Chuck Schuldiner e quel giorno al Dynamo Open Air di Eindhoven nel 1998
Il 13/05/2020, di Alex Ventriglia.
In: Relics, Speciali Monografici.
Al Dynamo Open Air Festival di Eindhoven, maggio 1998, si respirava l’aria delle grandi occasioni, la kermesse olandese si era ormai trasformata nel festival più gigantesco e ambizioso di tutta Europa, aprendo a gruppi decisamente più “mainstream” e ad hoc per la grande massa. Giusto per fare un paragone, il Dynamo di fine anni Novanta è stato un po’ l’antesignano dell’odierno Hellfest francese, per la grandezza degli spazi e la varietà delle sue proposte musicali, e l’edizione ’98 ha rappresentato probabilmente il culmine per la sua volontà di dare spazio a molti di quei gruppi che stavano rivoluzionando l’hard’n’heavy mondiale, anche a costo di cambiamenti in apparenza radicali pur di portare al comando innovazione e inventiva. Tra le band di maggior caratura e protagoniste indiscusse di un momento storico importante, tra quelle che si contesero le posizioni di prestigio del Mainstage e del The Gallery, i due palchi principali del Dynamo, mi ricordo i Pantera (all’apice della loro forma esecutiva e compositiva, non la macchietta che divennero quasi cinque anni più tardi…), i Deftones, i Soulfly dell’energico, super motivato Max Cavalera, i sempre incandescenti Rammstein, i Coal Chamber, i Life Of Agony, i Dimmu Borgir superstar del black metal più patinato, la coppia Strapping Young Lad e Misery Loves Co., coppia che spaccò letteralmente il culo ai passeri, per dare una definizione spicciola e concreta. E nel ricchissimo cast del Dynamo di quell’anno, a fare la differenza ci furono anche i Death del compianto Chuck Schuldiner, i quali, se non ricordo male, arrivarono quasi in sordina poiché chiamati a prendere il prestigioso posto dei cibernetici Fear Factory, che dettero forfait solo all’ultimo.
Con quella tipica naturalezza di cui solo i grandi artisti sono capaci, i quattro floridiani non batterono ciglio, in quel “running order” che li vedeva al secondo posto in ordine d’importanza, dietro solo agli headliner Pantera, su un palco che in quel periodo era forse il più blasonato e più impegnativo palco d’Europa, e consegnando ai posteri uno show diventato oramai leggendario, come stanno a dimostrare tutti i filmati relativi a quella dirompente esibizione. Sin dall’opener ‘The Philosopher’ (brano di punta dell’incredibile ‘Individual Thought Patterns’, primo indiscusso capolavoro dei floridiani, un album a dir poco seminale e che rappresentò una novità assoluta per un certo modo di intendere e volere il metal estremo), i Death e il suo fiero leader fecero letteralmente il diavolo a quattro nel corso di un set imperniato sulla ferocia esecutiva e un’eccellenza tecnica che non trovava ostacoli, nel suo melting-pot di stili che vorticosamente si intrecciavano tra loro. Lasciando di sasso tutti noi presenti, quasi annichiliti da tanta maestria messa al servizio della crudeltà.
Includendo la performance al Dynamo, i Death ricordo di averli visti suonare tre volte, ma solo a Eindhoven riuscii ad avvicinare Chuck Schuldiner, il quale, incuriosito dalla “gazzarra” che era tipica nel variopinto backstage del Dynamo, si informava un po’ su tutto e tutti, per esempio lo ricordo chiacchierare a lungo con i Dimmu Borgir, tra i gruppi “novità” di quell’anno e che negli States erano ancora praticamente degli sconosciuti. A rompere il ghiaccio, una semplice domanda sui Kiss, giocando sul fatto che Chuck, come tantissimi altri “insospettabili” di questa scena metal tanto variegata, ma che a volte appare fin troppo ortodossa, era un grande fanatico dei quattro newyorkesi mascherati. La domanda non ricordo più quale fosse, ma tanto bastò per far partire l’entusiasmo di questo spilungone sempre sorridente, anch’egli newyorkese di nascita, ma floridiano di adozione, che cominciò ad elencarmi tutta la memorabilia che dei Kiss amava collezionare. Sapevo di questa sua passione da un’amicizia che avevamo in comune, Chuck, come molti inguaribili “kissofili”, sottoscritto compreso, aveva casa piena di vinili, gadget e tutte quelle cianfrusaglie che non servono a nulla, se non a renderci contenti. “Paul Stanley è figo, ha il suo perché, ma Ace Frehley è di un’altra categoria! Ace è Ace, e non ce n’è per nessuno.”, sembrava quasi la sua intercalare…
Una risata tirava l’altra, ma non solo, ci furono anche dei passaggi più “seri”, perché comunque veniva anche scontato chiedersi i motivi dei tanti avvicendamenti nella line-up dei Death: una barca in mezzo alla tempesta aveva forse una stabilità maggiore, vien da dire, per non parlare poi delle polemiche che spesso scoppiavano e dell’accusa di “tiranno dispotico” che, puntualmente, gravava sul capo di Chuck, chitarrista geniale, primaria fonte di ispirazione per i Death, ma anche leader estremamente esigente con gli elementi della sua band. Alcuni dei quali, una volta usciti dal gruppo, non si facevano troppi problemi ad attaccare lui e il suo operato, giudicato severo e ingiustificato. Per nulla infastidito e sempre sorridente, Chuck rispose così alla mia provocazione: “Nella mia vita, come penso tutti, ho solo e soltanto voluto migliorare, cercando di ottenere il meglio, a costo di fare dei sacrifici, e tutto questo l’ho trasferito anche nella musica. E sempre in maniera positiva. Spero che anche chi lavora con me faccia altrettanto, non risparmiando energie e spirito propositivo. A volte questo non è successo, a volte è stata anche colpa dei miei errori, chi non ne fa, ma credo anche che, spesso, molti si perdono in un bicchier d’acqua, forse inutilmente. Far parte di una band è come avere una famiglia, ci sono alti e bassi, ma l’importante è rimanere uniti e remare tutti nella stessa direzione.” Serafico e disarmante, Chuck disse così la sua, ricominciando ben presto a raccontare tutti i suoi amori adolescenziali, riscuotendo il consenso del gruppuscolo di gente che nel frattempo si era radunata attorno a noi. Uno che, assieme alla sua band, aveva appena alzato la tempesta sulle decine e decine di migliaia di persone che quell’anno gremirono il Dynamo Open Air Festival. La naturalezza dei grandi si misura anche così, dalle semplici cose.