Alice Cooper – Detroit Rock City!
Il 16/03/2021, di Alex Ventriglia.
In: Speciali Monografici.
‘Detroit Stories’ sembra già candidarsi ad album dell’anno, sia per il clamore che sta suscitando, sia per i notevoli dati di vendita che, in tempi critici come questi, non son mai preventivabili, fatto sta che, una volta di più, Alice Cooper sta facendo parlare (ottimamente) di sé. Più che una recensione, questa è una panoramica bella assortita su vizi e virtù della “Motor City” per antonomasia, in relazione ai fasti di ieri e di oggi di Mr. Vincent Damon Furnier. Una panoramica firmata dal nostro direttore Alex Ventriglia.
“Los Angeles ci snobbava, quasi ci rifiutava, ci sentivamo dei reietti, e, da reietti, siamo stati adottati da Detroit, una città che non vuole le apparenze, ma solo la sostanza. E noi eravamo lì per dargliela!”.
Parole al miele quelle riservate da Alice Cooper alla “Motor City” per eccellenza, la quale, alla fine dei sognanti ma controversi Sixties accolse lui e la sua gang di canaglie, ai quali non pareva vero di poter finalmente picchiare duro, dopo i deludenti anni a bazzicare il Sunset Boulevard, forse di stomaco troppo “delicato” per digerire gli ambiziosi ed eversivi progetti di Vincent Damon Furnier. Frontman carismatico e personaggio assoluto al quale Detroit non dette solo i natali, ma gli concesse le chiavi ideali per riscattarsi, lasciando che a impregnarlo fosse la natura stessa della città, coriacea ed essenziale, unica nel suo genere per una serie di motivi, il primo fra tutti l’essere la capitale dell’industria automobilistica statunitense. E se da questo “lato” diciamo sociale la superficie non poteva che essere dura e ruvida, anche su altri fronti con Detroit non si scherzava affatto, con una pulsione quasi inarrestabile di movimenti culturali, ma soprattutto di espressioni musicali che lasciarono indelebilmente il segno, basti pensare per esempio che fu proprio qui che nacque la Motown Records, la più celebre etichetta di musica nera e certamente all’avanguardia nell’imporre artisti del calibro di Stevie Wonder, Diana Ross, The Temptations, Marvin Gaye, Lionel Richie, i Jackson Five, i Commodores e altri ancora. Da qui, da questo tornado di soul impetuoso, spesso innervato da funk e rhythm’n’blues, il primo, importante soffio vitale di una città sempre in prima linea. E che si scoprì indomita e intransigente, quando a guidare la ribellione giovanile entrarono in gioco gli Stooges di Iggy Pop e i MC5, rabbiosa coppia che anticipò di parecchio il punk, affiancati dai vari Bob Seger System, Ted Nugent, The Frost, le Cradle, all-female band composta da Suzi Quatro e le sue sorelle, gli SRC e appunto Alice Cooper, per il quale questa tribù di folli era autentica manna piovuta dal cielo.
Una scena ribollente, quasi isterica nei suoi umori, ma estremamente esigente, chi ne faceva parte, sapeva che non poteva tirarsi indietro, sacre le sue regole e sacro il suo pubblico, devoto, ma anche geloso del “Motor City Sound” che oramai le sponde del lago Michigan non potevano contenere più. Rende bene l’idea il commento che fece il bassista Dennis Dunaway: “Loro sono attenti a te e a quello che fai, dall’inizio alla fine, e se magari ti capita di suonare una ballad, beh, sono capaci di sbatterti fuori dalla città!”. Con Alice che annuiva, ribattendo: “Detroit è una città tosta, con gruppi tosti! Bisogna che lo sai!”. Appunto a Detroit Vincent Damon Furnier divenne definitivamente Alice Cooper, complice il successo di ‘Love It To Death’, album trainato dall’hit single ‘I’m Eighteen’, che non solo gli rivoluzionò la carriera, ma avviò il lungo sodalizio con Bob Ezrin, producer all’epoca alle prime armi, ma che si apprestava a scrivere letteralmente la storia del rock, vista la sterminata lista dei credits via via accumulata. Colpisce quindi, ma fino a un certo punto, la presenza odierna di Bob, la sua non è una semplice comparsata nostalgica o un ritrovarsi tra amici, ammettiamo subito che ‘Detroit Stories’ suona da paura, e finalmente per merito di un produttore che possiamo reputare tale, in grado di farci dimenticare quest’epoca di plastica fatta di suoni fasulli ed edulcorati. Le palle ci vogliono, e Alice Cooper ne ha in abbondanza, lo ha sempre dimostrato, ma oggi torna ad esporsi sfacciato e con veemenza, grazie a un album che urla fuori tutta la sua essenza primordiale, oltre all’amore viscerale per Detroit e tutto ciò che rappresenta.
Affiancato da un gruppo di amici storici di allora, tra cui Wayne Kramer, mitica ascia dei MC5 e tra i precursori della famosa chitarra “a grattugia”, Alice rende letteralmente vivide le sue storie fatte di bassifondi e di vita vissuta ai margini, di amori improbabili e del totale rispetto per i “working-class heroes” che le compongono, storie in cui il rock’n’roll è furente e abrasivo, ma sa anche appassionare con venature di soul e rhythm’n’blues, chiamando costantemente alla rivolta, con inni che sanno essere sarcastici e pungenti, il soggetto lo conosciamo bene, è un maestro pure in tale campo, la dialettica non gli è mai difettata. Dall’opener ‘Rock & Roll’, all’omaggio finale ‘East Side Story’ (cover di Bob Seger di cui si aveva già notizia perché apparsa sull’EP ‘Breadcrumbs’, uscito quasi due anni fa), suoni ed emozioni si alternano vorticosi, è quasi un susseguirsi di colpi di scena, dentro un album che sta letteralmente sbancando il botteghino, clamoroso il primo posto delle charts di Billboard e i vertici delle classifiche accalappiati un po’ in tutta Europa, impensabile forse, ma la qualità qui dentro sgorga a fiotti, deve necessariamente giungere a destinazione… A sorvegliare idealmente la Cadillac Tower, l’imponente grattacielo simbolo di Detroit raffigurato in copertina, c’è uno dei suoi eroi prediletti, il figliol prodigo Alice Cooper che di mollar la spugna manco ci pensa. Per nostra fortuna.
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