, il vantaggio/svantaggio di non vedere subito un film su cui si è costruita l’hype del momento è che – vuoi o non vuoi – ti ritroverai a leggere e sfogliare le critiche più disparate. Una di queste ha il sapore della levata di scudi “tvue”: non è una rappresentazione fedele, è edulcorata, svuotata dello “sballo”, restituita a mo’ di format per educande, oppure troppo indulgente sulla natura emarginata e disagiata dei protagonisti. Meglio vedere il film, non trovate? Direi di sì, facendo persino un torto alla mia presente analisi. Io ne scrivo, vi invito alla riflessione, ma al contempo mi rimetto più o meno umilmente all’esperienza diretta di ognuno. Come si sa, l’autocritica metatestuale è un elemento fondamentale, sin dai tempi della celebre lettera al compare-nipote di Miseria e Nobiltà…
Ok, si è capito: il film mi ha lasciato qualcosa. Anche troppo, dirà qualcuno. Però mi sento di puntare il dito su una delle critiche principali emerse in questi giorni, poiché chi dice che la descrizione dei “metallari” come disagiati è un luogo comune trito e ritrito non ha mai vissuto in un piccolo paese, non si è mai trovato a coltivare le proprie passioni in una cerchia così ristretta che quella dei Poeti Estinti di williamsiana memoria era un convegno di Comunione e Liberazione, al confronto. La difficoltà di reperire e conservare membri di una band, il continuo scendere a compromessi, il rischio di procedere al ribasso sono condizioni ben note a varie schiere di generazioni che hanno visto naufragare i propri progetti, mentre i loro ex-sodali venivano pian piano assorbiti dal conformismo, riponendo in un cartone le vecchie cassette e i cd (masterizzati o originali, conta poco) con un sorriso benevolo. Insomma, la rappresentazione della Provincia (ovunque essa si trovi) come luogo in cui avviene la propria formazione è un po’ la base del principio di identificazione tra spettatore e personaggi, metal o non metal. Ne sono esempio i Goonies, o meglio ancora… Ritorno al Futuro!
Quando leggiamo che un prodotto come Metal Lords è colmo di Easter Eggs, non possiamo fare a meno di pensare ai Metallica, protagonisti di alcune tra le citazioni più ricorrenti. I bulli della scuola prendono di mira Hunter arrivando addirittura a tagliargli un ciuffo di capelli; il nostro eroe non si perde d’animo e appronta una rasatura da un lato che definisce “alla Jason Newsted”. In tutto ciò, Kevin osserva erroneamente che il succitato bassista era stato “cacciato” dalla band di Frisco, ma anche questo strizza l’occhio agli attentissimi e severissimi esperti. Poi, tra i “compiti a casa” dati da Hunter a Kevin figura l’onnipresente ‘For Whom The Bell Tolls’, un classico per qualunque repertorio di band alle prime armi (fidatevi, se non lo sapete già): gli esiti della prova con un bassista sono disastrosi per via dell’attitudine distruttiva di quest’ultimo, e incredibilmente, nonostante l’attenzione minuziosa dedicata dai produttori ai particolari “esecutivi”, né lui né Hunter vengono ripresi mentre eseguono il giro di basso che è tra i marchi di fabbrica del compianto Cliff Burton. Infine, e per gli aficionados è uno dei momenti più esilaranti, mentre Emily è intenta a comprare la partitura della ‘Sagra della Primavera’ di Igor Stravinkij, decide di far suo anche il manuale relativo agli spartiti di ‘… And Justice For All’: come è noto, una delle pietre dello scandalo più famose nella storia hard’n’heavy dello strumento. Se dunque al buon Jason sono fischiate le orecchie a sufficienza, un momento a suo modo poetico è quello dedicato a un altro protagonista fugace, Randy Rhoads, in una scena che non ha bisogno di commenti…
Su Metal Lords, il cosiddetto percorso di formazione a cui nessuno dei personaggi è immune è fortemente contraddittorio, fino a raggiungere punte da “teatro dell’assurdo”: Hunter attraversa la fase black in una versione umoristica e americanizzata di Lords Of Chaos, mentre Kevin inizia la sua scalata alla rispettabilità che passa comunque attraverso arrangiamenti di doppia cassa sul repertorio pop dei presunti rivali. Al contempo, Emily salta l’assunzione delle “pillole della felicità” neanche fosse John Nash, ma ad avere la peggio è Hunter, che entra in comunità per non si sa bene quale motivo.
Ecco, se una delle critiche mosse al prodotto è l’eccessiva demonizzazione di droghe e alcool da parte dei potenziali fruitori, è anche vero che i protagonisti e i comprimari non hanno bisogno di essere tossici: sono scoppiati e basta. Disagio, insicurezze, emarginazione spesso coltivata tra i banchi di scuola e rimbalzata da famiglie indifferenti: quante storie così conosciamo? Quando facevo l’aiuto operatore in una comunità di recupero, il responsabile mi chiese di registrargli “qualcosa di nuovo”, che facesse il paio con i suoi amati Manowar o Motley Crue. La scelta cadde su ‘First Strike Still Deadly’, e potete immaginare la mia faccia quando, a tutta velocità in discesa su una Panda scassata e con lo stereo a palla il mio allora superiore si mise a urlare, per coprire il vento “non ho bisogno di sballarmi, è questo il mio sballo!”, tra una rullata di Tempesta, il rifferama schiacciasassi di Peterson e del redivivo Skolnick, e io che stavo tranquillamente mettendo in conto di lasciare le penne su quel tratturo scosceso che portava alla vallata. Beh, su questo filone si colloca anche il personaggio interpretato da Joe Manganiello, che avevamo conosciuto come bulletto alla Biff Tannen e ora rincontriamo nella schiera dei “normalizzati” di cui sopra. Basta un accenno agli antichi fasti per rimetterlo in gioco, un po’ un codice di attivazione simile a quello delle spie della Guerra Fredda: altro che Sammi Curr, è lui a passare il testimone a non una ma due band per l’agognata Battle of the Bands!
Avete notato come gli Skullfucker, poi Skullflower, non abbiano mai provato tutti insieme per l’esibizione fatidica? In effetti il combo, autodefinitosi “post/death metal” (a un certo punto spunta anche “doom” tra gli aggettivi…) ribalta completamente la paziente costruzione di ensemble a cui ci aveva abituato School Of Rock, collocandosi quasi sul filone contemporaneo di “prove ognuno a casa propria, scheda audio sempre accesa”. Certo, Hunter ha scritto lo spartito della sua composizione ‘Machinery Of Torment’ per passarlo ai suoi sodali, il che ovviamente farà storcere il naso a più di qualche abitatore delle sale prova, ma di per sé è un espediente sufficientemente buono per giustificare lo svolgersi degli eventi. A proposito… vogliamo parlare della sala prove? In effetti, è tutto troppo “nitido” (e costoso, aggiungerei), senza quel sentore di umidità che lacera i poster assieme al bugnato e al fumo di sigaretta. Eppure, l’iconografia di cui si circonda Hunter diviene il pretesto per una replica sagace di Emily al commento omofobo del leader: cosa sono i protagonisti dell’artwork di ‘Into Glory Ride’ se non perfette icone gay? Per non parlare di Sua Maestà Rob Halford, la cui icona sovrasta tutti come avveniva nella già citata cameretta di Ragman, zittendo istantaneamente il chitarrista, probabilmente stupito dalla subitanea acquisizione dei fondamenti della Storia del Metal da parte dell’aspirante violoncellista degli Skullfucker. Spazio poi all’arcinemica cover band, che avevamo incontrato in apertura quando i nostri eroi ne avevano involontariamente frantumato la tastiera sul palco (non era forse lo strumento tabù dell’heavy metal degli esordi? Ripassiamo le note interne di ‘Piece Of Mind’?): in un’atmosfera a metà tra Un compleanno da ricordare e Ritorno al Futuro (a strumenti invertiti), Kevin vede l’apparizione dei suoi nuovi idoli proprio mentre sta per tradire Emily. Fateci caso: Kirk Hammett e Scott Ian giocano il ruolo dei thrashers menefreghisti, Tom Morello tende a riportare il batterista sulla retta via, ma il più saggio resta sempre il buon vecchio zio Rob, vero protagonista morale di tutta la vicenda. Già, il quadruplice cameo di cui tutti parlano; eppure… nonostante tutti gli sforzi, come si poteva fare meglio di Ronnie James Dio?