“Its number is six hundred and sixty six” – i quarant’anni del dirompente successo degli Iron Maiden
Il 22/03/2022, di Francesco Faniello.
In: The Birthday Party.
Compie quarant’anni uno dei dischi più celebrati dell’intero movimento hard’n’heavy, una delle chiavi del culmine e al contempo del superamento della NWOHBHM in quel luogo propulsore che è stata l’Inghilterra dei primi anni ’80.
In fondo, cosa non è stato già scritto su ‘The Number Of The Beast’? Uno di quegli album in cui ogni traccia ha una storia a sé (un fenomeno inimmaginabile ai giorni nostri!), consumata, ardentemente ricercata e fagocitata dagli ascoltatori, in un processo che esce dal puro e semplice atto di fruizione ed entra prepotentemente in quello che possiamo definire “immaginario collettivo”. Sì, perché ‘The Number Of The Beast’ è talmente entrato nel mito che persino un personaggio scomodo come Paul Di’Anno, in una delle sue tante invettive all’indirizzo degli ex compagni, non poté fare a meno di dire che “i Maiden li ricordano tutti per i primi tre dischi, due dei quali mi vedono alla voce”. Ecco, appunto: neanche lui ha potuto fare a meno di celebrare questo fatidico terzo album della Vergine di Ferro (i più attenti lo ricorderanno intonare ‘Run to the Hills’ in un momento concitato di un live neanche troppo datato, commentando “I’m sorry, I don’t sing opera”) che ha l’innegabile punto di forza di schierare la stessa carica d’assalto dei due predecessori, complice la presenza dietro le pelli di quel motore propulsivo tagliente e preciso che risponde al nome di Clive Burr.
Già, il buon vecchio Clive… chi l’avrebbe mai detto che l’ultima vittima sull’altare sacrificale della “formazione classica” sarebbe stato proprio lui, votato terzo batterista migliore di tutti i tempi dai lettori di “Sounds” anche in virtù del lavoro di cesello al charleston che caratterizzava persino la “nuova” ‘Children of the Damned’? Eppure, nei meandri delle varie dichiarazioni, una voce fuori dal coro acclamatorio si è levata tempo fa proprio da Capitan Bruce, che adduceva alle intricate ritmiche di Burr il motivo del proprio stile vocale più “stradaiolo” nel corso del “Beast on the Road”, laddove la “quadratezza” di Thunderstick, di Mel Gaynor e soprattutto di Nicko McBrain avevano e avrebbero reso celebre la limpidezza vocale del Nostro. Ma non fa niente, Bruce: ci piaci proprio così, su ‘Beast over Hammersmith’, oppure sull’estratto dell’esibizione al Reading Festival presente sul volume uno dei BBC Archives, o magari sui bootleg conclusivi del tour di ‘Killers’ – il pallone racconta che il debutto di Dickinson fu proprio a Bologna, posso solo immaginare le facce allibite e sorprese dei convenuti. Eppure… in qualche modo aveva ragione lui, e lo dimostra la versione di ‘Hallowed be thy Name’ che fa bella mostra di sé su ‘Live After Death’, con McBrain a bandire tutti i sofismi del raffinato predecessore in favore della pura potenza di fuoco che si imprime sulla degna conclusione di un disco così importante.
Tutti sono concordi nel dire che i capolavori degli Iron Maiden sono i primi sette album. O almeno i primi sei. O forse i primi cinque, per andare sul sicuro; nell’ampio dibattito su quale sia il migliore in assoluto di quel fiorente periodo, ‘The Number Of The Beast’ viene citato spesso, eppure l’enigma resta senza soluzione. Una cosa è certa: tutto è mitico in questo disco, anche ciò che sembra non raggiungere il livello del Mito. Oltre ai pezzi già citati, impossibile tralasciare ‘The Prisoner’ e la telefonata risolutiva con Patrick McGoohan, ’22, Acacia Avenue’ e la continuazione della saga di Charlotte The Harlot, la title track scaturita da un incubo di Harris dopo la visione di ‘Omen II’ e quella voce narrante appartenente a un imitatore di Vincent Price (che costava troppo!), nonché il successo strepitoso di ‘Run To The Hills’ nonostante un video degno di Benny Hill Show. I più attenti ricorderanno l’esclusione perpetua dalle scalette live di ‘Invaders’, sorta di seconda parte di ‘Invasion’, entrambe tratte dal canone vichingo di ‘Immigrant Song’: per trovare un’opener a sua immagine e somiglianza, Harris dovrà aspettare un altro anno, aprendo una serie (quasi) inarrestabile con ‘Where Eagles Dare’. Ostracismo anche per ‘Gangland’, opera stradaiola e incompiuta (evidente l’assenza dell’assolo di Murray, sui giri a vuoto dopo quello di Smith), probabilmente l’anello più debole della tracklist; sicuramente inferiore all’esclusa ‘Total Eclipse’, piccola gemma con una variazione degna dei Mercyful Fate e suonata dal vivo se non altro nel tour di supporto all’album. Ecco, ‘Total Eclipse’ è per me la migliore B-side degli Irons in assoluto, e ha in comune con il suo “contraltare” il fatto che in entrambe risuona l’apporto compositivo di Burr. Se siete di bocca buona, potete sempre ripiegare sul bootleg dei Dream Theater in cui suonano tutto l’album, e sentire le “loro” versioni di ‘Invaders’ e ‘Gangland’ (ma vi consiglio vivamente di no, specie per quanto riguarda la seconda). Chiudiamo con gli ultimi elementi del Mito: l’ennesimo capolavoro grafico di Derek Riggs, lo scontato ma fondamentale apporto di Martin “Farmer” Birch e soprattutto il fatto che il quintetto abbia scritto uno dei suoi capolavori a tempo di record, non potendosi basare sull’ampio vivaio di tracce che aveva costituito l’ossatura del debutto omonimo e la base per la tracklist di ‘Killers’. “Let him who hath understanding reckon the number of the beast”…
Hammer Fact:
– Sono arcinote le accuse di satanismo e corruzione della migliore gioventù di Oltreoceano da parte dei puritani statunitensi nei confronti degli Iron Maiden: d’altronde, un titolo come ‘The Number Of The Beast’ non poteva non attirare l’occasione di certe frange. Nel pieno stile dello humor britannico, nel disco successivo la band affidò a Nicko McBrain la registrazione di un messaggio al contrario usato per l’intro di ‘Still Life’, in modo da prendere indirettamente in giro i benpensanti…
– Si dice che ‘The Number Of The Beast’ sia il primo disco di cui la band si sia trovata a comporre ex novo i pezzi, come già accennato poc’anzi. Un’importante eccezione è costituita dal riff portante di ’22, Acacia Avenue’, mutuato da ‘Countdown’, un pezzo degli Urchin di Adrian Smith che Steve Harris ricordava sorprendentemente bene e che impose al chitarrista di riprendere, in vista del completamento della tracklist dell’album.
– Due sono stati i singoli tratti dall’album: l’apripista ‘Run To The Hills’ (con la già citata ‘Total Eclipse’) e il singolo della title track, con una versione di ‘Remember Tomorrow’ che i credits vogliono registrata dal vivo in Italia durante la parte conclusiva del Killer World Tour. Per la precisione a Padova, in uno dei primi concerti con Dickinson alla voce. Ora, non bisogna essere fact checkers raffinati per riconoscere in quella versione del classico maideniano la stessa identica esecuzione già finita sul ‘Maiden Japan’ del 1981, con un assolo in più di Dave Murray e con l’ovvia sovraincisione della voce di Bruce Dickinson al posto di quella di Di’Anno, ma visto che i tempi moderni lo consentono, andate pure a cercare il bootleg del Palasport padovano, datato 29 ottobre del 1981: la qualità sonora agli antipodi rispetto alla registrazione “incriminata” vi darà da sola la risposta che cercate.
Line-Up:
Bruce Dickinson: vocals
Dave Murray: guitars
Adrian Smith: guitars
Steve Harris: bass
Clive Burr: drums
Tracklist:
01. Invaders
02. Children of the Damned
03. The Prisoner
04. 22, Acacia Avenue
05. The Number of the Beast
06. Run to the Hills
07. Gangland
08. Hallowed Be Thy Name
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