La classifica dei dischi di Marilyn Manson secondo Metal Hammer Italia
Il 21/11/2020, di Gianfranco Monese.
In: Hammer Chart.
Il ritorno del reverendo di quest’anno, con ‘We Are Chaos’, ha trovato molti pareri positivi da parte di pubblico e critica. Ma di acqua sotto i ponti ne è passata per Marilyn Manson, un artista da sempre discussa, che ha diviso tanto per la proposta musicale quanto per l’immagine, da alcuni considerata persino pop. Andiamo dunque a vedere cosa ha fatto di buono (e di meno buono) Brian Hugh Warner, classificando i suoi album.
10. ‘Heaven Upside Down’ (2017)
Personalmente, il penultimo disco della discografia mansoniana è un (altro) lavoro bastevole, niente di più. Sicuramente al di sotto del predecessore ‘The Pale Emperor’ e dell’altrettanto convincente seguito ‘We Are Chaos’, potrebbe stare al pari con ‘Eat Me, Drink Me’, primo passo falso dell’artista ed escluso da questa opinabile classifica assieme a ‘Born Villain’.
Rispetto alle atmosfere “ottantiane” del lavoro di due anni prima, questo album risulta più poliedrico, e se per alcuni album questo è un pregio (‘We Are Chaos’), qui ahimè si parla di difetto. L’opener ‘Revelation #12’ ci riporta dritti al miglior Manson degli anni Novanta senza però avere la rabbia di quel periodo. ‘We Know Where You Fucking Live’, pur non brillando come i capolavori di vent’anni prima, è onesta. Idem dicasi per ‘SAY10‘, titolo originariamente previsto per l’album (e bel gioco di parole, se si mastica un minimo d’inglese). ‘Saturnalia’, personalmente il migliore dell’album, è uno dei brani che meglio rappresenta la maturazione avuta dal Reverendo da ‘Eat Me, Drink Me’ in avanti: trattasi di un onesto industrial con il bassista Ramirez in bella evidenza che potrebbe passare come banale, ed invece credo si faccia piacere da tutti, nuovi fan e vecchia guardia.
I problemi di ‘Heaven Upside Down’ arrivano a partire da ‘JE$U$ CRI$I$’, niente più che un riempitivo: è proprio qui che il discorso iniziale di poliedricità risulta stonare. Un mix senza capo né coda tra industrial, pop e rap disorienta l’ascoltatore. E se ‘Blood Honey’ e la title-track, strizzando l’occhio al pop, passano tra l’indifferenza quasi totale, per fortuna la conclusiva ‘Threats Of Romance’, proprio perché non caleidoscopica, più coerente ed in linea con la maturazione del Reverendo, chiude dignitosamente un disco senza infamia e senza lode.
Siamo di fronte ad un lavoro che sembrerebbe essere stato creato più per dovere che altro. Il solito disco che la vecchia guardia forse avrà snobbato o forse ascoltato distrattamente, pensando con nostalgia a quanto di buono questo artista ha composto in passato. A loro consiglio di virare verso chi, oggi, offre l’industrial che veramente cercano, e di band ce ne sono parecchie (l’ex Tim Skold o i 3TEETH ne sono degli esempi). I nuovi adepti del Reverendo, invece, con ‘Heaven Upside Down’ avranno trovato ancora pane per i loro denti. Contenti loro…
9. ‘The High End Of Low’ (2009)
Se il precedente ‘Eat Me, Drink Me’ appariva fragile nelle canzoni, in perfetta simbiosi con quanto raccontato dal Reverendo nei testi, per fortuna con questo album, pur senza gridare al capolavoro (siamo lontani non solo da ‘Mechanical Animals’, ma anche da ‘The Golden Age Of Grotesque’) si ritorna a certe sonorità industrial ed ad una certa rabbia che, a quanto pare, solo rientri come quelli di Ramirez e Vrenna potevano portare. Infatti a farci dimenticare della release precedente ci pensano immediatamente i due brani iniziali ‘Devour’ e ‘Pretty As ($)’.
A mantenere il disco su livelli dignitosi ma, allo stesso tempo, strizzando l’occhio anche alle radio, ci pensano poi brani come ‘Leave a Scar’, ‘Arma -Goddamn -Motherf***in-Geddon’, ‘Running To The Edge Of The World’ e ‘We’re From America’, nei quali la band mostra di saper scrivere e comporre buoni brani nonostante, per i fan della vecchia guardia, si abbia come l’impressione che si viaggi con il freno a mano tirato, che la band voglia più pensare a piacere un po’ a tutti che ad essere ribelle e di nicchia. Dispiace dirlo, ma i tempi in cui il personaggio (e non l’artista) Manson appariva come l’Anticristo sono finiti. Non per colpa sua: i tempi sono semplicemente passati. Non c’è più quell’interesse, o quel bisogno, che vi era precedentemente, ed il gioco è durato molto bene finchè è durato.
Tuttavia, il Reverendo potrebbe ovviare a tutto ciò con album di qualità. Ma neanche questa volta accade. Ed infatti i riempitivi non mancano ad arrivare: ‘Blank And White’, ‘WOW’, ‘Wight Spider’ ed ‘Unkillable Monster’ non aggiungono nulla all’album, impreziositi in primis da ritmiche che ci riportano ad ‘Eat Me, Drink Me’.
A conti fatti, sicuramente ‘The High End Of Low’ non è da condannare: aver ritrovato certe sonorità presenti, soprattutto, su ‘Mechanical Animals’, dopo il precedente passo falso non può che farci piacere. Peccato che dopo un buonissimo inizio, il disco cali nella parte centrale, e che alcuni brani potrebbero essere veramente validi, se solo si fosse osato di più, se solo fossero stati scritti con la rabbia e la creatività che si aveva nel 1998. Se potessi riassumerlo in poche parole, ‘The High End Of Low’, per come suona, potrebbe essere una raccolta di b-sides di ‘Mechanical Animals’. A voi giudicare se questo è un pregio o un difetto.
8. ‘Smells Like Children’ EP (1995)
Un EP strano, schizofrenico, pazzoide. Un’accozzaglia di “musica” che sicuramente Nine Inch Nails (prima) e Fantomas (poi) sono stati in grado di ordinare meglio. Ma siamo sicuri che Marilyn Manson, in questo ‘Smells Like Children’, volesse apparire acerbo o immaturo nel mettere insieme così tanti suoni, parole, rumori?
No: a lui il prodotto finale, almeno nel 1995, piace così. Anche perché, come nell’album di debutto, basterebbero titolo e copertina (con chiari richiami al film “Willy Wonka E La Fabbrica Di Cioccolato” del 1971) per farci capire che non siamo di fronte a qualcosa di facile assimilazione.
Ed infatti quest’album, come da titolo, “odora”. Odora di trasgressione, di sesso, di perversione, di droga, di tour eccessivi, in tutti i sensi. L’unico pezzo “normale” sembrerebbe essere la cover degli Eurythmics ‘Sweet Dreams (Are Made Of This)’, ma proprio perché “normale”, secondo me, non andrebbe presa in considerazione. Perché, dopotutto, cosa c’entra con il resto dell’EP?
Una cover, tra l’altro, riuscitissima (come, personalmente, più avanti saranno anche ‘Tainted Love’ e ‘Personal Jesus’), posizionata all’interno di un difficile e particolare lavoro, mi vien da pensare, solo per alzarne le vendite (cosa che accadrà), ma che se contestualizzata al suo interno appare come una mosca bianca.
Perché di “deviato” non ha nulla: è una bellissima cover, punto. Ma confrontatela con quanto di multiforme, multicolore o persino incomprensibile hanno tutte le altre tracce: ‘Sweet Dreams (Are Made Of This)’ è la più accessibile. Da questo punto di vista, le altre due cover (‘I Put a Spell On You’ di Screamin’ Jay Hawkins e ‘Rock ‘n Roll Nigger’ di Patti Smith ), altrettanto riuscite, riescono ad inserirsi meglio all’interno del caotico mondo di ‘Smells Like Children’.
Di sicuro e di positivo, qui vi è la voce di Manson che si sta pian piano formando, in tutte le sue sfaccettature. ‘Smells Like Children’: la deviata conclusione di ‘Portait Of American Family’ ed allo stesso tempo l’esatta introduzione al mondo di ‘Antichrist Superstar’.
7. ‘The Pale Emperor’ (2015)
A tre anni da ‘Born Villain’, che personalmente ritengo un’inutile prosieguo del precedente ‘The High End Of Low’ che forse, a tratti, anticipa quanto si può trovare su questo album, ma di concreto nulla aggiunge alla discografia di Manson, ecco giungere la nona fatica da studio (decima, contando l’EP recensito all’ottavo posto).
Nel 2015 l’artista di carte ne ha giocate parecchie, male secondo molti (soprattutto da ‘Eat Me, Drink Me’ in poi), ed è chiaro come, dopo più di un passo falso, la pazienza dei fan cominci ad esaurirsi. C’è da aggiungere, però, che per molti fan i tempi di ‘Antichrist Superstar’ andavano bene allora, non nel 2015. E sicuramente anche per Manson, coerente nella sua maturazione, nonostante nel successivo ‘Heaven Upside Down’ proverà a rispolverare quanto gli riusciva meglio negli anni Novanta.
Tuttavia, per fortuna con questa uscita il nostro si rialza, riprendendosi. Sicuramente siamo davanti al miglior lavoro post ‘The Golden Age Of Grotesque’. A rendere giustizia al “pallido imperatore” sono le atmosfere, che pescano soprattutto dalla New Wave anni Ottanta ed un po’ dal Gothic Love Metal tanto caro a band come gli H.I.M..
Impossibile non pensare a ciò ascoltando l’opener ‘Killing Strangers’ o ‘Deep Six’. La meravigliosa ‘Warship My Wreck’ è l’esempio più lampante di come si è voluto unire il tutto con un tocco moderno.
Certo: non si sta gridando al miracolo (da ‘Eat Me, Drink Me’ in poi sarebbe blasfemia), e come spesso accade alcuni riempitivi (‘Slaves Only Dreams To Be King’, ‘The Devil Beneath My Feet’) e qualche brano piacione (‘Third Day Of A Seven Day Binge’) fanno si che questo, a conti fatti, sia un album da sette. Ma per quanto ci ha regalato la band nel recente passato e, soprattutto, per quello che qui le atmosfere ci offrono per tutta la durata dell’album, non è poco.
Accantonato presto, definito senza infamia e senza lode, specchio del definitivo tramonto del Reverendo da chi ama nostalgicamente ricordare album come ‘Antichrist Superstar’, ‘The Pale Emperor’ è l’ennesimo esempio di un album di qualità gettato tra le fauci di chi non sa più ascoltare ed elaborare l’ovvia maturazione dell’artista in questione. Già, perché se contestualizzato con quanto composto da ‘Eat Me, Drink Me’ in poi, questo è un piacevole passo avanti ed un onesto omaggio agli anni Ottanta a tinte Blues (‘Cupid Carries a Gun’). Un po’ come se il nostro avesse voluto tributare Depeche Mode e Cure, fondendoli insieme “alla Manson”. Scusate se è poco.
6. ‘We Are Chaos’ (2020)
Giunti al 2020, i fan del Reverendo (vecchi e nuovi) sanno cosa aspettarsi, musicalmente parlando. Lo sanno da parecchio: la sua proposta, soprattutto da ‘Eat Me, Drink Me’ in poi, a voler essere sinceri, non è cambiata molto nel corso degli anni. Non si disturbino quindi, alcuni di loro, nel pretendere un nuovo ‘Antichrist Superstar’ o ‘Mechanical Animals’: dovesse accadere, sarebbero comunque in grado di affossarlo, con frasi (già lette nel 2008 per i Metallica di ‘Death Magnetic’) del tipo “certe sonorità riuscivano meglio vent’anni fa.”
Il brutto, ma allo stesso tempo il bello, credo sia proprio questo: per Manson, riproporre sonorità che risultarono innovative e rivoluzionarie all’epoca disorienterebbe. Non in quanto scadenti, ma semplicemente perché fuori contesto. Questo in quanto ai tempi non solo la si capiva, ma la si viveva e respirava quella proposta che tanto impazzava a braccetto con il Nu Metal. Oggi, a parte per chi l’ha vissuta, non verrebbe capita. E la veloce fruizione, unita a un disinteresse d’informazione da parte dell’ascoltatore aiuterebbe, purtroppo, ad accantonarla.
Personalmente, credo sia stato anche questo a direzionare la maturazione del Reverendo post ‘The Golden Age Of Grotesque’. Maturazione che, nel nuovo ‘We Are Chaos’, prodotto assieme a Shooter Jennings (conosciuto sul set di ‘Sons Of Anarchy’) e concluso in epoca pre-quarantena italiana, non vede grosse novità rispetto al recente passato discografico.
Superata, infatti, la valida opener ‘Red Black And Blue’, con i suoi richiami ad ‘Antichrist Superstar’, la title-track e ‘Chase The Dead’ (che, assieme a ‘Solve Coagula’, riporta a quanto sperimentato in ‘Mechanical Animals’), brani validi per il Manson di oggi, risultano comunque intrisi di quel Gothic Rock che, non so voi, ma ho sempre ritenuto meglio eseguito da altre band, H.I.M. su tutte.
Tuttavia, a confronto soprattutto con il precedente ‘Heaven Upside Down’, questo è un buon inizio. A proseguire su binari fedeli a ciò ci pensano due semi ballad: ‘Paint You With My Love’, che pur sembrando per i primi due minuti e mezzo più un pezzo dei One Republic che altro, si salva grazie ad un sofferto finale, e ‘Half-Way And One Step Forward’, che ha il solo difetto di durare poco. Troppo poco. Al di là di questo, si presti attenzione proprio ai due brani appena citati, perché credo che, assieme ad altri (‘Don’t Chase The Dead’, ‘Perfume’ e ‘Broken Needle’) meglio rappresentino l’artista. Dovesse un neofita, oggi, chiederci quale sia la sua proposta, questi nuovi brani ne sono delle giuste rappresentazioni: delle Gothic semi-ballad passabili in radio intrise, qualcuna più qualcun’altra meno, di echi Industrial.
Con ‘Infinite Darkness’ i toni si fanno interessanti: cupi nelle strofe, crudi nei ritornelli. Ecco, se tutto l’album contenesse brani accattivanti (pur nella loro semplicità e senza gridare a capolavori) come questo, credo che a più di un fan si stamperebbe un bel sorriso in faccia. Ma siamo sicuri di pretendere ancora ciò da un artista ormai cinquantunenne? Non potrebbe, alla lunga, risultare patetico? A conti fatti, credo sia meglio un’onesta e variegata release come questa in cui, piaccia o meno, il Reverendo è a suo agio. Troviamo infatti qualche brano il cui scopo è di riportarci indietro nel tempo, smorzato da una semi-ballad, con qua e là qualche brano piacione e/o una ballad (come la notevole ‘Broken Needle’, posta in chiusura, a detta di chi scrive miglior brano dell’album).
E se queste sfumature, prima, diversificavano album poi non tanto validi (‘Heaven Upside Down’), qui il risultato è nettamente superiore, e piace.
Personalmente a fianco del valido ‘The Pale Emperor’, ‘We Are Chaos’ è un (altro) album che probabilmente ai voti potrà anche essere poco più che sufficiente ma che, soprattutto ascolto dopo ascolto, convince. La speranza è che con la prossima release Manson, restando semplicemente sé stesso e pubblicando un altro lavoro onesto, alzi ulteriormente l’asticella.
5. ‘The Golden Age Of Grotesque’ (2003)
Da questo quinto posto della classifica salendo al primo si entra nel vivo, cioè in quelli che indiscutibilmente sono i cinque migliori album del Reverendo. A voi ordinarli come meglio preferite (ogni classifica è personale).
Come l’omonimo album dei Metallica, dopo ‘Holy Wood’ ecco arrivare il cosiddetto album di transizione. E non solo perché quanto verrà pubblicato poi sarà di livello inferiore e distante da qualità e genere ai quali il Reverendo ci aveva abituato, ma anche perché rappresenta l’ultima testimonianza di componenti quali John 5 e Madonna Wayne Gacy (vorrei poter citare anche Twiggy Ramirez, ma qui è già assente, degnamente sostituito da Tim Skold).
Un album che, come da titolo e da intro (‘Thaeter’), sembrerebbe voler evocare una sorta di “sinistra e gotica Belle Epoque”. Periodo durante il quale, se Manson lo avesse vissuto, ne avrebbe allietato le serate con la rappresentativa (musicalmente parlando) ‘Doll-Dagga Buzz-Buzz Ziggety-Zag’.
Che questo è un album di transizione lo si capisce innanzitutto dai brani, di più facile assimilazione soprattutto grazie ai suoni. L’accessibilità di ‘Mechanical Animals’ qui è ancora più aperta, grazie ad un minor uso di chitarre (si noti come nella maggior parte delle strofe dei brani, dall’ottima ‘This Is The New Shit’ a ‘Ka-Boom Ka-Boom’, le chitarre siano assenti, o presenti in minor parte in ‘[S]AINT’ o ‘Slutgarden’) ed ai loro effetti che potrebbero graffiare di più (in ‘Use Your Fist And Not Your Mouth’, nel voler criticare la società americana si poteva essere più cattivi, come lo si è ad esempio in ‘The Bright Young Things’).
Al di là dei vari singoli (‘This Is The New Shit’ e ‘mOBSCENE’) non vi è un vero brano che spicchi, anche se ‘Para-noir’, il più lungo e personalmente più riuscito dell’intero album, dove forse meglio si nota la presenza del nuovo arrivo “industrial” al basso ed alla produzione, il già citato Tim Skold (di cui vi consiglio di ascoltare qualche suo album solista, ma anche quanto prodotto con gli Shotgun Messiah), si distingue da una certa monotonia un po’ prevedibile presente nella seconda parte del disco, dove la qualità sembrerebbe calare.
In conclusione, grazie all’accessibilità (da non confondersi con semplicità) dei brani presenti in ‘The Golden Age Of Grotesque’, Manson sembrerebbe voler arrivare a tutti, realizzando un prodotto valido, pur osando meno. Ma, a quanto pare, per il Manson del 2003 osare significava proprio questo.
4. ‘Holy Wood’ (2000)
L’ultimo album che concerne la trilogia del Reverendo è quello che la comincia e che, musicalmente parlando, grazie a delle bellissime atmosfere sinistre e cupe, prende il meglio dai due capitoli precedenti.
Superata l’intro ‘Godeatgod’, il ritmo iniziale dato dalla batteria su ‘The Love Song’ sembra infatti somigliare all’opener di ‘Mechanical Animals’, salvo poi svilupparsi diversamente e convincendo chi pensava ad un Manson sedutosi sugli allori dopo il successo dato dalla precedente release.
Convinzione che prosegue spedita con le successive ‘The Fight Song’ (secondo singolo estratto), ‘Disposable Teens’ (primo singolo estratto, il cui testo è legato a quanto accaduto alla Columbine High School, anche se tutto l’album è una risposta a quella tragedia) e la malinconico – rabbiosa ‘Target Audience (Narcissus Narcosis)’, sicuramente tra le canzoni più riuscite dell’intero lotto.
Quanto accade successivamente per la maggior parte dei brani, ovvero da ‘President Dead’, sembrerebbe essere un leggero calo dove Manson da l’impressione di voler viaggiare sulla corsia di destra, più desideroso di arrivare a casa tranquillo che di rischiare un sorpasso. Ecco quindi che alcuni brani passano senza lasciare il segno: non sono male, ma neanche fanno gridare al capolavoro, forse perché intrisi di quel Glam Rock/pop già in voga sul disco precedente, ma qui meno convincente. Analizzando solo il disco (senza parlare di vendite più o meno legate alla crisi che presto sarebbe giunta, che porterà ad una disattenzione da parte dei fan verso il prodotto), a stemperare il risultato finale è la forma canzone, nella quale per tutto ‘Holy Wood’ Manson e John 5 uniscono una giusta dose di industrial presente in quantità maggiore su ‘Antichrist Superstar’ a parte dell’orecchiabilità di ‘Mechanical Animals’. E se gli altri due capitoli, da soli, funzionano proprio per quelle doti, ‘Holy Wood’, comunque ottimo (soprattutto se confrontato con quanto verrà pubblicato poi) è forse l’anello debole della trilogia.
Infatti, più ci si inoltra nel “Legno Sacro”, più l’ascolto deve ripetersi per poter apprezzare ogni singolo brano, ed è questo molto probabilmente sia il pregio che il difetto di questo lavoro (al fruitore l’ardua sentenza): un album dove sono le atmosfere a comandare, dove l’artista ha preferito meditare su ciascuna canzone piuttosto che scriverla e comporla di getto. Un album nel quale, soprattutto dalla seconda metà in poi, viene meno il singolo da classifica in favore di un ascolto da affrontare con concentrazione e/o meditazione. All’ascoltatore viene chiesto di addentrarsi con circospezione in una ‘In The Shadow Of The Valley Of Death’ (per il sottoscritto vero capolavoro del disco) , in ‘The Nobodies’ (terzo singolo estratto), ‘A Place In The Dirt’, ‘Lamb Of God’ e ‘Coma Black’, che come le due successive ‘Unforgiven’ dei Metallica da titolo farebbe ben sperare, ma personalmente è solo la sorella minore della ‘White’ presente in chiusura dell’album precedente. Tuttavia, proprio per alcune “complessità” che lo compongono, ritengo ‘Holy Wood’ un lavoro interessante, dove ancora una volta il Reverendo offre un prodotto con sfumature diverse dai suoi predecessori (ogni lavoro della trilogia, comunque riconducibile allo stile di Manson, ha caratteristiche proprie), senza ripetersi con proposte (e minestre) riscaldate: le canzoni sono affascinanti, i richiami molteplici e la controversia, come sempre, si fa sentire lungo tutta la durata del disco. Il consiglio è di navigare sul web per scoprirne tutte le curiosità, a partire dalla suddivisione delle canzoni in quattro parti e lettere che, unite, compongono il nome del protagonista, che altri non è che Adamo, il primo uomo, portabandiera (come i protagonisti degli altri due capitoli della trilogia) di accuse nei confronti della società.
In conclusione, ‘Holy Wood’ è un signor album, il cui voto partirebbe (almeno) da 7,5. Ha forse il difetto di non essere, nella seconda parte, di facile assimilazione come il suo predecessore. Inoltre, il fatto che contenga qualche riempitivo di troppo non aiuta. Ma queste sono solo delle personali, forse pignole, critiche che fanno riferimento ad un confronto fatto con gli altri due titoli della trilogia (indiscussi capolavori dell’intera discografia del Reverendo). Di fianco a loro ‘Holy Wood’ è appena un gradino sotto; quanto verrà pubblicato a partire da ‘Eat Me, Drink Me’ starà molto più in basso.
3. ‘Portait Of An American Family’ (1994)
Bastano già titolo dell’album e immagine in copertina per descrivere, o meglio criticare, la società americana. Un qualcosa che l ‘artista, con costanza, porterà avanti negli anni a venire.
Tra tutti gli album del Reverendo il debutto è forse il più grezzo, quello più post Grunge che Industrial, o meglio ‘Grungestrial’ (anche se, senza fantasticare, credo si debba parlare di Alternative Metal), con richiami a band come Smashing Pumpkins, soprattutto nelle chitarre (non a caso, come assistente alla produzione, oltre a membri dei Nine Inch Nails c’è Alan Moulder), nel quale gli esperimenti riusciti di Reznor sono tenui, facendo risultare il prodotto finale più come il lavoro di una band che quello di un artista coadiuvato da ottimi musicisti.
Debutto molto convincente grazie alla maggior parte dei brani che lo compongono, da ‘Cake And Sodomy’ a ‘Lunchbox’, da ‘Dogma’ a ‘Dope Hat’ (che personalmente, visti anche i parecchi inserti cinematografici nell’album, vedrei bene come brano in una colonna sonora di un film di Tim Burton), ottimi biglietti da visita per quanto arriverà successivamente. Personalmente, a classificare questo lavoro non più in alto del comunque ottimo terzo posto è il fatto che manchi delle genialità che descriveranno i due lavori successivi (tralasciando l’EP ‘Smells Like Children’), ovvero quegli inserti industrial di Reznor che faranno la fortuna di ‘Antichrist Superstar’ e quell’accessibilità, mescolata ad una giusta maturazione, raggiunta con ‘Mechanical Animals’.
Il tutto senza dimenticare i grandissimi brani che, da soli, varranno il prezzo dei successivi due album. Sotto questo punto di vista ‘Portrait Of An American Family’ funziona più come disco “d’insieme”, sia per quel che concerne la band (come ho scritto precedentemente) che come brani. E questo non è assolutamente un difetto.
Come ‘Holy Wood (In The Shadow Of The Valley Of Death)’ è un ottimo album, ma nulla di più. Serve ad introdurre il personaggio, che con molta astuzia a partire dai testi si impone l’intento di essere sfacciato, un po’ come quello che Madonna aveva fatto tempo addietro in tutt’altro genere musicale (ed il debutto con la frase ‘I’m The God Of fuck’ in ‘Cake And Sodomy’ ne è forse l’esempio più nitido).
2. ‘Antichrist Superstar’ (1996)
Con ancora Trent Reznor in fase di produzione (e non solo), eccoci all’ultimo capitolo della trilogia che inizierà con ‘Holy Wood (In The Shadow Of The Valley Of Death)’.
Un capitolo impregnato di industrial, il cui risultato finale sembrerebbe più una collaborazione tra Manson e Reznor che un prodotto puramente “mansoniano” (non a caso questo è l’ultimo album con Reznor alla produzione), e questo nonostante l’ottima collaborazione in fase di scrittura tra Manson e Ramirez.
Il racconto è quello di un verme, il debole, colui che mai viene considerato (e infatti così sarà) secondo il pensiero di Friedrich Nietzsche, che aspira a far parte di un gruppo elitistico (quello delle “Beautiful People”), trasformandosi infine in un angelo distruttore (l’Antichrist Superstar, o il disintegratore). Finale a parte, la sua scalata verso l’affermazione all’interno di un gruppo snob sembrerebbe essere qualcosa di più filosofico (e per nulla comico) del nostro Fantozzi.
Racconto che viene descritto minuziosamente nelle diciassette tracce (o meglio 16 + 99) e suddiviso in tre cicli: ‘The Heirophant’, ‘Inauguration Of The Worm’ e ‘Disintegrator Rising’.
Non ci è dato sapere se la storia sia in parte autobiografica, e se Manson in passato avesse avuto qualche difficoltà ad integrarsi in un ambiente piuttosto che in un altro, fatto sta che è proprio il prodotto finale ad essere un’”élite”, un album ben prodotto e confezionato, che presenta un personaggio originale dopo ‘Portrait Of An American Family’ nel quale, seppur l’indiscutibile qualità, il nostro sembra essere ancora alla ricerca di una propria identità.
Non si può rimanere impassibili di fronte alla maggior parte dei brani presenti: solo i primi quattro valgono il prezzo del disco. Ma se si volesse andare oltre, capolavori come ’Mister Superstar’ (che parte sommessamente per poi diventare uno dei migliori brani di sempre dell’artista), la trainante titletrack, la rabbiosa e riuscita ‘1996’ (dove la voce del Reverendo si sfoga senza limiti dopo averci ammorbato nel brano precedente), la piacevole ‘The Reflecting God’ e la conclusiva (se si vuole ignorare la breve ‘99’) ‘Man That You Fear’, brano più vicino ai Nine Inch Nails che a Manson, fanno gridare al capolavoro (e credo che con questo lavoro il Reverendo si sia avvicinato molto a questo termine).
Infine, dovessimo pensare a trilogie cinematografiche, solitamente il primo capitolo (o quello finale) risultano essere i migliori. Non nel caso della trilogia “mansoniana”, dove a parer mio il miglior capitolo è quello nel mezzo. ‘Antichrist Superstar’, personalmente secondo solo a quel capitolo, forse musicalmente un po’ slegato in qualche punto (nonostante il concept), ne è comunque la degna conclusione.
1. ‘Mechanical Animals’ (1998)
Il secondo album di una suppositiva trilogia è sicuramente quello di maggior successo, o perlomeno quello con cui Manson si consegna (molto bene) alle masse.
Abbandonato Trent Reznor dopo l’ottimo riscontro avuto con ‘Antichrist Superstar’, l’artista decide di fare da sé (e chi fa da sé…), creando questa volta un personaggio d’ispirazione “bowieiana” (‘Omega and the Mechanical Animals’ assomiglia a ‘Ziggy Stardust and the Spiders From Mars’). Inoltre, la dubbia sessualità già presente nel suo nome d’arte e nella sfacciata copertina, sembrerebbe richiamare a quanto proposto in passato da molte icone del mondo Pop.
Le tematiche, ancora attuali, sono molte: dalle droghe (più quelle sintetiche che altre, viste le immagini nel libretto in dotazione) ad una feroce critica nei confronti dei media e della società, premonitrice di quanto avverrà nel nuovo millennio: vivere sapendo di avere a disposizione tutto subito, a partire dalle informazioni (grazie ad internet che, dall’anno successivo alla pubblicazione di quest’album, diventerà merce di tutti), vivere secondo stereotipi che nessuno si impone, ma che vengono imposti, creando su molti l’effetto contrario della felicità. Quel male di vivere di chi, stanco di possedere tutto (o di sapere di poter possedere tutto), incapace di tornare alle origini cercando di apprezzare le piccole cose che veramente contano, di colpo si spegne. Molte volte perché non capito, proprio per il motivo secondo il quale ogni società, senza consultarlo, senza ascoltarlo, disinteressandosi di lui, con superficialità sembrerebbe voler creare un burattino adatto alle proprie regole.
Proprio a questo sembrerebbe servire Omega: un alieno accorso in nostro aiuto pronto a tenderci la mano come a dire: “parlami: sono venuto qui ad ascoltarti.”
Basandosi solo su questo personaggio, già solo esteticamente in grado di opporsi ai trend prestabiliti, Manson confeziona un album riuscitissimo dalla prima all’ultima nota, con meno industrial rispetto al passato (d’altronde Reznor non c’è più) ma molto Glam – Hard Rock, con venature post Grunge. Un album dove l’estetica di Omega si sposa alla perfezione con le sue musiche.
Nell’opener ‘Great Big White World’, come da testo, al termine del ritornello egli si chiede “In a world so white what else could I say?”. Cosa pretendere da un mondo bianco, sinonimo di passivo e neutrale, dove passivi e neutrali sono i cittadini, o meglio i burattini, che lo abitano?
‘The Dope Show’, primo singolo estratto è, forse, il primo brano in assoluto del Reverendo a filtrare nelle orecchie di tutti, date le sue musiche accessibili, nonostante nel ritornello Manson ammetta che “siamo tutte star nello spettacolo della droga”. Sotto questi punti di vista, accessibile in tutti i sensi è anche ‘I Don’t Like The Drugs (But The Drugs Like Me)’, il cui titolo riassume il fascino che le droghe possono avere sull’essere umano.
Nella bellissima title-track capiamo come le accuse di Manson partano già dal titolo: quegli “Animali Meccanici” sono imposti dalla società, che ci vuole confezionati secondo le sue direttive, ma come il Reverendo canta prima della parte finale “…this isn’t me I’m not mechanical, I’m just a boy playing the suicide…”
In ‘Rock Is Dead’, terzo singolo estratto e colonna sonora del film ‘Matrix’, le critiche si sprecano: non mi dilungherò traducendo frasi come “…you see all the living for more safer dead…” oppure “…we’re so full of hope and so full of shit…” perché credo che la vera, sottile, frecciatina, arrivi dalla frase più innocente: “…God is on the T.V….”
Senza analizzare brano per brano, risultando magari ripetitivo e/o noioso, e soffermandomi solo su quanto prodotto e non su giochi e trucchi di numeri e parole che troverete nel libretto all’interno del CD, o a tragedie che esulano dalla musica come la strage della Columbine High School, c’è da dire che ‘Mechanical Animals’ procede spedito ad altissimi livelli. Molti brani sono tra i miglior mai scritti dal Nostro e da Twiggy Ramirez e la vera chicca sta proprio in fondo: ‘Coma White’, capolavoro audio-visivo e tra i miglior brani in assoluto di Manson, è un crescendo gothic-synth-Grunge. Se il testo non si capisce se sia riferito ad una ragazza o alla droga (o forse ad entrambe), il video presenta una reinterpretazione dell’assassinio a John Fitzgerald Kennedy (tema ripreso più volte nel capitolo iniziale ‘Holy Wood (In The Shadow Of The Valley Of Death’)). Quello che, personalmente, mi ha colpito, è l’ennesima critica verso una società basata (ed accoccolata) sui media: nel video si può notare chiaramente la finzione, da parte di Manson e della sua allora compagna Rose McGowan, nel salutare la folla accorsa alla parata. Una folla, però, forse perché creata a tavolino dalla società, che sembra salutare e festeggiare passivamente la coppia in auto.
Il successo sarà strabiliante per quello che, ad oggi, è non solo il picco più alto della trilogia di Marilyn Manson, ma di tutta la sua discografia.