ProgSpective (12) Pain Of Salvation – L’Equilibrio tra Dolore e Salvezza

Il 16/04/2021, di .

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ProgSpective (12) Pain Of Salvation – L’Equilibrio tra Dolore e Salvezza

E’ Daniel Gildenlow stesso, cantante strumentista e mattatore della band svedese, ad affermare che la scelta del moniker (sua) è dipesa dall’idea di mettere in equilibrio le due differenti essenze di Dolore e Salvezza: la filosofica dualità classica da sintetizzare. I brani poliritmici, le diverse ispirazioni da cui derivano le differenze stilistiche create, la variabilità degli input e dei caratteri musicali, sono tutti al servizio del mondo interiore del leader. In quanto prolungamento dell’uomo, la forza dei Pain Of Salvation è il pathos che ne deriva. La musica non si separa quasi mai dal significato dei testi, esplora tutti i temi possibili, ma sempre focalizzati a stimolare la riflessione sul senso della vita. Fa strano pensare che la prima consistenza del gruppo fosse di tipo “glam” (moniker: Reality) e che si rifacesse agli americani Kiss. Niente di più lontano da ciò che sarebbe diventata. Già il primo album ‘Entropia’ affronta il tema guerra/famiglia, percorre da subito una strada impegnata, sebbene poco politicizzata e più basata sulle proprie emozioni, e anche in seguito il futuro lirico della band continuerà con tale modalità concettuale, in un susseguirsi appunto di concept-album.
Dal punto di vista musicale, la cosa che balza agli occhi è che l’approccio del progressive qui vissuto ha meno a che fare col virtuosismo strumentale, quanto più a che vedere con l’assemblaggio delle atmosfere (ma le enfasi strumentali non mancano). Proprio la precedenza voluta dare all’essenza umana porta più a cantare che a suonare. Se i Pink Floyd usavano anche molta chitarra per esternare lancinanti moti dello spirito, i Pain Of Salvation prediligono la diretta testimonianza umana. I concetti passano anche attraverso aggiunte sonore in cui chitarra e batteria, e altri suoni, imprimono forza e straniamento, ma non si lascia mai tanto spazio all’assenza di vocalità. Gli strumenti, sia chiaro, ci sono, e sono molto efficaci, il tutto però è sempre ben definito, non si fanno assoli per il semplice gusto di sentirli, ma devono dare un senso di unità, ben finalizzandosi al messaggio che si vuole far passare.
I Pain Of Salvation non si sono relegati in un contenitore chiuso: essendo la fuoriuscita di personalità umana piena di ricchezza, hanno toccato molteplici sonorità e generi, anche andando a scontrarsi con pubblico e critica. In ‘Entropia’ troviamo alternative e funky rock. Nel 2004 pubblicano ‘Be’, un album un po’ fuori contesto, dove la band si tuffa in folk, musica classica e musical. E il fuori contesto prosegue anche con ‘Scarsick’ del 2007, in cui si inseriscono respiri crossover, nu metal e disco. Addirittura ‘Scarsick’ appare rozzo, cosa strana per un gruppo che ci aveva abituato alla raffinatezza. Nel 2010 e nel 2011 la cosa si ripete con i due ‘Salt Road’, molto rockeggianti ma in vari episodi lontani dal loro passato recente. ‘Road Salt One’ e ‘Road Salt Two’ sembrano più liberi nella scrittura; spesso i brani hanno dato l’idea che il loro lavorare sia super programmato, qui al contrario traspare una certa naturalezza: i due dischi sono apparentemente meno intellettualisti, più rock vecchio stampo, quasi sessanta/settantiano in molte loro escursioni: con venature blues spinte così come lo pensavano i Beatles (‘She Likes To Hide’) o rock blues da sudista americano (‘Tell Me You Don’t know’); lo stoner di ‘Linoleum’ un po’ Red Hot Chilly Peppers, un po’ pop; l’indie di ‘Innocence’; l’hard rock alla Grand Funk Railroad di ‘Conditioned’ o le acusticità ledzeppeliniane di ‘Healing Now’; il menestrello folk alla Jethro Tull in ‘Sisters’. Addirittura un brano da passatempo eclettico come i Beatles su White Album (‘Sleeping Under The Stars’). Non è sempre metal ma non certo ci si volta verso il prog tradizionalista come hanno fatto gli Opeth perdendo personalità (pur realizzando ottimi dischi). Non è un lavoro progressive in sé, ma i musicisti sfruttano quella curiosità insita nell’anima prog assecondando la voglia di suonare diversamente dal solito. Non è ciò che è stato prodotto ad essere prog, ma lo è lo stesso atteggiamento d’artista, ad incarnare l’irrequietezza progressive, sempre alla ricerca di qualcosa in più, volendo ampliare la propria smania espressiva. Ma a questo punto non è la band a volerlo quanto la mente unica che comanda, cioè Gildenlow.
Se si vuole esprimere ciò che si ha dentro, fino all’ultimo singulto, non poteva che finire così: un uomo solo alla guida che attraverso la musica vuole raccontarsi. L’uomo e il musicista sembrano collimare, sovrapporsi e apparire un tutt’uno. In questo aspetto abbiamo quindi l’artista totale, un bohémien che vive l’arte come estensione di se stesso, fondendo i processi interiori con le escrescenze sonore. E in questo atteggiamento il pubblico ha poco spazio. Come ‘Be’ e ‘Scarsick’, anche ‘Road Salt’ fu criticatissimo, nonostante sia pervaso di una bellezza globale unica; di una poesia molto variegata e ampia. Nessuna caduta reale, solo non si sono soddisfatte le aspettative del pubblico; ma come criticare, per esempio, una canzone come ‘Eleven’?
L’ingoiare amaro dei fan appare cosa logica in quanto l’album considerato perla ed apice compositivo è stato il terzo ‘The Perfect Element’, del 2000, con la sua immensa altezza espressiva che fu in grado di mettere a fuoco tutta la vena artistica del gruppo. La modalità stilistica di questo album in realtà la troviamo spesso in altri lavori, anche se va individuata in singoli brani racchiusi in contenitori estetici completamene differenti. Se l’altissimo livello di ‘The Perfect Element’ è memorabile, quella dimensione resuscita qua e là e poi si riversa in altri lavori stupendi come è avvenuto nel 2017 con ‘In The Passing Light Of Day’, dove il tema è la sofferenza nella malattia vissuta dallo stesso Gildenlow (nell’anno 2014 soffrì di fascite necrotizzante). Un album pensato già con un importante tasso di durezza prima dell’ospedalizzazione. I sussurri, i falsetti, le modulazioni vocali con le sue tonicità accese e teatrali, restano fondamentali nell’espressività della scrittura, tutta basata sul saliscendi emotivo mai linearissimo, per potergli dare ampiezza estetica. La splendida ‘On A Tuesday’, lunga quasi 10 minuti e mezzo come un brano prog degli anni settanta, non contiene però virtuosismi come era uso fare in quegli anni, è invece un dilungarsi di passaggi e di atmosfere, per meglio rappresentare il movimento interiore dello spirito. Vi si sentono anche degli influssi alla System Of A Down ma sono dei flash brevi e non espansi (‘Reasons’). ‘Angel Of Broken Things’ contiene un assolo magnifico legato proprio al modo antico di concepire la forma della canzone, ma è un’opera unitaria come era ‘The Perfect Element’.
Il gruppo ha pubblicato 11 album con l’ultimo del 2020 (‘Panther’), e ancora una volta si toccano altri tasti, come l’elettronica. Anche qui però non si può non notare una continuità con ‘The Perfect Element’ e ‘In The Passing Light Of Day’. Di certo in ogni disco non mancano le elucubrazioni di brani intensi molto soffici, ma soffici in modo nervoso, come spinti da pulsioni di insofferenza. Ecco, questa espressività forte è uno degli elementi che unisce la storia discografica della band. Molte inflessioni che vanno a pelle, sembrano provenire dalle tipologie vocali di Geoff Tate dei Queensrÿche di ‘Promised Land’ (citando Dario Cattaneo, autore sempre su questa rivista, della recensione di ‘Panther‘); la band vive di questi agganci passionali introspettivi, modulati da una voce suscettibile. ‘In The Passing Light Of Day’ torna, si può dire, il vecchio Gildenlow, anche se con una approfondita anima scurita, e l’ultimo ‘Panther’ del 2020, nonostante le impronte elettroniche, ne è la continuazione quasi naturale, sebbene si sprofondi maggiormente nel dark.
Spesso nei Pain Of Salvation non c’è un brano duro ed uno morbido, in quanto in varie occasioni le cose si compenetrano in una unica traccia. Sono una band che non si può relegare in un confine strutturale, di certo rimane saldo nella modernità e la tradizione antica del progressive per loro è solo una materia da cui può essere estratto qualcosa, senza che ciò significhi riportarlo in vita così com’era. Possiamo dire che la band è progressiva nel vero senso della parola ed in tutti i sensi che possiamo attribuire al termine, sia di virtuosismo, sia di mescolanza di generi, sia di forma che di variazione e variabilità, sia di sperimentazione (parziale per la verità). La band incarna perfettamente tale concetto. Realisticamente si parla di qualcosa che è riconoscibile ma sempre poliedricamente vivo, cangiante. L’estetica del gruppo è contenutistica, attraverso la forma viene data carne ai sentimenti. I valori tematici del compositore (pare che scriva quasi sempre tutto Gildenlow) non si distaccano mai dall’impostazione musicale e strutturale delle opere create. Una simbiosi interagente, una musica che vuole essere “vera”, tanto da far stare male il compositore stesso (ammissioni dello stesso Gildenlow) se questa veridicità non viene rispettata, come quando le azioni con la band non rispecchiavano i suoi moti interiori (per esempio nel caso di fingere unità di gruppo quando non c’era).
Oggi sembra che i Pain Of non siano più una vera band. Sono diventati l’autobiografia psichica di Gildenlow. E’ ciò che avviene quando ci si immerge in profondità nel mare dell’arte. E in questa immersione si toccano molte cose del sé, e ogni contenuto ha bisogno della sua forma, quindi vanno toccate contemporanemente anche molte cose musicali perché diverse sono appunto le forme da rappresentare. Non c’è corda che Gildenlow non tocchi, anche se evita l’heavy metal classico basato sui riff anni Ottanta. Il desiderio di mettersi sempre alla prova, di suonare acustico (‘Falling Home’ del 2014), di suonare elettrico, di essere complesso, di essere semplice. Il tutto senza mai contraddirsi come creatore, senza diventare mai schizofrenico ma sempre riconoscibile. Egli è come un cuoco che cucina ogni tipo di pietanza ma lo fa con il tocco personalissimo che riconduce a lui stesso. Possiamo sottolineare che, davvero, in questa avventura lui ci metta tutto se stesso, con la spavalderia di chi freme per esprimersi, ma anche con il carisma adeguato per essere preso sul serio. Possiamo concludere che i Pain Of Salvation siano una one man band e l’ultima creazione ‘Panther’ né è la conferma. La perdita dell’ultima pedina importante, cioè il chitarrista Ragnar Zolberg, è il risultato di questo monopolio espressivo ineludibile.
Forse l’amore per la musica che traspare dall’avventura di Gildenlow, è anche un po’ amore narcisistico, ma senza addentrarci noi in meandri oscuri e misteriosi che non ci competono, è bello avere un artista che plasma bellezza traendola, proprio per noi, da tali anfratti oscuri e misteriosi, e in questo c’è probabilmente la salvezza, perché, come si dice ormai comunemente, usando la frase di Dostoevskij in ‘L’Idiota’: “La bellezza salverà il mondo”.

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