11 settembre 2001 – Music Trade Center
Il 11/09/2021, di Redazione.
In: The Birthday Party.
di Alessandro Ebuli e Margherita C.
Conveniamo tutti sul fatto che quella dell’undici settembre del 2001 sia una data nefasta per il mondo occidentale a causa del grave attentato alle Twin Towers di New York e alla sede del Pentagono, l’edificio nel quale ha sede il quartier generale della Difesa degli Stati Uniti D’America (curiosamente la sua costruzione è iniziata un altro undici settembre, quello del 1941). Lungi da noi avventurarci in territori legati alla politica, ci concentriamo invece su quanto direttamente ci riguarda, ovvero la musica. Sono trascorsi vent’anni esatti da quel giorno e ci sembrava doveroso festeggiare, ricordare, raccontare più a fondo la questione legata all’uscita dei dischi.
Sì, perché se non fosse accaduto il tragico evento quel martedì 11 settembre 2001 sarebbe stato un giorno come un altro.
Dream Theater – ‘Live Scenes From New York’
Lo era quello della Progressive/Metal band Dream Theater, per esempio, che esattamente quel giorno aveva in pubblicazione il nuovo album live, registrato alla Roseland Ballroom di New York il 30 agosto 2000 ed intitolato per l’occasione ‘Live Scenes From New York’. Ora, sul fatto che un album fosse rilasciato proprio quel giorno – come vedremo più avanti anche altri hanno avuto la stessa sorte – nessuno discute, sarebbe potuto capitare per qualunque altro evento degno di nota, ma talvolta sono i particolari a fare la differenza. Particolari curiosi, talvolta incredibili se non fossimo certi della loro reale evidenza, altre volte raccapriccianti per la loro assurda tempestività.
L’album live dei Dream Theater, nella sua prima veste grafica, mostrava una grande mela rossa avvolta dal filo spinato e da imponenti fiamme, sopra le quali svettava la skyline di New York con la Statua della Libertà accanto alle Twin Towers, il tutto sovrapposto a immagini della band on stage. Ovvio che una copertina del genere, alla luce di quanto accaduto lo stesso giorno a New York, non poteva assolutamente essere immessa sul mercato. Ritiro immediato delle copie pronte per essere vendute – quale triste destino nascondeva quell’album – ma alcune di esse sono ancora in circolazione e spesso vengono vendute a cifre disumane on-line.
Appare chiaro che l’idea di possedere un album con una copertina di questa importanza sia allettante per ogni collezionista, non soltanto per un fan dei Dream Theater.
La mela riportata in copertina vuole ricordare sia il simbolo del cuore avvolto dal filo spinato e dalle fiamme apparso nell’album ‘Images And Words’ del 1992, ma anche, ovviamente, il fatto che quell’album è stato registrato a New York City, chiamata anche The Big Apple, la Grande Mela. La copertina immessa successivamente sul mercato vede semplicemente il logo della band, il Majesty, al posto della mela e delle fiamme. Uno stile che ritroveremo sulle copie per il mercato giapponese del successivo album live del gruppo ‘Live At Budokan’.
Dal punto di vista musicale il lavoro si presenta in una confezione digipack contenente tre cd con la riproposizione dell’intero album ‘Metropolis Part. 2: Scenes From A Memory’ pubblicato nel 1999, ed altre tracce live provenienti dalle varie uscite del combo statunitense.
La riproposizione integrale di ‘Metropolis: Scenes From A Memory’ è magistrale, la band mostra una carica ed una forza da manuale (vi consiglio il Dvd, una vera chicca); i Dream Theater son un treno in corsa e le tracce dell’album scorrono potenti e coinvolgenti con l’aggiunta di un inserto fuori programma: ‘John & Theresa Solo Spot’, in cui John Petrucci e Theresa Thomason (voce anche in ‘Through Her Eyes’ e ‘The Spirit Carries On’) introducono la successiva ‘Through Her Eyes’ con fantastici vocalizzi della Thomason ed alcune divagazioni chitarristiche del Maestro Petrucci. La riproposizione dell’album studio si estende lungo tutto il primo disco e prosegue ad occupare le prime tre posizioni del secondo; a seguire una magistrale versione di ‘Metropolis Part 1’ e da segnalare ci sono sicuramente la presenza di ‘Acid Rain’ della Liquid Tension Experiment (supergruppo formato da Mike Portnoy alla batteria, John Petrucci alla chitarra, Jordan Rudess alle tastiere e Tony Levin al basso) e di un keyboard solo di Rudess che chiude in maniera superba il secondo disco. Ma è nel terzo dischetto che la band ci regala qualcosa di straordinario: ‘A Mind Beside Itself’, da ‘Awake’ del 1994′, divisa in tre parti – ‘Erotomania’, ‘Voices’ , ‘The Silent Man’ – viene riproposta integralmente con una classe che la band all’epoca di questo live possedeva senza alcun dubbio, ed a seguire, a degna conclusione di una serata live a dire poco memorabile, troviamo l’intera suite ‘A Change Of Season’, presentata in una versione differente rispetto a quella pubblicata nell’omonimo EP del 1995, a tratti più simile alla versione originale suonata e mai incisa nel 1989, facilmente reperibile in alcuni bootleg dell’epoca.
Un album completo dal punto di vista estetico – pubblicato anche il relativo Dvd, come scrivevo poco sopra – e musicale, grazie alla presenza della Guest Star d’eccezione Jay Beckenstein al Sax e ad un coro Gospel nel brano ‘The Spirit Carries On’ insieme alla voce straordinaria della già citata Theresa Thomason.
‘Live Scenes From New York’ è tutt’ora ritenuta una delle migliori pubblicazioni live della band; riascoltarlo oggi, a distanza di vent’anni, fa un certo effetto anche per chi lo ha amato fin dalla sua immissione sul mercato ed in genere ama i lavori del gruppo. Di sicuro rimarrà scolpito nella storia dei Dream Theater per la sfortunata coincidenza occorsale.
Slayer – ‘God Hates Us All’
Quell’undici settembre anche altri album vengono immessi sul mercato. È il caso di ‘God Hates Us All’ degli americani Slayer, e anche in questo caso la copertina ha un ruolo significativo, pur se non direttamente collegato al giorno dell’attentato.
L’album viene regolarmente pubblicato nella data prevista, ma verrà ritirato pochi giorni dopo a causa della copertina ritenuta “offensiva” che ci mostra una Sacra Bibbia sanguinante trafitta da dieci chiodi, sulla quale campeggia il Monicker della band marchiato a fuoco a coprire parzialmente una croce dorata. Intanto l’album avrebbe dovuto intitolarsi ‘Soundtrack To The Apocalypse’ – utilizzato successivamente per un corposo box-set – e la nuova copertina non sembra praticamente realizzabile – sembra che Kerry King in persona si fosse fermamente opposto – quindi la casa discografica, la American Recordings di Rick Rubin – decide di rimediare aggiungendo alle nuove copie una copertina a sfondo bianco con quattro croci dorate perpendicolari una all’altra. Una buona soluzione che permette comunque all’acquirente di avere l’artwork originale con la Bibbia trafitta dai chiodi.
‘God Hates Us All’ rappresenta per gli Slayer l’ennesima sfida grazie alla quale comunicare ai fans la propria visione del mondo, trattando tematiche storiche, religiose ed esistenziali e condannando la razza umana nel proprio egoismo e materialismo.
Il video di ‘Seasons In The Abyss’ non a caso viene girato in Egitto e viene pubblicato proprio prima dell’inizio della guerra del Golfo: questa canzone, come tante altre dell’album, diventa masterpiece richiestissima dai fans ai live, merito anche di un ritornello così orecchiabile e coinvolgente che ci si ritrova inevitabilmente a canticchiare anche quando il lettore espelle il CD.
Complessivamente, a una settimana d’uscita, l’album è stato accolto molto positivamente dalla critica, con un punteggio di 80 su 100 considerando le dodici recensioni delle più famose magazine musicali americane: 51.000 sono state le copie che ha venduto nell’immediato, ha conquistato il nono posto nella Canadian Albums Chart e ha debuttato al numero 18 nella top Internet album chart.
L’album in sé non presenta niente di nuovo sotto il classico profilo musicale del trademark Slayer – non dimentichiamo che tre anni prima veniva dato alle stampe il controverso ‘Diabulus In Musica’ influenzato da Metalcore e Nu-metal; un disco con tracce di livello come ‘Disciple’ (con il ripetuto refrain ‘God Hates Us All’), ‘Bloodline’, ‘New Faith’, ‘Cast Down’. Di certo una buona prova targata Slayer, un gradito ritorno alle “origini”, se di origini possiamo parlare. Ci si poteva aspettare di più dalla band, appaiono evidenti alcuni momenti di stanca – impossibile non pensare a ‘Hell Awaits’, ‘Reign In Blood’ e ad altri capolavori del gruppo, ma i tempi cambiano e questo è ciò che hanno da offrirci gli Slayer nell’anno di (dis)grazia 2001. Ma la band come vedremo avrà ancora molto da dire negli anni a venire.
‘God Hates Us All’ è inoltre la quinta sfida, ampiamente superata, per il nostro Paul Bostaff, costretto ad abbandonare la band proprio nel tour di presentazione per trauma al gomito. Quale migliore occasione questa, a detta dei fans, per richiamare a bordo nientepopodimeno che Dave Lombardo?
Nonostante le vicende pregresse con la band il nostro batterista decide di ritornare (live) su richiesta di Kerry King, sostenendo pubblicamente però di non essere un membro effettivo del gruppo.
Sappiamo che questa affermazione può far storcere il naso ai malinconici dell’old school, ma ‘God Hates Us All’ è obiettivamente uno dei migliori album degli Slayer:merito anche dell’eccezionale performance di Tom Araya che in un’invettiva canora diretta, veloce e cattivissima rasenta la perfezione.
Il sound non è più rude, grossolano, fatto di echi sfumati e assoli casuali che caratterizzavano i primi album, è costituito da un suono preciso, dagli spigoli sottili e dai contorni netti che ci presenta dei nuovi, coinvolgenti, mai così convinti, Slayer.
Ricordiamo inoltre che è il terzultimo album in cui suona il rimpianto Jeff Hanneman, uno dei migliori in cui abbia dato sfogo al suo estro creativo: ogni track si distingue per la propria identità, senza tanti indugi e senza eccessivi biglietti da visita. Che altro quindi?
Gli Slayer soddisfano anche qui l’aspettativa di un pubblico di discepoli sempre più fedeli e disillusi, consapevoli del fatto che Dio, in fondo, in fondo, ci odia davvero tutti.
P.O.D. – ‘Satellite’
Un altro album uscito l’11 Settembre è ‘Satellite’ dei P.O.D. (acronimo di ‘Payable On Death’). Un disco Nu-metal che grazie allo strepitoso brano ‘Youth Of The Nation’ fa il botto e vende circa tre milioni di copie nei soli Stati Uniti e circa sette in tutto il mondo. Quarto album del gruppo, non aggiunge nulla di nuovo a quanto proposto dal quartetto nelle uscite precedenti, ma diviene suo malgrado il trampolino di lancio di una carriera già ben avviata che nel futuro proseguirà spedita grazie anche all’immenso successo di questo album e del suo singolo apripista. Nel complesso la band non cambia le sorti della musica e forse a causa della sovraesposizione all’alba di ‘Satellite’ tende a ritrovare la bussola con altri album sicuramente validi ma che non sono riusciti ad ottenere lo stesso impatto mediatico di questa release.
Biohazard – ‘Uncivilization’
Ancora un titolo relativo a questo infausto giorno. I Biohazard di ‘Uncivilization’.
Con ‘Uncivilization’ usciamo dai territori propriamente Metal e ci spostiamo verso un Hardcore Punk che però si mescola con evidenti venature Metal e a tratti Hip-Hop. È il sesto album della band statunitense e vede coinvolti numerosi ospiti: Igor Cavalera dei Sepultura in ‘Gone’, Phil Anselmo dei Pantera in ‘HFFK’, Corey Taylor degli Slipknot e Jamey Jasta degli Hatebreed in ‘Domination’, Andreas Kisser e Derrick Green dei Sepultura in ‘Trap’, il compianto Pete Steel dei Type O Negative in ‘Plastic’ e ‘Cross The Line’, Sen Dog dei Cypress Hill in ‘Last Man Standing’, Roger Miret degli Agnostic Front insieme a Danny Diablo dei Crown Of Thornz e Puerto Rican Mike dei District 9 in ‘Unified’, e vede la presenza di due cover, una della band Hardcore punk Cro-Mags e l’altra dei thrash metallers Carnivore di Pete Steel. L’album è nel puro stile Biohazard ma le numerose presenze in veste di guest stars conferiscono un valore aggiunto all’intera release e di certo plasmano in parte il trademark del gruppo Hardcore, che qui imposta brani probabilmente meno complessi rispetto al passato e più di buon gusto melodico. Ciò li rende di conseguenza meglio assimilabili, ma ci troviamo pur sempre di fronte a un prodotto di matrice Hardcore Punk che non si discosta poi molto dai canoni prefissati del proprio genere di appartenenza.
Nickelback – ‘Silver Side Up’
Un altro tassello marchiato 11 Settembre è ‘Silver Side Up’ dei Nickelback. Terzo album per la formazione canadese nei primi sei anni di carriera e primo album a balzare nei primi posti in classifica – oltre dieci milioni di copie vendute nel mondo – grazie al singolo ‘How You Remind Me’, di facile presa e diventato un classico radiofonico, ed ai brani ‘Too Bad’ e ‘Never Again’, che fanno da binario sul quale sferraglia sicuro il treno Nickelback.
I canadesi iniziano la loro carriera con due album molto legati allo stile Post-Grunge che ingloba tipici elementi provenienti dal Grunge dei primi Novanta misti a strutture melodiche adatte al palinsesto radiofonico. Appare curioso come un album pubblicato in una data tanto nefasta si sia rivelato il punto di svolta di una band che altrimenti, fosse rimasta legata allo stile dei primi due lavori, non avrebbe probabilmente percorso molta strada e si sarebbe persa nel calderone delle band mediocri da uno, due dischi e via. Chiara la direzione intrapresa dal gruppo, in primis dal Deus Ex Machina Chad Kroeger – voce, chitarra e principale autore delle liriche – che negli anni seguenti proseguiranno indomiti su questa linea compositiva senza particolari guizzi, ad eccezione di una toccata e fuga in territori metal-oriented in particolare nell’utilizzo delle chitarre sul successivo album ‘The Long Road’ del 2003, poi più nulla cambierà rispetto a quanto fatto su ‘Silver Side Up’, che risulta ad oggi probabilmente il loro album più riuscito, a eccezione di una successiva produzione sempre più cristallina e patinata in ogni disco pubblicato in futuro.
The Coup – ‘Party Music’
Ma non finisce qui, perché le coincidenze riguardo i dischi e l’undici settembre sono molte e non soltanto in ambito metal. Per esempio, se ci spostiamo in altri territori musicali troviamo particolari corrispondenze tra la musica e il fatidico giorno dell’attentato alle Twin Towers. Ma badate bene, qui non si teorizzano complotti di alcun tipo, semplicemente si intende mostrare alcune curiosità e coincidenze apparsi su alcune copertine. Pronti? Partenza.
Iniziamo con un album che di metal non ha nulla: sto parlando di ‘Party Music’ dei The Coup, un duo Hip Hop americano. Senza troppi fronzoli, la band ci mostra una copertina nella quale le Twin Towers esplodono e la somiglianza con le immagini di quel tragico giorno che tutti noi abbiamo ancora stampate nella mente è incredibile. I due musicisti sono fotografati in primo piano ed alle loro spalle si stagliano i due colossi durante l’esplosione comandata da uno dei due membri attraverso un apparecchio elettronico che ricorda un detonatore, mentre il compagno sembra agitare due bacchette come fosse un direttore d’orchestra, abile manovratore del compagno e dell’esplosione in corso.
Un’immagine forte, facilmente assimilabile, ma disturbante se vista a posteriori. Immagine che i The Coup decidono intelligentemente di sostituire con una più mediocre e anonima doppia coppetta (alcune fiamme svettano dal contenuto del bicchiere, presumibilmente un cocktail) poggiata sopra il banco di un bar e tenuta da una mano misteriosa, probabilmente di una dei due rapper, su uno sfondo opaco degno di un locale Hip Hop dei bassifondi della grande mela.
L’album – che peraltro inizialmente non ottiene un grande successo commerciale – verrà in seguito inserito tra i venti migliori album del 2001. In origine la sua uscita era prevista per la seconda metà di settembre, ma a causa dell’attentato e della controversa copertina, la 75Ark – casa discografica dei The Coup – decide di posticiparne la pubblicazione a novembre dello stesso anno.
Supertramp – ‘Breakfast In America’
Pubblicato nel lontano 1979 ‘Breakfast In America’ dei britannici Supertramp è il secondo album “out of metal” da prendere in esame in questo nostro lungo racconto “oltre la musica”. Un album che si discosta dal sound classico Progressive-oriented tanto caro al gruppo e che invece si affaccia per la prima volta su territori pop-rock , a tratti disco – sono gli anni della disco music e New York in qualche modo ha assorbito e centrifugato quei suoni tanto di moda – e diviene l’album di maggiore successo del gruppo.
La famosissima copertina mostra una skyline newyorchese – nello specifico la parte frontale della penisola di Manhattan – costruita con tazze, piattini, bottigliette e vari altri contenitori normalmente utilizzati in cucina per la preparazione della colazione, davanti alla quale una cameriera con il braccio teso sorregge un vassoio sopra al quale è posato un bicchiere. Un chiaro rimando all’iconico simbolo della Statua della Libertà. Allegorico? O forse nasconde una acredine mai troppo nascosta tra gli inglesi e la Big Apple?
Ma andiamo avanti. Abbiamo visto la copertina e fin qui, all’apparenza, non v’è nulla di strano. Ora soffermatevi sulle due torri e osservate le lettere poste sopra a ognuna: la U e la P, seconda e terza lettera del monicker Supertramp, ma forse ancora non possiamo notare nulla che ci colpisca in modo particolare. Dobbiamo provare ad uscire dai nostri schemi mentali e per farlo ci sarà sufficiente ribaltare l’immagine per scoprire – con non poca sorpresa – il formarsi di una curiosa data sopra di esse: 9 – 11. Undici settembre, con i numeri posizionati come si usa fare nella datazione americana.
Probabilmente è soltanto una casualità, ma quantomeno assai curiosa. Godetevi lo splendido album e riflettete su questa coincidenza.
Micheal Jackson – ‘Blood On The Dance Floor’
Passiamo ora ad osservare un disco pubblicato quattro anni prima dell’attentato a New York: si tratta di ‘Blood On The Dance Floor’ di Micheal Jackson. Anche qui ognuno si senta libero di pensare ciò che vuole, non si parla di alcuna teoria di complotti, ma soltanto di mere coincidenze per quanto effettivamente assai curiose.
Osservando l’immagine di copertina notiamo un Micheal Jackson ballerino sopra a un pavimento a quadri – quello di una enorme sala da ballo – e alle sue spalle una grande nube di polvere alzarsi da quella che facilmente scopriamo essere la skyline di New York, con un particolare non trascurabile, però. Soltanto una delle due torri è visibile, e ciò appare molto strano poiché da quella angolazione, considerata la posizione delle torri all’interno dello spazio occupato dai sette edifici del World Trade Center, dovrebbero vedersi entrambe. Ecco che scatta la curiosità che andiamo a scoprire. Osservate le braccia del cantante, viste in prospettiva una appare più corta dell’altra. Immaginiamo quindi di tracciare un ipotetico ovale intorno a Micheal Jackson e costruire una sorta di orologio come mostrato nella foto qui sotto. Le braccia segnerebbero un preciso orario: le 08:50; la prima delle due torri viene colpita alle 08:46, e presumibilmente si tratta di quella che nella skyline della copertina di ‘Blood On The Dance Floor’ non è visibile, o per meglio dire, è mancante. La nube alle spalle della skyline, peraltro, è la tipica nube generata dal crollo di un edificio, non certo quella che vedremmo formarsi in caso di condizioni metereologiche avverse.
Che si nascondano altre curiosità all’interno di questa immagine? Certo. Jackson indossa una fascia nera al braccio destro – probabilmente una fascia in segno di lutto – e in alto a destra possiamo notare un quarto di luna, fase lunare coincidente con quella della data dell’undici settembre 2001.
Detto questo, per concludere il nostro lungo excursus, ciò che a noi interessa rimane solo ed esclusivamente il legame tra i dischi e la data dell’attentato all’undici settembre alle Twin Towers. Se qualcuno volesse approfondire fantomatiche teorie complottiste si rivolgesse altrove, non è questa la sede adatta. Però ammettetelo, un po’ di sana curiosità vi è venuta, vero?
Lasciamo a voi la voglia di scoprire nuove interessanti coincidenze e nel caso lo riteniate opportuno, di farle sapere a chi vi ha scritto.
Chiudiamo l’articolo con un video in ricordo delle vittime degli attentati dell’11 settembre 2001: ‘When The Eagle Cries’ degli Iced Earth, tratto da ‘The Glorious Burden’.