Fuoco e ghiaccio – I trent’anni dell’ultima stravaganza di Yngwie Malmsteen su major
Il 07/02/2022, di Francesco Faniello.
In: The Birthday Party.
Ci sono vari motivi per ricordare il 1992: soffermandoci unicamente su quelli artistico/musicali, non è certo un campione dell’heavy neoclassico come Yngwie Malmsteen a farla da padrone nella memoria collettiva, soprattutto in quegli anni di trionfo del grunge e delle contaminazioni a tutti i livelli. Eppure, parliamo di un periodo storico in cui lo svedesino tutto pepe era ancora tra i leader indiscussi delle classifiche nipponiche, complice il traino degli incredibili quattro album usciti nel decennio precedente, che ne avevano consolidato il nome in un certo tipo di mercato da sempre molto sensibile alla combinazione tra tecnica e melodia.
Se è vero che l’adagio “squadra che vince non si cambia” non sembra far parte del vocabolario del Nostro, dopo la svolta all-Swedish nella line-up del precedente ‘Eclipse’ (giunto agli albori del nuovo decennio) il nucleo della formazione viene confermato, sostituendo il solo Von Knorring dietro le pelli. Il risultato è un album più lungo del predecessore e che rappresenta un leggero passo indietro qualitativo, per via di alcune scelte non proprio felici in termini di costruzione della tracklist. Intendiamoci: anche ‘Fire & Ice’ non manca di piccoli classici o – se preferite – di momenti di puro gusto malmsteeniano, ma quei quindici minuti in più rispetto alla durata di ‘Eclipse’ portano con sé un’inevitabile zavorra di filler. Che possono essere inoffensivi se collocati a fine scaletta, come ‘All I Want is Everything’ o ‘Final Curtain’, ma pesare decisamente di più se collocati in posizione prominente.
Per dire, un’opener strumentale come ‘Perpetual’ ha un indiscusso valore nell’estetica malmsteeniana, specie nell’immediato ricorso alla pentatonica come contraltare alle sonorità oscure in apertura, ma avrebbe forse brillato di più in un punto diverso del disco, come insegna l’illustre precedente di ‘Overture 1383’; se poi viene seguita dall’ordinario e debole riffing blues di ‘Dragonfly’, la frittata è fatta: in più, Edman è un singer più che dignitoso, ma non può che sfigurare dinanzi ai nomi di peso che l’hanno preceduto, e che restano nel gotha dei cantanti che hanno fatto la storia della Rising Force, e si capisce come quest’episodio abbia tutto meno che le caratteristiche di un’opener d’effetto. Poi, per fugare ogni dubbio sulla sua inconsistenza, basta mettere su ‘Bedroom Eyes’, stessa posizione ma disco precedente, e la risposta vien da sé: indovinate quale delle due ha resistito più a lungo nella scaletta dei concerti?
Restando sulle note dolenti (incredibilmente collocate in apertura!), è lo stesso Göran Edman a urlare con forza il nome della pietra dello scandalo: ‘Teaser’! Definita (a ragione) un ordinario episodio di pop/glam metal ottantiano fuori tempo massimo con la chitarra di Yngwie appiccicata sopra, è a suo modo irresistibile, specie in periodi nostalgici come questo; certo, niente a che fare con la confezione lussuosa di ‘Heaven Tonight’ (vedere due dischi prima), ma se non altro ha un intento non compromissorio nel suo essere in ritardo di almeno un lustro dall’effetto che hit come ‘The Final Countdown’ o ‘Rock The Night’ ebbero sul mercato.
Ebbene sì, Yngwie tirava (e tira) dritto, ma non dimentichiamolo: siamo nel pieno dell’epopea grunge e lui è a tutti gli effetti uno di quei dinosauri da abbattere che il nuovo che avanzava ergeva a propria antitesi. Non a caso, in un’intervista rilasciata solo pochi anni dopo, lamentava il fatto che TV e radio trasmettessero solo “quell’orribile grunge”, negando lui stesso ogni possibilità di confronto con le cosiddette “nuove generazioni”. In effetti, era al passato che un disco come ‘Fire & Ice’ guardava, e ciò è tanto più evidente quando Malmsteen inizia a fare sul serio: ‘How Many Miles to Babylon’ cita sin dal titolo le atmosfere care ai Rainbow, mentre è un quartetto d’archi a fungere da contraltare alle suggestioni hard rock del mid tempo ‘Cry No More’. Non dimentichiamo poi che Malmsteen è a tutti gli effetti tra i golden standard per la storia del movimento power/speed, cosa evidentissima quando ascoltiamo ‘No Mercy’ (con la sua famigerata citazione della ‘Badinerie’ di Johann Sebastian Bach) o ‘Forever is a Long Time’ (e come fare a non commuoversi nel break finale?). Ma le frecce all’arco del rampollo dei Lannerbäck non finiscono qui: a partire dallo sfrontato e baldanzoso incedere di ‘C’est La Vie’, passando per la terremotante strumentale ‘Leviathan’ (questa sì che meritava di aprire il disco!), per le classiche progressioni discendenti care al Maestro di Lipsia su cui gioca ‘I’m My Own Enemy’, fino a ‘Golden Dawn’, che anticipa a suo modo alcuni dei fasti rinascimentali dei Blackmore’s Night. E la title track? Vale la pena di ascoltarla, anche solo per rivivere la passione di tutti quei chitarristi che si avviavano allo studio dello stile neoclassico studiando i lick introduttivi (uno dei quali è tra l’altro una gradita autocitazione di ‘Jet to Jet’ degli Alcatrazz).
In definitiva, per tornare al punto iniziale va detto come ‘Fire & Ice’ non sia privo di punti deboli ma mostri anche un Yngwie Malmsteen in grande spolvero, non solo dal punto di vista esecutivo (e su quello non si discute neanche per scherzo!) ma anche da quello creativo, pur in un terreno con regole rigorose come è il power neoclassico intessuto di shredding. Probabilmente, per alcuni – tra cui il sottoscritto – è un disco che ha la sua importanza anche per motivi puramente anagrafici, un po’ come accade per ‘Fear of the Dark’ degli Iron Maiden o (non guardate me, ma per alcuni è così) per ‘The Ritual’ dei Testament, e di esempi ce ne sarebbero ancora tanti. Tra la conferma del compianto Olausson alle tastiere (che resterà stabile nella postazione che fu di Johannson ancora per molti anni) e il benservito dato a Edman alla fine del tour, una cosa è certa: sarà l’ultimo lavoro del Nostro per una label di lusso, quell’Elektra che era subentrata all’altrettanto lussuosa Polydor. Dopo di allora, una manciata di album per la Music For Nations per poi ripiegare sull’autoproduzione (con alla lunga una serie di esiti nefasti di produzione che ben conosciamo). E questo forse è stato il vero punto di svolta nella carriera di Malmsteen, pur al netto di alcuni dischi a venire di assoluto valore, come il successivo ‘The Seventh Sign’…
Hammer Fact:
– In occasione della calata italiana di Malmsteen nel tour di ‘Fire & Ice’, Videomusic mandò in onda il concerto del Rolling Stone di Milano. Il broadcasting (quasi) integrale è disponibile su YouTube, dove è possibile ascoltare Edman alle prese anche con i classici degli anni ’80, nonché apprezzare un’improvvisazione di violoncello a opera di Svante Henryson, anche bassista della band. E a proposito di strumenti della tradizione classica, tra l’ensemble di musicisti che hanno partecipato all’album troviamo anche una certa Lolo Lannerbäck al flauto, sorella di Yngwie!
– Data la durata che supera i sessanta minuti, la versione in LP contiene meno pezzi di quella in cassetta o in CD, come era costume all’epoca. Quello che stupisce è la lista degli “esclusi”: se di ‘All I Want is Everything’ facciamo volentieri a meno, sulla scelta di far fuori ‘Leviathan’ e ‘Forever is a Long Time’ dalla versione in vinile ci sarebbe molto da dire. A fare comunque da contraltare è la versione giapponese del CD, che contiene come bonus track quella ‘Broken Glass’ che è probabilmente la B-side più interessante della discografia di Malmsteen.
Line-Up:
Yngwie Malmsteen: guitar, Moog Taurus, sitar, strings arrangement, background vocals, production
Göran Edman: lead vocals
Mats Olausson: keyboards
Bo Werner, Michael Von Knorring: drums
Svante Henryson: bass, cello, strings arrangement assistance
Tracklist:
01. Perpetual
02. Dragonfly
03. Teaser
04. How Many Miles to Babylon
05. Cry No More
06. No Mercy
07. C’est La Vie
08. Leviathan
09. Fire and Ice
10. Forever is a Long Time
11. I’m My Own Enemy
12. All I Want is Everything
13. Golden Dawn
14. Final Curtain
15. Broken Glass (Japan Bonus Track)
Ascolta il disco su Spotify