I migliori 10 dischi dei Dream Theater secondo Metal Hammer Italia
Il 30/05/2020, di Dario Cattaneo.
In: Hammer Chart.
I Dream Theater sono una band che ha sempre “litigato” con il cambiamento. Nata come band innovativa o quanto meno pionieristica, dopo due album splendidi messi a segno l’uno dopo l’altro all’inizio degli anni Novanta, hanno da subito cominciato a guardare in avanti. Il punto, però, che spesso hanno provato ad andare in direzioni lontane o contraddittorie sull’immagine che si erano costruiti così bene con quei primi album, suscitando spesso opinioni e forti critiche. Non stupisce quindi che la loro intera discografia sia in qualche modo segnata da continui balzi in avanti e guardate alle spalle, il tutto portando però sempre avanti il discorso di una musica personale e riconoscibile, che ad un primo ascolta si possa immancabilmente e senza errore associare al loro monicker. Con Dario Cattaneo rivisitiamo un po’ la loro discografia essenziale, vivendo le varie fasi di una carriera quanto mai complessa e discussa.
10. ‘Dream Theater’ (2013)
L’album che apre la top ten è il dodicesimo, l’omonimo del 2013. Cominciamo col dire che appunto questo lavoro ha il gravoso compito di portare il nome della band stessa: una scelta coraggiosa quando non sei ai primi lavori, perché suona come una dichiarazione: questi sono i Dream Theater. Anche se l’album è nel complesso indiscutibilmente ben riuscito, ci sentiamo però di dire che – se l’obbiettivo di Petrucci & soci era davvero quello scritto sopra – l’impresa è sì riuscita (l’ampiezza del sound della band è adeguatamente coperta), ma il risultato è forse un po’ più debole di quanto avessero voluto. Il lavoro contiene di fatto belle canzoni, ma paga forse proprio questa eterogeneità: se un brano introduttivo roccioso, dai chitarroni quasi djent, come ‘The Enemy Inside’ può essere infatti allineata con i DT del 2013, le cose cambiano per dire già dai brani successivi: ‘The Looking Glass’ ad esempio è fin troppo melodica e easy-listening per sentirla in continuità col duro brano precedente. L’album è ricco e vario: ‘The Bigger Picture’ è un pezzo lungo e articolato che mantiene le proprie radici nell’ambito delle semi-ballad, ‘Behind The Veil’ è il brano progressive come ce lo si aspetta da loro, mentre ‘Along For The Ride’ è una true ballad, arricchita da una bella prestazione di LaBrie, che in verità risulta un po’ appiattivo vocalmente sul resto del lavoro. A chiudere la rassegna i due brani per noi più particolari: ‘The Illumination Theory’, che si rivela sicuramente interessante ma un gradino indietro sul le dirette concorrenti ‘Octavarium’ e ‘A Change Of Season’; e lo strumentale ‘Enigma Machine’ la quale – invece – rappresenta per noi esattamente il modo di essere della band in questo ultimo decennio. Privo di pezzi brutti, ma anche di highlight particolari tranne ‘The Enigma Machine’ e forse l’opener; ‘Dream Theater’ si presenta come un lavoro sì bello ma che non cambia le carte in tavola, e nemmeno risulta necessario a narrare la storia della band. Forse pochino, per un album omonimo.
9. ‘Octavarium’ (2005)
Al nono posto di questa personale classifica troviamo un album del periodo centrale dei Theater, il dibattuto ‘Octavarium’. Facilmente descrivibile come un album guidato dai contrasti piuttosto che dall’uniformità, l’intero disco alterna di fatto momenti molto vari, ma soprattutto allarga in maniera vistosa la quantità di suoni e di influenze presenti. Nonostante si tratti di un album dalla complessità inferiore rispetto ai diretti predecessori, ‘Octavarium’ rappresenta infatti un cerchio abbastanza ampio sulla scena progressive rock/metal mondiale. Influenze marcate da Kansas e Yes, echi di Pink Floyd e anche sporadici input da Muse e U2 sono solo alcuni degli ingredienti dell’album forse più eterogeneo dell’intera discografia. Se la terza parte della ‘Twelve Step Saga’, ‘The Root Of All Evil’, è stilisticamente allineata ai DT Mark 2005; subito dopo abbiamo due canzoni piuttosto corte, ‘The Answer Lies Within’ e ‘I Walk Beside You’, che hanno dalla loro una accessibilità in quel decennio sicuramente inedita ma che appunto pescano da lidi che molti fan hanno trovato troppo lontani dai propri gusti. ‘These Wall’ non si può certo dire radiofonica o poppettara… ma anche qui un sound forse un po’ troppo nu per i gusti di molti non ha mancato di creare un po’ di mugugni. ‘Panic Song’ aumenta il livello di contrasto mettendo sul piatto velocità e un discreto corpo nel sound di Petrucci… la canzone suona robusta e dura, quasi fuori luogo nella sua posizione tra i due brani descritti in precedenza, ma risulta comunque un highlight dell’album, con un cantato di LaBrie decisamente influenzato da quello di Matt Bellamy dei Muse. A chiudere le montagne russe dell’album ci pensa la famosa – omonima – suite: ventiquattro minuti di musica ciclica, che si chiude come si apre, e che richiamano alla mente i 23 della grande ‘A Change Of Season’. Rispetto a DT12 possiamo dire che ‘Octavarium’ ha più alti e bassi, ma che nei suoi punti migliori, troviamo in generale pezzi più memorabili.
8. ‘Train Of Thoughts’ (2003)
L’esatto opposto di ‘Octavarium’, volendo, potrebbe essere questo ‘Train Of Thought’. Il settimo album dei Dream Theater è infatti compatto, uniforme, deciso negli intenti. Solo sette canzoni, di cui cinque sopra i dieci minuti e una intorno agli otto: spesso ‘Train Of Thought’ viene criticato per essere un disco monolitico, quasi più avvitato intorno a coordinate heavy/thrash invece che al progressive che avevano creato con i capolavori di inizio carriera. Però, è indubbio che questa uniformità in qualche modo col tempo ha finito per pagare: chi ha apprezzato la direzione dell’album ha finito per apprezzare conseguentemente il lavoro nel suo complesso, dato che – all’interno del tipo di sound descritto prima – di punti attaccabili ce ne sono pochi. ‘As I Am’ è un pezzo effettivamente un po’ influenzato da alcuni metallica, difficilmente definibile come ‘progressive’ ma con comunque un suo incedere e un suo tiro che lo renderanno adatto ai concerti per molti anni in futuro. ‘This Dying Soul’ rappresenta secondo noi il miglior passaggio della ‘Twelve Steps Saga’, mentre la successiva ‘Endless Sacrifice’ è trai migliori del lotto, con un andamento in crescendo che evolve da un liquido arpeggio iniziale che ci da respiro a una sfuriata metal tout-court che fa muovere teste e gambe sotto il tavolo a chiunque ascolta. Passando rapidamenti sui tre minuti della pianistica ‘Vacant’ si raggiunge il momento più cupo dell’album, ‘Honor Thy Father’, contorta suite progressive metal che racchiude in dieci minuti tutto l’odio del batterista Portnoy verso il patrigno. ‘Stream Of Consciusness’ mette un punto fermo sulle capacità musicali dei Theater del 2003 ed è uno strumentale di undici minuti dove possiamo sentire a nostro avviso il miglior Portnoy su tutti i suoi oramai trenta e più anni di carriera. ‘In The Name Of God’ chiude l’album con cascate di note dalla chitarra di Petrucci per un’altra suite dura, tecnica e complessa, chiudendo un sigillo su un album che in tanti odiano ma che in tanti – come il sottoscritto – apprezzano in maniera assoluta.
7. ‘Systematic Chaos’ (2007)
Un po’ fratello di ‘Train of Thoughts’ può essere considerato ‘Systematic Chaos’, il nono album in studio. Anche lui è più sul versante duro dei Dream Theater, con molti brani dalle chitarre ribassate e grosse nel sound, e molti pezzi caratterizzati dalla voglia di strafare che stava colpendo soprattutto Portnoy in quegli anni. Vocals filtrate, effetti vari soprattutto di tastiera, qualche accenno addirittura di growl su un pezzo specifico… sono davvero tanti gli elementi di ‘Systematic Choas’ che i fans ai tempi non si aspettavano, e che fanno ovviamente sì che questo lavoro sia in effetti piuttosto contestato. Ciononostante, chi scrive l’ha sempre trovato superiore al predecessore ‘Octavarium’ o a ‘DT12’ in quanto più focalizzato, così come superiore a ‘Train Of Thoungts’ in quanto più vario. Il disco è in effetti sicuramente declinato sull’aspetto più tecnico e funambolico della band, ma risulta meno uniforme e monocorde di ‘Train Of Thoughts’. Contiene sperimentazioni e novità come li conteneva ‘Octavarium’, ma è meno dispersivo e slegato. Grazie a queste caratteristiche l’album è decisamente ben riuscito, e possiede anche alcune gemme che di sicuro si sono ricavate un posto nel cuore dei fan: La suite (divisa in due parti) ‘In Presence Of Enemies’ è un gioiello di progressive metal vario e allo stato dell’arte, e alterna perfettamente parti muscolari a parti più melodiche, condendo il tutto con uno sfoggio di tecnica sempre funzionale e mai fine a se stesso. ‘Forsaken’ è immediata e piacevole, mentre ‘The Ministry Of Lost Souls’ rimanda nel sound e nella complessità ai primi anni del corrente secolo e al bello ‘Six Degrees Of Inner Turbulence’. Certo, ‘Dark Eternal Night’, il pezzo più duro e strampalato del lotto, ha suscitato non poche critiche per le scelte melodiche, e ‘Repentance’ è da molti considerato il punto debole della ‘Twelve Step Saga’, ma ognuna di queste canzoni nasconde delle scelte che, nel 2007, i Dream Theater hanno preso con coscienza, sapendo cosa andavano a incidere. A conti fatti non ce la sentiamo di inserirlo in top 5, ma a livello personale è sicuramente uno degli album della band che ascoltiamo più spesso.
6. ‘Black Clouds And Silver Linings’ (2009)
Se a ‘Systematic Chaos’ togliamo gli spigoli e sistemiamo quei difetti descritti alla posizione precedente; ecco che possiamo ottenere il disco targato 2009, ‘Black Cloud And Silver Linings’. Questo lavoro, che si rivelerà poi essere l’ultimo con Portnoy, mantiene infatti la stessa lucidità e la compattezza che avevamo apprezzato su ‘Systematic Chaos’, ma la contempo leviga quasi del tutto quei difetti che molti ascoltatori avevano rilevato sul contestato disco del 2007. Qui la prima cosa che si nota è che sono stati limitati gli sbandamenti verso terreni troppo moderni o rumorosi, quelli che che non sembrano di fatto appartenere veramente all’immagine della band che in tanti si sono costruiti in due decenni. Calano drasticamente anche le vocals filtrate, gli urli di Portnoy e quel senso di confusione “alla ‘Constant Motion’”, tutti elementi che vengono di fatto destrutturati e limitati ad alcune sporadiche sezioni peraltro di un’unica canzone, ‘A Nightmare To Remember’, che rimane lo stesso tra i pezzi migliori dell’album. Il resto sono i Dream Theater al loro meglio del primo decennio del 2000… ‘A Rite Of Passage’ è un perfetto bilanciamento di melodia e tecnica, un brano lungo e mai noioso; mentre ‘Wither’ e ‘The Best Of Time’ coprono l’aspetto più melodico della band, ma lo fanno la prima con atmosfere ficcanti e particolari, e la secondo con uno degli assoli più belli e toccanti della carriera di Petrucci. ‘The Shattered Fortress’ chiude nel migliore dei modi la ‘Twelve Step Saga’, riassumendone i vari temi e in fondo ci siamo lasciato ‘The Count Of Tuscany’, suite di 20 minuti davvero rappresentativa della carriera dei Nostri, solo leggermente affossata da una troppo dilatata sezione di tastiera nella parte centrale. A una sola posizione dalla top 5, questo lavoro rimane però a nostro parere il migliore dei dischi del decennio 2000 – 2010 post ‘Six Degrees Of Inner Turbulence’.
5. ‘Distance Over Time’ (2019)
L’ultimo disco dei Dream Theater in ordine cronologico si trova appena all’ingresso della top 5. I motivi a ben vedere sono più o meno quelli che hanno messo ‘Black Clouds And Silver Linings’ in sesta posizione, ovvero la capacità del disco di rappresentare contemporaneamente i molteplici volti della band; nonché il buon bilanciamento dei vari elementi che rendono i Theater la band che sono diventati in trent’anni di carriera. La sua posizione cronologica dopo un album per noi riuscito solo a metà come ‘The Astonishing’, mista al fatto di essere il quarto lavoro di una formazione che un vero e proprio colpo di coda finora non l’aveva dato; sono tutte caratteristiche che aumentano a nostro parere il valore dell’insieme. ‘Distance Over Time’ riesce infatti con un pugno di brani meno pretenziosi ma più funzionali nel compito dove gli altri lavori con Mangini avevano faticato: a ripresentarci un po’ la natura dei “vecchi” Dream Theater. A conti fatti, ‘Distance Over Time’ fornisce un menù che possiamo definire completo: ci sono due pezzi lunghi e tecnici che senza essere i nuovi ‘Learning To Live’ comunque sono ben fatti (‘Pale Blue Dot’ e ‘At Wit’s End’), qualche pezzo arioso ma non melenso come ‘Barstool Warrior’, un paio di singoli funzionali al palco e di facile assimilazione pur senza perdere di classe (‘Unthetered Angels’ fa abbastanza scuola) e un contorno di brani solidi che però hanno più o meno tutti la potenzialità di diventare i preferiti di qualcuno (noi ‘S2N’ l’adoriamo). Non ci sono particolari esperimenti vocali o di registrazione, i due pezzi lunghi non superano di dieci minuti, quindi nessun tentativo di riproporre per l’ennesima volta ‘A Change Of Season’… in generale l’album si mantiene tranquillo, potremmo dire. Ma, dopo trenta e passa anni di carriera con quattordici album alle spalle, ci rendiamo conto che forse questo dischetto piacevole e sincero era proprio quello che volevamo.
4. ‘Six Degrees Of Inner Turbulence’ (2002)
Il sesto lavoro dei Dream Theater, ‘SDOIT’ come lo chiamano in molti, lo possiamo considerare come il primo vero disco “di rottura” della band newyorchese. O, meglio, è il primo disco di rottura della band che è veramente riuscito nel proprio intento, visto che già ‘Falling Into Infinity’ aveva cercato di allontanarsi dai binari profondi tracciati dalla prima parte di carriera della band, ma aveva finito per sbandare e uscire di strada trai mugugni dei fan non preparati al cambiamento. Invece, a nostro parere, ‘SDOIT’ ce l’ha fatta. Il lavoro presenta infatti un indurimento oggettivo del suono, ma soprattutto si distingue per l’abbraccio di sonorità e tematiche più moderne rispetto quelle coltivate finora. Il package è moderno, urbano; la produzione pulita, cristallina, quasi asettica. ‘The Glass Prison’, brano di apertura, non è né una ouverture strumentale come il brano che apriva l’album precedente, né un potenziale singolo come ‘6:00’ o ‘Pull Me Under’. È un brano duro, poco gestibile, con inedite vocals filtrate e un approccio innovativo anche per la band. ‘Blind Faith’ e ‘Misunderstood’ sono solo apparentemente più fruibili, ma vivono anche loro di una complessità e una lunghezza non certo nuova per i Theater, ma che mai era stata così marcata. I temi trattati, la religione, la fede, l’alcolismo, le cellule staminali e i disordini mentali, risultano attuali e importanti e sono trattati in maniera interessanti da liriche quanto mai destrutturate. Lavoro diviso in due parti a causa dell’eccessiva lunghezza, ‘SDOIT’ inserisce poi un antologia di tutto quanto erano i Theater pre-2000 nella splendida suite omonima, 42 minuti di canzone divisa in 8 tracce o movimenti che alternano il nuovo approccio al vecchio, alternando parti forsennate a parti più sinfoniche, mantenendo le ovvie digressioni nel tecnicismo musicale ma senza perdere mai di vista l’aspetto puramente melodico. A distanza di quasi vent’anni, ancora un lavoro che ci fa pensare e discutere.
3. ‘Awake’ (1994)
Sul gradino basso del podio mettiamo il terzo lavoro della band, l’oscuro ‘Awake’. Primo disco di scoperta dei Nostri, ai tempi fu criticato per aver apparentemente “tolto” dalla musica dei Dream Theater elementi cari ai fan; la storia invece consacrerà l’album come cardine dell’intera carriera, in quanto assolutamente rappresentativo della di loro capacità di innovazione. Rispetto a ‘Images And Words’, che a nostro parere gli rimane sopra, ‘Awake’ gioca maggiormente sull’aspetto tecnico: la suite interamente strumentale ‘Erotomania’ lo dimostra appieno, con sette minuti di evoluzioni strumentali che parlavano chiaro sulla direzione in cui la band voleva costruirsi la propria identità. La chitarra di Petrucci si inspessisce rispetto al lavoro precedente, e la famosa settima corda, che mai più se ne andrà, compare in brani spigolosi e cupi come ‘The Mirror’, ‘Lie’ e ‘Scarred’. La voce di LaBrie si fa parimenti più aggressive, e l’attacco di ‘6:00’, così come le strofe di ‘Caught In A Web’ ci mostrano un lato spigoloso del singer canadese che il mondo doveva ancora conoscere. L’aspetto etereo, suggestivo, che permeava però molti brani dell’album precedenti non si è però perso, e ‘Voices’ è un capolavoro di atmosfere diverse che si inseguono, che scuotono sì l’ascoltatore, ma anche lo cullano e gli mostrano una sensibilità che la band aveva già sviluppatissima fin da questi primi passi di carriera. I momenti degni di nota qui si sprecano, e non possiamo non citare il famoso acuto di ‘Innocence Faded’, uno dei più alti della sua carriera, così come le atmosfere ai tempi nuovissime di ‘Space Dye Vest’ (capolavoro) o di ‘Lifting Shadows Off A Dream’, atmosfere che lasceranno ricordo di loro stesse per sempre.
2. ‘Images And Words’ (1992)
Per chi scrive questo disco rappresenta in assoluto il disco preferito di 26 anni di ascolto di musica metallica. Ciononostante, guardandolo con gli occhi del critico, lo mettiamo ‘solo’ al secondo posto di questa classifica per un mero discorso di “sforzo” compositivo. Quest’album ci sembra infatti meno progettato rispetto a ‘Scenes from A Memory’, il disco che abbiamo messo in prima posizione. È più spontaneo, se vogliamo; anche più ingenuo per usare una parole di uso comune ma dandogli un concetto leggermente diverso. È infatti non l’ingenuità di chi non sa cosa fa, piuttosto l’ingenuità di chi non sa ancora l’effetto che ciò che sta realizzando avrà sul resto della carriera della band, ma anche sulla scena musicale metal mondiale. Su ‘Images And Words’ ci sono infatti otto capolavori (tutti, non uno di meno) che rappresenteranno per sempre le varie tipologie di canzoni dei Dream Theater, otto brani di diverse durate, diverso approccio e diverse sonorità che sono indifferentemente tutte passate nella storia della band. ‘Pull Me Under’ e ‘Under A Glass Moon’ sono il sunto dei Theater eleganti ma d’impatto, ‘Another Day’ e ‘Surrounded’ rappresentano la loro propensione alle ballad e alla melodia, ‘Metropolis’, ‘Learning To Live’ e ‘Take The Time’ sono la forma primeva della “suite alla Dream Theater”, che è diventato un modo stesso di fare musica. Insomma, in quest’album tutto è immagine vera del monicker che ha portato avanti il logo della D e della T per altri trent’anni; l’intero lavoro è talmente impresso nel DNA della band che anche a riscriverlo ora non si potrebbe cambiare una singola nota. E non abbiamo nominato ‘Wait For Sleep’, forse i due minuti di piano/tastiera e voce più belli che abbiamo mai sentito.
1. ‘Scenes From A Memory’ (1999)
In cima al podio troviamo l’album uscito a cavallo del nuovo millennio, il lavoro di chiusura dei “vecchi” Dream Theater, prima che imboccassero con l’album successivo il proprio percorso fatto di album più duri, più moderni, più elaborati, alle volte anche fin troppo come abbiamo visto. ‘Scenes’ è più bello di ‘Images And Words’? Beh, a nostro giudizio no, qualcuno la penserà diversamente, però pensiamo di andare sul sicuro definendolo come più impegnativo. Per i Dream, non per noi. È un concept album, tanto per iniziare, ma quello vuol dire poco… anche ‘Streets’ dei Savatage lo era dieci anni prima e aveva una storia anche più bella, e così anche tutti i dischi di King Diamond. Però, da grande fan del Re Diamante e da grandissimo fan (chi mi segue sa) dei Savatage, ammettiamo che ‘Scenes From A Memory’ è più amalgamato. Brutta parola? Sì, ma non ce ne viene una migliore. Però, in qualche modo che ancora non ci siamo spiegati, la fusione tra musica e testo in quest’opera è totale. I ritmi, gli arpeggi, gli arrangiamenti si fanno sognanti quando il protagonista ricorda, e i contorni si sfumano, come in un sogno. Il cuore del narratore batte veloce, sulla spinta dell’orrore dell’omicidio che sta per accadere in ‘Beyond This Life’ e la musica martella, pulsa, come sangue nelle arterie, spinte da un Petrucci inflessibile e da un Portnoy estroso. L’intera trama si avvolge su se stessa, facendo capire che tre personaggi che pensavamo distinti sono in realtà uno solo, e la danza senza fine si ‘Dance Of Eternity’ avvolge noi come i tre protagonisti, narrandoci altri pezzi della storia ma senza usare le parole, solo la musica. Certo, anche qui possiamo dire che tutti i brani presenti siano a modo loro dei capolavori, ma il punto è che veramente, ‘Scenes From A Memory’ è forse l’unico disco insieme a ‘A Pleasant Shade Of Grey’ dei Fates Warning che ci fa pensare a se stesso come a un unico pezzo e non a un insieme di dodici tracce bellissime. Primo posto per questo, per la capacità di raccontare una storia CON la musica, e non usando della bellissima musica a supporto della storia stessa.