5 (+1) curiosità che forse non sapete su… Ritchie Blackmore
Il 14/04/2021, di Francesco Faniello.
In: The Birthday Party.
Richard Hugh Blackmore è nato a Weston-super-Mare (UK). Dopo una carriera da turnista, nel corso degli anni ’60, venne contattato dal batterista/cantante Chris Curtis per unirsi ai Roundabout, poi divenuti Deep Purple dopo l’estromissione del “fondatore” da parte dello stesso Blackmore e degli altri due musicisti coinvolti, Jon Lord e Nick Simper. Band chiave per l’evoluzione e la canonizzazione dell’hard rock nei primi anni ’70, i Deep Purple devono al talentuoso chitarrista gran parte della propria matrice sonora, un ruolo condiviso con Lord in una serie di fughe e “duelli” che hanno rappresentato lo standard per molti dei virtuosi a venire. Insoddisfatto della direzione intrapresa dalla band madre per via delle influenze funk in voga a metà decennio, Ritchie Blackmore fondò i Rainbow assieme a Ronnie James Dio degli Elf, dando vita a un approccio epico e roccioso ai canoni dell’hard rock che farà scuola negli anni a venire. Chitarrista dalla forte impronta classica, è uno dei padri indiscussi del filone neoclassico nel virtuosismo chitarristico che esploderà a partire dagli anni ’80, salvo poi dedicarsi al recupero di sonorità rinascimentali con i Blackmore’s Night, il progetto fondato nella seconda metà degli anni ’90 assieme alla moglie Candice Night. Ma forse non tutti sanno che…
Sentieri selvaggi
Prima ancora della nascita dei Roundabout, il giovane Blackmore era un turnista di lusso che aveva prestato la sua opera con molti artisti in voga nella prima metà degli anni ’60: Glenda Collins, Heinz Burt nonché Screaming Lord Sutch, il folle e geniale precursore di Alice Cooper e Arthur Brown, noto per le sue performance a tema orrifico di cui è esempio ‘Jack The Ripper’. Questa versione di ‘The Train Kept A-Rollin’ vede proprio il Nostro alla chitarra solista, poco prima che gli Yadbirds prima e gli Aerosmith poi facessero proprio il popolare standard di Tiny Bradshaw. Peccato non disporre di un filmato che mostri anche il resto dei Savages, la backing band di David Sutch, conciati come Tarzan (Blackmore compreso!) nel bel mezzo degli Swinging Sixties…
C’eravamo tanto odiati
L’astio tra Blackmore e Gillan è arcinoto, ma le motivazioni restano avvolte nel mistero. Semplice incompatibilità di ego? Divergenze insanabili? Fatto sta che è stato proprio questo equilibrio precario (assieme alla signorilità di Lord, all’acume di Glover e al roboante tessuto ritmico di Paice) a regalarci la grande stagione del Mark II dei Deep Purple, una formazione che ebbe non una, non due ma… tre vite! Una finita peggio dell’altra, con Ritchie Blackmore che arrivò a dire del suo arcinemico “lo prenderemo in un vicolo, io e un gruppo di amici miei… e non saprà mai che sono stato io a colpirlo”. E dire che alla fine dell’esperienza di Ronnie James Dio con i Rainbow, Ritchie pensò proprio a Ian come rimpiazzo, con quest’ultimo che declinò (gentilmente?). Insomma, non sembra esserci un titolo migliore di ‘Perfect Strangers’ per descrivere la relazione tra i due, con ‘Under The Gun’ a continuare la narrazione nel modo più efficace. A proposito, sapevate che il refrain in coda all’assolo di chitarra cita la celebre marcia n. 1 ‘Pomp And Circumstance’ di Edward Elgar, compositore inglese dei primi del ventesimo secolo? Riguardate la celebre scena della rassegna in carcere di ‘Arancia Meccanica’, se questo particolare vi sfugge… il Nostro ne riprenderà il refrain nella versione di ‘Land Of Hope And Glory’ dei Rainbow, chiamata così in omaggio alla canzone patriottica realizzata proprio sulle note di Elgar.
We Must Be Over The Rainbow!
“Io non caccio nessuno: se qualcuno è fuori dalla band, vuol dire che non dava il cento per cento”. Certo, è difficile immaginare uno come Ronnie James Dio che non dà il cento per cento in un progetto come i Rainbow, che ha praticamente ridefinito le coordinate dell’hard rock, portando alla luce l’universo del power metal nella sua espressione più pura. Eppure, Blackmore dichiarerà più volte che era lui a fare tutto, per quanto riguarda la composizione delle linee vocali dell’elfo più amato dell’HM. Una collaborazione relativamente breve, ma storica: si pensai che era nata da un capriccio, con Ritchie Blackmore che voleva proporre una versione di ‘Black Sheep Of The Family’ ai suoi compari del Mark III dei Deep Purple. Possiamo solo immaginare le espressioni gravi e corrucciate dei senatori Lord e Paice, lo smarrimento di Coverdale e l’eloquente sorriso stampato sulla faccia di Hughes; ecco dunque che sarà l’allora singer degli Elf, la band di spalla nel tour, a dire la frase magica “certo, è dei Quatermass: adoro quel pezzo!”. L’idea di un quarantacinque giri (con ‘Sixteenth Century Greensleeves’ sull’altro lato) si trasformò presto in un debutto sulla lunga distanza che mostrava in copertina due delle massime passioni del leader: il castello fiabesco di Neuschwanstein e l’arcobaleno oltrepassato da Dorothy nel film preferito dal leggendario chitarrista…
Come Hell Or High Water…
Tre minuti e quindici secondi: questo è il tempo intercorso tra l’inizio del concerto dei Deep Purple alla NEC Arena di Birmingham e l’ingresso di Ritchie Blackmore sul palco. Praticamente due strofe dell’opener ‘Highway Star’, eseguite come avrebbero potuto fare gli ELP in uno slancio goliardico, ma le sorprese non finiscono qui: i più attenti sapranno che quello era il momento dell’assolo di organo, brutalmente interrotto dall’ingresso roboante del Man In Black, con uno dei suoi solos più classici infiorettati con acrobazie da shredder come era solito fare in quello che sarà l’ultimo tour in assoluto con i suoi storici compari. Infastidito da una reunion con Gillan che gli era stata imposta, nonché dalla presenza degli odiati cameramen sul palco, verso le ultime battute l’amabile Ritchie pensa bene di tirare un bicchiere d’acqua verso la telecamera che – guarda un po’ – era proprio alle spalle di Gillan. Nelle interviste successive a quello che risultò come uno split inevitabile, Blackmore mise l’accento sulla mancanza di professionalità dimostrata dal singer nell’intero tour (da che pulpito!), nulla più che un pretesto per liberarsi del pesante fardello della Storia, e riscriverne un’altra completamente dall’inizio (o quasi). Genio e sregolatezza: non si dice così?
Carry On, Jon
In una recente intervista, Michael Schenker ha dichiarato scherzosamente (ma non troppo) che ‘tutti quelli che lasciano Ritchie Blackmore si uniscono a Michael Schenker’: nulla di più vicino alla realtà, data l’indole da talent scout dimostrata nei decenni dal Man In Black, a partire dalla scelta di Coverdale e Hughes per rinnovare i Deep Purple, fino al cast stellare di musicisti che hanno popolato la corte dei Rainbow, molti dei quali sono confluiti nelle formazioni messe su dagli shredders venuti dopo di lui, tra cui Malmsteen e lo stesso Schenker, solo per citarne un paio. La lista è infinita: Dio, Powell, Bonnett, Turner, Airey, Rosenthal, per giungere ai giorni nostri e a Ronnie Romero; un vero e proprio vivaio, col solo Jens Johansson che ha di recente compiuto il percorso inverso per unirsi ai redivivi Rainbow dopo avere iniziato la propria carriera sotto i riflettori della stellare Rising Force di Yngwie Malmsteen. Eppure, non serve un critico sopraffino per intuire chi è stato il compagno di band che ha potuto fregiarsi di una vera e propria affinità elettiva col Nostro: si tratta del compianto Jon Lord, con cui il Man In Black ha istituito un vero e proprio canone di singolar tenzone tra chitarra e tastiera, tra la sei corde e i tasti d’avorio, che ha lasciato il suo marchio su tutte le coppie di virtuosi dei decenni a venire. Nulla di più naturale dunque che a Jon sia stato dedicato lo strumentale di chiusura di ‘Dancer And The Moon’ dei Blackmore’s Night, una di quelle pièce chitarristiche che rimandano ai fasti di ‘Maybe Next Time’ o ‘Anybody There’.
Memories In Rock
Probabilmente, una delle sensazioni ricorrenti quando si parla di Ritchie Blackmore è la nostalgia. Nostalgia di un tempo che fu nei solchi virtuali delle reminiscenze rinascimentali dei suoi Blackmore’s Night, ma anche in quelli reali delle fughe barocche messe su vinile dalla Tetragrammatron all’epoca del Mark I dei Deep Purple. Non solo: all’epoca dell’ammissione della band madre alla Rock And Roll Hall Of Fame, dichiarò che sarebbe stato interessante esibirsi insieme in memoria del Mark II “per i fans, per dimostrare che non c’è astio tra noi”. E la nostalgia è anche il motivo che ha dato vita ai concerti del Memories In Rock, che hanno visto il ritorno dei Rainbow con Ronnie Romero alla voce: grandi emozioni ma anche molto amaro in bocca, specie da parte di colui che si è considerato il grande escluso, Joe Lynn Turner. Se da un lato Blackmore ha ribadito il suo coerente intento di rinnovamento di quel vivaio di cui sopra, dall’altro ha implicitamente ribadito che la nostalgia può essere un sentimento monodirezionale; non a caso, all’epoca degli Over The Rainbow a fine anni 2000, diede la sua benedizione al figlio Jürgen affinché si unisse alla formazione capitanata da Turner stesso assieme ad altri membri storici dei Rainbow, messa su – neanche a dirlo – per riportare dal vivo quei classici. Come dire… le commemorazioni sono belle, ma solo quando l’idea è mia.