The Library – Leggi alcune pagine da ‘Not for you. Pearl Jam tra passato e presente’

Il 06/08/2021, di .

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The Library – Leggi alcune pagine da ‘Not for you. Pearl Jam tra passato e presente’

Oggi vi diamo la possibilità di leggere alcune pagine in anteprima del settimo capitolo di ‘Not for you. Pearl Jam tra passato e presente’ di Ronen Ginovy, pubblicato nella collana musicale Chinaski Edizioni de Il Castello Editore. Potete acquistare il libro a questo indirizzo.


7. The Palladium, Hollywood (6 ottobre 1991)

 

I giovani di questa terra non sono, come spesso vengono definiti, una specie “perduta”: sono una specie non ancora scoperta. E il potere segreto, la conoscenza di questa stessa scoperta, sono racchiusi in loro: lo sanno, lo sentono, ma non riescono a comunicarlo.

Thomas Wolfe (1939)

 

Ten è un buon album? In un certo senso non è questo il punto: è come chiedersi se l’Atlantico sia un buon oceano. Ten esiste, e continuerà a esistere finché la gente ascolterà un certo genere di rock: non c’è altro da aggiungere. Le canzoni le abbiamo sentite e risentite: alla nausea o all’infinito, a seconda dei gusti.
Se la carriera dei Pearl Jam fosse una mappa, di certo Ten sarebbe l’Everest. “Jeremy”, “Even Flow”, “Alice”, “Oceans”, “Garden”, “Black”, “Porch”, “Release”. Queste canzoni sono molte cose diverse: eccessive, teatrali; ma anche intime, introspettive, toccanti. Melodrammatiche, forse; ascoltate troppo, senza dubbio; e non prive di momenti pacchiani. Rock da stadio per ragazzi sensibili e qualche sporadico intellettuale: emozionanti senza risultare incomprensibili, e pregne di sentimenti che nel rock mancavano da tempo, come disperazione, solitudine, confusione. Parte del potere della loro musica era anche una certa atmosfera “da confessione”, dovuta in larga misura al cantante. La band più vicina ai Pearl Jam di Ten sono gli U2: ispiranti, altruisti, del tutto privi d’ironia. Magari preferite Vitalogy o Vs. – e la band è d’accordo con voi – ma solo un bastian contrario potrebbe affermare che il vero lascito dei Pearl Jam non sia Ten, nel bene e nel male. Così come i vicini Nevermind, Achtung Baby, The Black Album, è il genere di album che le rock band non propongono più, e che ha trasformato completamente il mondo per milioni di giovani.
Curiosamente, Ten in qualche modo è il disco più aderente alla realtà che la band abbia mai prodotto. Quasi ogni brano è tratto o ispirato da una storia vera, anche quelli che non lo sembrano. “Alive” è basato su una storia vera, così come “Jeremy” ed “Even Flow”, che racconta di un senzatetto; “Release”, “Black” e “Oceans” parlano di relazioni; “Porch” di una telefonata persa; “Deep” di un tossicodipendente e “Why Go” di una giovane donna conosciuta da Ed, che ripropone la sua storia anche in “Leash”. Woody Guthrie una volta ha detto: “Le canzoni folk raccontano fatti realmente accaduti. Le canzoni pop, invece, parlano di cose che non sono mai successe”. Secondo questa definizione, quasi tutto l’album Ten sarebbe composto da canzoni folk. Si tratta, per la maggior parte, del lavoro di un artigiano genuino: un autore giovane, che sta imparando il mestiere, ma alcuni brani (per esempio “Once”) sono imbarazzanti nella loro immaturità.
Uno degli assi nella manica segreti di Ed è il dono dell’improvvisazione, o di saper comporre al volo: “Release” è la prova di queste capacità. È stata incisa, come “Yellow Ledbetter”, in una sola take improvvisata. Più che una storia, la canzone racconta uno stato d’animo, una sensazione di distanza dal resto del mondo, da una persona amata, da se stessi. I versi parlano di persone che si trovano ad affrontare situazioni normalissime e falliscono, per paura, per dovere o per inerzia. I problemi contro cui si scontrano questi personaggi sono inevitabilmente i più difficili: come lasciar andare il passato, come resistere nonostante il dolore, come crescere con grazia. I protagonisti alla fine della canzone in genere si sono evoluti, ma non di molto. I brani che funzionano meglio sono quelli in cui si sente la sua empatia, la sua comprensione, il suo dispiacere per il prossimo. A queste qualità aggiungono sincerità, ottimismo e un’ingenuità che non erano consuete nel grunge, ma che sono propriamente sue. Anzi, in un certo senso è proprio tutta quella bontà a mettere la gente a disagio, nei Pearl Jam. Eddie non è nato cool. Lo è diventato.
Rolling Stone una volta ha scritto che, se i Pearl Jam si fossero sciolti dopo il primo album, avrebbero comunque avuto un posto nella storia: può essere come no, ma non è un’ipotesi così azzardata. Delle loro canzoni più ascoltate su Spotify quattro su cinque (“Alive”, “Even Flow”, “Jeremy” e “Black”) si trovano tra la traccia due e la traccia sei del loro primo album. In un’intervista del 1991, parlando di Ten, Eddie dice: “Se vendiamo 40.000 copie sarà un successo”. Ha sbagliato solo di venti milioni. Nel momento in cui scrivo, Ten ha venduto tredici milioni di copie negli Stati Uniti e almeno altrettante nel mondo: abbastanza per entrare nella classifica dei cento LP più venduti di tutti i tempi. Un ritorno sull’investimento iniziale impressionante, per un album la cui produzione era costata solo 100.000 dollari.
Dice molto dei Pearl Jam il fatto che la loro reazione al successo di Ten non sia di arroganza e nemmeno di orgoglio, ma più vicina al senso di colpa.
Ed: Riascolto volentieri tutti i nostri primi lavori, [tranne] il primo disco, il che è strano perché in un certo senso è il più rappresentativo, sono le canzoni che la gente conosce di più. Però c’è qualcosa nel sound… non lo so, forse il mix… è un po’ troppo “prodotto”.
Jeff: Non ci aspettavamo che quell’album facesse chissà che successo. E invece, a quanto pare…

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Ten è il disco “a lenta carburazione” per eccellenza. Negli Stati Uniti la prima settima vende 25.000 unità, non riuscendo per un soffio a entrare nella Billboard 200 (oggi, invece, con numeri del genere si finisce in top ten). Due mesi dopo l’uscita, Ten s’infiltra nella classifica “Heathseekers” per gli artisti emergenti, debuttando al trentottesimo posto su quaranta. Questo successo è il frutto di una serie infinita di concerti: più di 100 solo nel 1991. Ci vorranno altri due mesi perché finalmente l’album, il 4 gennaio, entri nella Billboard 200 alla (non elettrizzante) posizione numero 155. La settimana successiva Nevermind scalza dal primo posto Dangerous di Michael Jackson e i Pearl Jam salgono alla 143, subito sotto Love Hurts di Cher. Quello stesso mese, MTV inserisce il video di “Alive” nella programmazione prime-time, mentre la band mette a calendario il singolo e il video di “Even Flow”. A questo punto, gli ingranaggi si mettono in moto. Il 28 gennaio esce in Inghilterra il singolo di “Alive”, poco prima della distribuzione internazionale di Ten e del debutto europeo della band.
Il 25 febbraio 1992, mentre il gruppo sta suonando a Nottingham e il giorno successivo all’uscita in UK di Ten, l’album conquista il disco d’oro con 500.000 copie vendute negli Stati Uniti. Continuerà a vendere circa 100.000 pezzi alla settimana fino al Natale 1993, rimanendo per quasi cinque anni nella Billboard 200: il quinto per permanenza nell’era della tracciatura SoundScan (l’ultima settimana in classifica è quella del 12 ottobre 1996, quando No Code è alla posizione numero dieci). Ciononostante, non raggiunge mai il primo posto – a differenza dei successivi tre album – per colpa di Some Gave All di Billy Ray Cyrus, che rimarrà per ben diciassette settimane al numero uno.
È degno di nota il fatto che si trattava di una stagione particolarmente ricca per l’industria musicale, soprattutto per le grandi etichette. Ten è solo uno degli album pubblicati durante un annus mirabilis, che vede l’uscita contemporanea di Nevermind, Out of Time, Achtung Baby, The Low End Theory, Badmotorfinger, 2Pacalypse Now, Gish, il “Black Album” dei Metallica, Use Your Illusion I e II e Blood Sugar Sex Magik, per non parlare di Loveless dei My Bloody Valentine, Spiderland degli Slint, Screamadelica dei Primal Scream, Bandwagonesque dei Teenage Fanclub e gli album di debutto di Blur, Massive Attack e Orbital. Sempre ad agosto e settembre del 1991, sono usciti Ropin’ the Wind di Garth Brooks (diciassette milioni di copie vendute), Waking Up the Neighbours di Bryan Adams (sedici milioni), Emotions di Mariah Carey (otto milioni), Brand New Man di Brooks & Dunn (sei milioni), Pocket Full of Kryptonite degli Spin Doctors (cinque milioni), No More Tears di Ozzy Osborne (quattro milioni) e i primi lavori di P.M. Dawn, Naughty by Nature e Cypress Hill. Inoltre, i dischi di platino di Michael Jackson, Prince, Enya, Paula Abdul, Natalie Cole, Vanessa Williams, Trisha Yearwood, Michael Bolton, Richard Marx, Genesis, Van Halen e i Dire Straits, tra gli altri, tutti usciti nel 1991: non c’è bisogno di guardare i bilanci per capire che qualcuno se la stava passando bene. Tutto considerato, forse il 1991 è il momento più rappresentativo dell’epoca d’oro dell’industria discografica pre-Napster; ed è il momento in cui i Pearl Jam, i Nirvana e i Soundgarden entrano senza rendersene conto nell’arena.
È un fenomeno che qualsiasi marxista da divano potrebbe perdere il senno a studiare: negli anni ’90 milioni di persone compravano musica perché c’erano tantissimi grandi artisti, o c’erano tutti quei grandi artisti proprio perché milioni di persone compravano musica? È il pubblico a creare il mercato o è il mercato a creare il pubblico? È una coincidenza che le band di Seattle siano arrivate alla fama in un momento di picco per l’industria discografica? Quando le grandi etichette erano fortemente competitive, piene di soldi e bisognose di coltivare nuovi talenti? È solo un caso che i Nirvana e i Pearl Jam, per un breve periodo, abbiano potuto competere con Michael Jackson, nell’ultimo momento in cui esistevano ancora un’industria e un pubblico da spartirsi? Se Ten e Nevermind fossero usciti cinque anni prima, o dopo, se ne sarebbe accorto qualcuno? E soprattutto: come potrebbe essere competitivo oggi un movimento del genere?

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Alla fine del settembre 1991, la band parte per quelli che diventeranno quattro mesi di fila in tour, dalla British Columbia proseguendo lungo la costa fino ad arrivare in Arizona, poi in Texas e nel Sud del Paese. I concerti inizialmente si susseguono a rilento, per un gruppo che nel primo anno era stato così attivo. Durante la prima data del tour, a Victoria, Ed si scoccia davanti a un pubblico chiacchierone e distratto. Decide di svitare la base del microfono e di lanciarla, irritato, dall’altra parte della stanza: sopra le teste degli spettatori e contro il muro di fondo. Miracolosamente, nessuno si fa male.
Di certo non si era messo a fare un numero del genere al Bacchanal, ed è esattamente il genere di mossa da rockstar, ma mi viene spontaneo chiedermi: che sarebbe successo se qualcuno nel pubblico fosse stato un filo più alto, o se il lancio olimpico di Ed avesse deviato di qualche centimetro? A proposito di quell’incidente, Neely riporta una sua risposta che suona decisamente adolescenziale e un po’ arrogante:
“Vedevo la gente in piedi al fondo della sala, che chiacchierava e si faceva i fatti suoi, e sapevo che il giorno dopo avrebbero detto in giro: ‘Oh, è stato fantastico…’ senz’aver visto niente, senza aver partecipato. Avrei fatto qualsiasi cosa, pur di coinvolgerli”.
A quanto pare, incluso il tentato omicidio. Era il 25 settembre 1991: il giorno dopo sarebbero usciti nei negozi Nevermind, The Low End Theory, Blood Sugar Sex Magik e Badmotorfinger.


DETTAGLI DEL VOLUME:

Titolo: Not for you. Pearl Jam tra passato e presente
Autore: Ronen Ginovy
Anno: 2021
Editore: Il Castello editore
Collana: Chinaski
Pagine: 416 pagine
Prezzo: euro 22,00