ProgSpective (10) – Protest The Hero. Parliamo di vera gloria?
Il 22/10/2020, di Roberto Sky Latini.
In: ProgSpective.
Una band che, seppur giovanissima, entra nel circuito serio della musica, può far pensare forse che lo spirito giovanile possa determinare un consumo precoce dell’ispirazione e della motivazione, ma questo non è avvenuto per i canadesi dell’Ontario che oggi, al loro ventunesimo anno di carriera (iniziarono nel ’99 quando erano più o meno quattordicenni…), sfornano il sesto album. La domanda da farci, vista ormai la loro realtà consolidata, è quanto questo gruppo, considerato appartenente al genere Progressive-Metal, sia “gravido” dal punto di vista artistico. Parliamo decisamente di un songwriting significativo e maturo, o la velocità e l’eclettismo ritmico vanno a sopperire idee povere oppure ordinarie? Le loro prime esperienze artistiche prendevano spunto dal punk e di certo era minore la loro attitudine prog. Ci misero poi sei anni per esordire con un album completo, forse perché i musicisti, essendo appunto molto giovani d’età, avevano bisogno di far pratica, dato che per suonare come i Protest The Hero ci vuole tecnica e bravura, indiscutibilmente.
In origine si chiamavano Happy Go Lucky, poi cambiano il moniker per darsi un che di politicizzato, magari in maniera un po’ adolescenziale, ma con spirito ribelle. Gli EP del 2002 e del 2003, piuttosto duri, con un bel carattere, ma in fondo non originalissimi, avevano scaldato gli animi e serviti per plasmare meglio la propria essenza, ed ecco infatti uscire nel 2005 ‘Kezia’ (il titolo pare derivi dall’ebraico), il primo full-length, che colpisce con diversa e più netta capacità. È stavolta un prog-metalcore dal potente impatto, forgiato sì con attitudine progressive, ma con suoni hardcore, poco inclini a svolazzi morbidi: hanno già un che di Dream Theater, ma più eclettici e schizzati. Il loro hardcore ha qualcosa che li fa assomigliare sia al power scandinavo che alle inflessioni melodiche del metalcore, ma con dentro un fuoco rovente, in cui il cantato si alterna tra estrema pulizia e uno screaming acido. È una musica così piena di compromessi da apparire senza compromessi, orecchiabile ma non commerciale, pare un paradosso… Se prima di questo passo discografico suonavano molto più vicini al punk, tale essenza si percepisce ancora chiaramente (anche nella breve durata delle tracce), ma in realtà il viraggio cerca di addentrarsi nella complessità, anche se possiamo dire che la nota espressiva è diretta ed essenziale.
Ad oggi abbiamo sei album, contando il nuovo ‘Palimpsest’, e l’evoluzione in questi quindici anni è stata produttiva, non ci sono stati salti stilistici nel passaggio tra il prima e il dopo, ma il cambiamento è da descrivere percepibile, quasi netto. Il cambiamento, album dopo album, è stato progressivo, perché già il secondo ‘Fortress’ (2008) presentava brani mediamente più lunghi ed una ariosità maggiore, anche se le escandescenze ruggenti che vi si trovano non risultano annacquate. Ciò è chiaro per esempio nel brano ‘The Dissentience’, dove tramite le ampiezze sonore, siano luminose oppure oscure, si esprime un carattere meno impulsivo e più introspettivo, accendendo anche un po’ di epicità qua e là. Attualmente la velocità iniziale si è persa un po’, pur senza calmarsi davvero. In parte c’è una produzione che ricorda le sonorità e le cose fatte in Italia da Mularoni, più tecnologia nella produzione del suono. Innegabilmente ogni loro full-length è riconoscibile come facente parte della stesso gruppo, la loro tipica essenza si ritrova in ognuno dei sei lavori. Al di là del genere, qual è la tipologia di progressive che viene vissuto dalla band? Il prog vive di varie forme, e tali forme sono determinate anche dall’approccio. Viene considerata Prog la visione sperimentale, oppure l’elaborazione crossover, di mescolamento e di unione delle differenze; o ancora è Prog il comporre in modo complesso e divagante, anche senza essere originali (chi per esempio segue la scia di codificazioni già realizzate dal progressive anni Settanta). Cosa si nota nella musica dei Protest The Hero? La risposta probabilmente porta a pensare che l’inizio di carriera fosse di tipo più sperimentale, associata a un impasto di differenti background, e quella odierna legata a schemi classici già preesistenti prima del loro esordio, portando avanti la propria personalissima attitudine, ma nella forma diventata un po’ tradizionalista. La ribellione c’è sempre, ma meno cruenta, sempre giovanile, perché l’urgenza espressiva connotata dai cambi di ritmo veloci e momenti ipertrofici esiste ancora. È un progressive basato, come per i Dream Theater, su un substrato ipertecnico, in cui però non vengono cercate le soluzioni atmosferiche aperte. E anche la mescolanza dei generi è molto meno presente. Possiamo dire che la sperimentazione non è spinta come prima, anzi in alcuni casi quasi scompare, si cura più il songwriting in sé. In vari frangenti potremmo parlare di Modern Metal, termine che viene usato nel metal dai suoni moderni ma che, in sostanza, significa ben poco stilisticamente. La band veniva classificata come Mathcore per l’irruenza e per quella vena dura caratteristica, ma possiamo ancora utilizzare la stessa denominazione per ‘Palimpsest’?
Il prog della band, anche dopo sei album, non è ancora diventato un mero intellettualismo ipertecnico, riesce brillantemente a mantenere un approccio che va dritto al punto. I primi due album dissero molto, anche troppo, e c’era il rischio di non avere poi altre frecce alla propria faretra. Ma quando arrivò il terzo lavoro (‘Scurrilous’ del 2011) si tirò un sospiro di sollievo, poiché la qualità che se ne trasse fu ancora alta. Qui c’è più metal classico, con un brano simbolo che ne è un po’ l’apripista, ‘C’est la Vie’. Un album che a volte appare compositivamente imperfetto per determinate debolezze in alcuni passaggi sonori, ma l’impianto valido nel songwriting lo rende solido al di là di ogni ragionevole dubbio. L’onestà dei musicisti è salva. C’è meno pesantezza violenta, anzi la luce aumenta, sempre però attraverso una corsa iperaccelerata, dalla tonicità esuberante, ma che non è fine a se stessa; e comunque i brani duri ci sono, e anche quando ti appare un titolo che ti dice ‘Moonlight’, il panorama non si calma mai. E dal punto di vista delle liriche, quel periodo non fu un momento pacioso, bensì piuttosto arrabbiato, nonostante il cantato preferisca mantenersi pulito e arioso. Se con il terzo appuntamento la qualità non si abbassa, con le uscite successive si rimane funzionalmente aggrappati alla bontà artistica. Quella bontà che ascoltiamo soddisfatti anche dentro ‘Palimpsest’, grati del fatto che, le integrazioni ritmiche e melodiche, non si riducono mai a giochi puramente funambolici, ma costruiscano una modalità espressiva emozionale. C’è bravura nel suonare, ma anche bravura nel costruire significati sonori.
Il quarto lavoro, ‘Volition’ del 2013, è stato forse uno dei più criticati in quanto considerato il punto di stop alle sperimentazioni, e in effetti è proprio qui che si anticipa la band di oggi, ma col senno di poi non si possono trovare reali difetti, l’anima alla fine è la stessa e i pezzi sono di valore. In ogni caso, certa critica sfavorevole non limita il successo di pubblico che pare, invece, aumentare. Se l’idea di azzardare forme musicali sperimentali vere e proprie per la band è diminuita o cessata, il piano dell’azzardo si sposta sempre più a livello di comportamento nelle relazioni e nelle scelte di gestione del proprio prodotto in riferimento al mercato. Scontri con le etichette e con il business portano i musicisti prima a fare crowdfunding appunto per ‘Volition’ e poi per il successivo ‘Pacific Myth’ (2015), organizzando un rilascio a pagamento, traccia per traccia, del disco, immettendo appunto in rete solo una canzone alla volta. La cosa interessante è che anche il processo compositivo avanzava traccia per traccia, alla pubblicazione della prima, le altre ancora non erano state finite. Un modo di essere autonomi che non si accontentava solo dei comportamenti standard (anche se nell’era moderna la rete è uno strumento per tutti), ma dava l’idea dell’apertura mentale dei musicisti in questione, sia dal punto di vista artistico che strettamente personale. E l’album breve (viene considerato un EP, ma i suoi oltre 35 minuti lo avvicina alla durata dei tipici album degli anni Settanta) fece il suo ottimo exploit, ma senza perdere neanche un grammo di incisività.
Ma concludendo, torniamo alla domanda iniziale: quanto è “gravido”, il loro sound? Quello precedente, o quello attuale? E se non si sperimenta più, si rimane sempre all’interno di una terra fertile? Gli intrecci sonori della loro estetica non sono mai stati freddi, riescono a contorcersi propulsivamente, ma senza però diventare astratti. La consistenza di allora come oggi è di volta in volta esaustiva, colma le esigenze comunicative di ricezione del fruitore medio di certa musica seria. La costruzione dei propri deliri è stata sempre perseguita con attenzione, con quel tasso di istintività che soddisfa sia la bellezza del virtuosismo che quella della passione. Gli scatti dei riff, della sezione ritmica e della vocalità sono spesso stati collegati fluidamente dall’attività della sei corde, che lubrifica un andamento altrimenti molto nervoso, ma propositivo verso un senso comune. Sì, in effetti la schizofrenia del ritmo e della velocità non mascherano vuoti di ispirazione, sono l’ispirazione stessa. Ai Protest The Hero oggi andrebbe riconosciuta la loro gloria artistica, in un mondo che riconosce poco il valore oggettivo degli artisti, per colpa della frammentazione culturale che stiamo vivendo, nel panorama Metal e Rock. Questo gruppo dovrebbe avere assicurato il suo posto al sole, meritandoselo tutto, guadagnando molta più visibilità di quanta non ne abbia già.