Quarant’anni fa ‘Point Of Entry’, la pausa fra due epoche “Very Heavy”
Il 26/02/2021, di Roberto Sky Latini.
In: The Birthday Party.
Parlare di ‘Point Of Entry’, il settimo album da studio dei divini Judas Priest, non è facile, perché se da un lato brilla di brani splendidi come ce ne sono in ogni disco della band, dall’altra possiede anche quelle più brutte che il gruppo abbia mai scritto. Succedeva spesso negli anni Settanta/Ottanta che anche i grandi buoni combo riempissero di filler i loro lavori. In questo dei Judas ve ne sono almeno cinque, e cioè la metà, facendone uno dei peggiori della loro discografia. Il 26 febbraio festeggiamo i quarant’anni dalla sua uscita, e dobbiamo comunque essere felici, come fan, che esso abbia visto la luce, perché gli altri cinque pezzi sono fulgida testimonianza di arte. Una contrapposizione che in mezzo non ha tracce di media entità: o schifo o bellezza.
Due sono le caratteristiche dei brani migliori: una è quella riconducibile solo a ‘Hot Rockin’, una vera scarica metallica che segue la scia rocciosa e asciutta del precedente ‘British Steel’ (1980). L’altra è quella di tipo arioso che vede in quattro tracce tale apertura caratteriale; la maggiore rarefazione atmosferica si ha in ‘Desert Plains’, alla quale è comunque associabile l’enfatica apripista ‘Heading Out To The Higway’, facendo di queste ultime due l’apice compositivo del lavoro. A queste va legata anche ‘On The Run’ che possiede un fascino di tipo rockeggiante e virile, con un leggero sapore epico nel ritornello e una ritmica insistente e compatta, mantenendosi però su quella stessa lunghezza d’onda quale suggestione d’ampio respiro. Tra queste bellezze si pone anche ‘Turning Circles’ che soffia un ritmo medio, tonico, per poi aprirsi in un refrain accattivante e un ponte centrale con voce e assolo di soffice avvolgenza.
Questo disco dà inizio ad una diversa impostazione musicale (ma i Judas hanno spesso questa attitudine spiazzante), dove invece di sedersi sul sicuro sulle note dell’aggressività in quel momento vincente, anche grazie alla concomitante NWOBHM, tornano a una certa eleganza ma senza indietreggiare temporalmente a quella parziale elaborata cifra prog, che esisteva in ‘Sad Wings Of Destiny’ o in ‘Sin After Sin’. Si tratta sempre di heavy metal, ma essi scelgono uno stilema orecchiabile e in qualche modo leggero, che però mantiene l’anima rock di fondo, e in ciò non perdono tono, ma si fanno riflessivi rispetto a ‘British Steel’, e tornano ad arricchire l’arrangiamento che in quel disco invece era spoglio. Ma l’arrangiamento non usa i colori densi e ricercati del passato più lontano, quanto si vuole mantenere nell’insieme una certa immediatezza. Episodi mai troppo lunghi e mai troppo corti, che cercano di non perdersi nei meandri della complicazione. Solo ‘Thunder Road’ raggiunge i cinque minuti, ma infatti fu esclusa dall’album.
Purtroppo poi arrivano le pecche. ‘Solar Angel’, il cui suono iniziale promette bene, diventa banale e debole nella melodia. ‘Troubleshooter’ naviga facilona e innocua, anche se le inflessioni di Halford sono carine. ‘All The Way’ suona come fosse una delle peggiori canzoni dei Kiss; un rock’n’roll che non ha carattere. Peggio accade con ‘You Say Yes’ che supera il limite del ridicolo, senza riuscire ad essere nemmeno ironica; ritmica imbarazzante, le strofe sono insulse ed il ritornello del tutto vergognoso, quasi infantile. A nulla serve la bella voce interpretativa di Halford, che il salvataggio del songwriting di queste song è impossibile. ‘Don’t Go’ è l’unica tra le cose venute male ad essere accettabile, ma stenta a raggiungere la sufficienza.
Sembra proprio che altre idee non potessero essere spremute, e quindi ci si è accontentati di sole cinque perle, attorniate da riempitivi per scusare la pubblicazione di un intero full-lenght. Una parentesi morbida fra due avventure dure. L’anno dopo si cambierà totalmente registro perché arriverà il pesante ‘Screaming For Vengeance’ a scompigliare di nuovo le carte, per una doppietta con il successivo ‘Defenders Of The Faith ’ celebrando gli ultimi echi della NWOBHM. I Judas hanno avuto diversi stilemi, come i periodi espressivi di Picasso, e ‘Point Of Entry’ si pone come un capitolo a sé, non affiancabile ad altri dischi della band, non potendo nemmeno essere comparato a ‘Turbo’ che suona orecchiabile in tutt’altra maniera. ‘Point…’ è in qualche modo essenziale nella sua forma sonora, ma non nudo come ‘British Steel’, e con l’ulteriore differenza che nessuna canzone di quel lavoro epico era un filler come se ne trovano invece qui. Il fatto che dentro ci siano dei piccoli preziosi capolavori, i quali conservano ancora oggi un grande fascino, non elimina il senso di fastidio elicitato dalla presenza degli altri pezzi, insipidi e inutili. Come disse K.K. Downing riguardo al disco: “Se una band non ha il materiale, un produttore non può mettere su disco ciò che non esiste”. La copertina, nonostante la semplicità, risulta adeguata al suono, una immagine rassicurante con colori riposanti, non certo provocatoria come l’Heavy dei Judas aveva espresso con borchie e pelle, ma anche questo sottolinea l’aria respirata al momento, in linea coi suoni prodotti. Non è la verve americaneggiante ad abbassare il livello dell’opera, né un suono più hard o levigato (infatti anche nei pezzi migliori non c’è la durezza passata e futura), si tratta semplicemente di bassa scrittura in cinque escrescenze che potrebbero essere, senza rimorsi, cancellate dalla storia. Gli Iron Maiden nello stesso periodo sfornavano ep, potevano farlo anche i Judas. Comunque, nonostante nello stesso anno uscissero le maggiori pesantezze di ‘Denim & Leather’ dei Saxon e ‘Killers’ dei Maiden, possiamo reputare, con l’orecchio di oggi che quel disco non fu una sconfitta, perché artisticamente fu un flop solo a metà.
Hammer Fact:
– I Priest registrarono l’album ad Ibiza, due mesi in mezzo al mediterraneo, circondati da donne e pieni di distrazioni come in un villaggio turistico, e Downing nel suo libro (‘Heavy Duty’) riferisce: “La parte peggiore di tutto questo era che dopo saremmo dovuti tornare in studio di registrazione”.
– L’album comunque vendette molto bene, complice il successo dell’album precedente uscito appena un anno prima, e così poterono immergersi in uno spettacolo live più costoso con giganteschi macchinari idraulici, iniziando come altri a rendere gli spettacoli delle vere e proprie macchine da guerra più scenografiche. Quella serie di concerti fu chiamata “World Wide Blitz Tour” (suonarono insieme a Def Leppard; Saxon; Iron Maiden; Humble Pie; Whitesnake; Joe Perry).
Line-up
Rob Halford: vocals
Glenn Tipton: guitars
K.K. Downing: guitars
Ian Hill: bass
Dave Holland: drums
Tracklist:
01. Heading Out To The Highway
02. Don’t Go
03. Hot Rockin’
04. Turning Circles
05. Desert Plains
06. Solar Angels
07. You Say Yes
08. All The Way
09. Troubleshooter
10. On The Run
Tracce aggiunte nelle edizioni successive:
11. Thunder Road
12. Desert Plains (live)
Ascolta il disco su Spotify