Addio al Re, i Rush di Neil Peart raccontati da Luca Signorelli
Il 13/01/2020, di Redazione.
In: Speciali Monografici.
Neil Peart, una illuminante retrospettiva-epitaffio sull’uomo e sull’artista griffata Luca Signorelli, tra i principali conoscitori dell’universo Rush nonché firma storica di Metal Hammer Italia.
Neil Peart, che ci ha lasciato silenziosamente il 7 gennaio 2020, è uno di quei casi che così tanto aiutano il metal a essere unico. Un grande musicista, uomo intelligente e sensibile, e personalità sfortunata. Da un lato qualcuno che ha reso i Rush una delle dieci band che hanno “costruito” la teoria del metal come la vediamo oggi. E questo nonostante il fatto che la musica dei Rush è quasi tutta scritta da Alex Lifeson e Geddy Lee, suoi compagni di viaggio in un raro caso di line-up storica invariata per 45 anni di successo, mentre Peart sia stato “solo” il batterista della band e l’autore di quasi tutti i testi. Un uomo che aveva profondamente cambiato il DNA del trio, introducendo una componente sognatrice e piena di curiosità intellettuale. Una vera “testa pensante del metallo”, come in realtà ce ne erano ben poche all’epoca, quando il “progressive metal” non esisteva come intendiamo noi e pochi cercavano di andare oltre al cliché del droga-sesso-rock’n’roll. Dall’altro lato un uomo che ebbe sempre un rapporto difficile con la fama, e che si ingegnò per sopravvivere alla doppia perdita nel giro di un anno (il 1997) di figlia prima e compagna dopo, e in seguito ad una serie di problemi fisici culminati con la scomparsa odierna. Un uomo che in un certo senso si fece Re con le sue sole forze (citando Conan), e che allo stesso tempo non riuscì mai a godersi il suo status in un qualche modo unico.
Quando Peart entrò nei Rush, li cambiò profondamente. Porto un drumming complesso ed immensamente più energico e fantasioso di quello del suo predecessore, John Rutsey. Il risultato fu ‘Fly By Night’, secondo disco del gruppo, che è già “i Rush” come noi li conosceremo in seguito con i grandi capolavori da ‘2112’ in poi. C’è un po’ di tutto – la complessità, la melodia, i riferimenti alla fantasy e alla SF, il mix unico di durezza e morbidezza, e quell’ossessione per Ayn Rand che è stato uno dei marchi di fabbrica (e una delle maledizioni) dei primi Rush. Ho risentito ‘Anthem’ mentre stavo preparando queste note, e mi ha incuriosito come questo disco continui ad essere sottovalutato. Ma “sottovalutazione” è una delle qualità dei Rush. Li avremmo amati allo stesso modo se non fossero stati sempre in equilibrio fra gruppo sublime ed amato “da noi” e band sbeffeggiata e trattata come una macchietta dagli “altri”, i non metallari, quelli che oggi si affollano ad esprimere il loro cordoglio sui social media?
Neil Peart, oltre alla sua tecnica musicale, portò ben altro nel mix di personalità dei Rush – una figura intellettuale sinceramente rara fra i musicisti rock. Era un autodidatta onnivoro, profondamente interessato a decine di soggetti diversi, dalla cucina all’ornitologia, dai motori alle culture primitive che ancora sopravvivono nel mondo, dalla conservazione della natura (era un grande appassionato di visite ai parchi naturali) ai modellini degli aerei, dallo sport (ne praticava vari e tutti piuttosto bene) alla filosofia. E a differenza di tanti altri “onnivori” di questo tipo, faceva tutto con cura e con molto impegno. In un certo senso la musica, pur se assolutamente centrale nella sua vita era solo uno dei pilastri della sua vita, che non sarebbe stata completa senza il grande ventaglio di interessi che lo animavano.
Peart era un personaggio preceduto dalla sua leggenda intellettuale, che spesso intimidiva (il suo nomignolo “Il Professore” non era casuale). Nella realtà, se ci si metteva in relazione con lui in modo corretto, era una persona estremamente piacevole e stimolante, diversissima da quella a volte “ruvida” di Lee oppure dalla semplicità di Lifeson. In qualche modo nella conversazione percepivi da lui un genuino interesse e curiosità rispetto a quello che TU gli stavi raccontando – una cosa quasi unica in un mondo del rock dove l’egocentrismo più smodato è la norma.
Viaggiare e scrivere erano per lui necessità vitali. Non solo viaggiare e scrivere “solo” per necessità legate alla band, e certamente non il viaggiare nel senso più strettamente turistico. Il suo primo libro (ne scrisse sette di memorie, oltre ad altri lavori di fiction), ‘Masked Rider’, è un bellissimo travelogue su un suo viaggio in bicicletta in Africa durante gli anni ‘80. Inizialmente passato in sordina, divenne in seguito un caso più unico che raro di libro di viaggio scritto da una rockstar in cui la rockstar non è la scusa per qualsiasi evento. Come nella musica dei Rush, Peart era chiaramente al timone, ma sempre sullo sfondo, lasciando che fossero i fatti a “parlare da soli”.
‘2112’ (uscito nel 1976) in un certo senso è IL disco di Neil Peart. Critici e casa discografica furono ostili o assenti, ma i fans reagirono in massa. ‘2112’ è un disco curioso, conteso fra pomp-prog (che nel 1976 stava cominciando ad essere un genere fuori moda) e metallo futuro. C’è una ricerca del punto di equilibrio fra le due cose che secondo me è tutta a carico di Peart (di nuovo, con buona pace del fatto che la musica è in teoria scritta da Lee e Lifeson ). E c’è di nuovo l’omaggio ad Ayn Rand e alla sciagurata filosofia Obiettivista (che 30 anni dopo sarà fatta a pezzi dal videogioco Bioshock, la cui trama avrebbe potuto benissimo uscire da un disco dei Rush). Mi sia lasciato dire in tutta onestà una cosa – mentre ‘2112’ è un capolavoro musicalmente parlando, e mentre il concept che sta dietro il disco (la lotta dell’individuo contro una società collettivista) è in alcuni punti intrigante, i testi di Peart qui sono invecchiati piuttosto male. Ma è impossibile non vederli con affetto. Si percepisce dietro di essi una ricerca da “intellettuale che suona la batteria” che è quella di tanti metallari dalle letture disordinate. In ogni caso, come su tanti soggetti, la fascinazione per Ayn Rand fu solo una fase della vita di Peart, che dal punto di vista politico è un arco dall’ottimismo individualista e libertario degli anni ‘70, al pessimismo progressista degli ultimi dischi.
Dopo ‘2112’, in otto anni i Rush producono sette dischi che sono sette capolavori senza tempo (più due live!): da ‘Farewell To The King’ a ‘Power Windows’. A questo va aggiunta un’attività dal vivo che è a dir poco mostruosa, con punte di 250-300 gig all’anno. In ‘Farewell To Kings’ e ‘Hemispheres’ i Rush riscrivono le regole del prog rock in una veste metal e profondamente americana. Si rassegnino i puristi del metal ad ammettere che è la filosofia di ‘Tarkus’ di Emerson, Lake & Palmer (un disco che nel 1977 è considerato l’epitome del è vecchio!) rovesciata come un guanto attraverso gli occhi di chi va in tour con Kiss e Blue Oyster Cult, e, invece che confrontarsi con il pubblico dei college inglesi dell’era post psichedelica, si guadagna da vivere aizzando folle di figli della lower middle class americana, la suburbia che vive di fantascienza, televisione e cheap drugs. I Rush potrebbero puntare basso e vincere. Invece, soprattutto grazie a Peart, puntano alto e vincono comunque. Il pubblico li ama e ama composizioni lunghe, lunghissime per quegli anni (‘Cygnus X1’, ‘La Villa Strangiato’, in parte scritta da Peart) ma che non sono mai sbrodolate autoreferenziali. I Rush fanno di tutto per far imbufalire i critici dell’era post-Sex Pistols, ma fra i loro peccati non compare mai l’annoiare il pubblico. Hanno capito che a stupire non si sbaglia mai, e se Lifeson e Lee sono macchine spara riffs, è Peart che tiene insieme il tutto con una tecnica batteristica mostruosa ma mai fine a sé stessa.
Il successivo ‘Hemispheres’ (1978) fa capire che l’evoluzione dei Rush è appena partita (ed è per tanti il primo disco in cui anche i non-fan cominciano a prendere nota), poi, nel 1980, arriva ‘Permanent Waves’, che gioca un momento di transizione soprattutto nella prima facciata del disco, con ‘Spirit Of The Radio’ (che mostra a tutti come i Rush riescano a fare musica per le masse senza indebolirsi) e ‘Free Will’, un altro momento-esperimento ritmico che mette in equilibrio il modo con cui i Rush stanno lavorando su ritmi e influenze “diverse” e spiazzanti, e l’ennesima ode solare di Peart all’individualismo. Il disco successivo, ‘Moving Pictures’, è perfetto nel suo avvicinarsi al mondo dell’FM, nell’essere orecchiabile tirando sciabolate come la struggente ‘Red Barchetta’, un altro pezzo che rappresenta Peart e il suo DNA musicale e poetico. In teoria, è un pezzo che sarebbe facile spazzare sotto il tappeto come chincaglieria libertaria (la storia di una ribellione individuale in un mondo in cui correre in auto è proibito.) In mano a chiunque altro sarebbe stato un trionfo kitsch. In mano a Peart diventa un pezzo sublime che evoca un mondo quasi Marinettiano di velocità, poesia e metallo cromato. E poi c’è ‘Tom Sawyer’, il pezzo che per molti rimane la signature song dei Rush per eccellenza. Di nuovo, un’alchimia fra accessibilità radio-friendly, metallo pesante e poetica musicale che nessun altro si potrebbe permettere di osare. I critici fanno spallucce, i fan invece sono sbalorditi dalla progressione della band.
La band dà un’altra sterzata decisa su un territorio diverso con il successivo ‘Signals’, il disco forse più sperimentale fatto dai Rush, ma anche quello in cui la presenza di Peart è meno decisa, e i testi più vaghi. ‘Grace Under Pressure’, uscito nel 1984, è forse il loro capolavoro, senza un passo falso, un riempitivo, una nota che non sia sentita. Fra tutte forse la cosa più bella mai scritta da Peart, la sinistra ‘Red Sector A’, un quadro apocalittico che evoca da un lato l’Olocausto e gli orrori del XX secolo, dall’altro un mondo futuro di repressione e paura, ma anche speranza. ‘Grace’ rappresenta anche un momento di distacco per Peart. L’individualismo e la fiducia nel potere del singolo, e l’ispirazione mutuata negli anni passati da Ayn Rand e ‘Atlas Shrugged’ sembrano venire meno. I Rush diventano più cupi, ma allo stesso tempo sempre più distanti da una ortodossia rock e Peart si scopre meno entusiasta delle sorti progressive e magnifiche del mondo occidentale. Il tutto si chiude nel 1985 con ‘Power Windows’, l’ultimo della serie ininterrotta di capolavori dei Rush. Un disco ansioso, tutto giocato su un tono riflessivo e indurito. Al posto del mito del ribelle individualista catalizzato da ‘Tom Sawyer’, abbiamo il disastro Faustiano di ‘Manhattan Project’, uno dei pezzi più sottovalutati dei Rush.
Dopo ‘Power Windows’ i Rush sembrano in qualche modo smettere la ricerca frenetica che li aveva accompagnati nei dieci anni precedenti, e da ‘Hold Your Fire’ in poi sembrano limitarsi ad essere “solo” un grande gruppo che ha raggiunto un plateau qualitativo quasi unico, e ci tiene a mantenerlo. Nei dieci anni successivi è come se i Rush si mettessero da soli in un angolo. Non che facciano brutti dischi, anzi – ‘Presto’ e ‘Counterparts’ sono oggettivamente eccellenti. Ma per un po’ la magia se ne va.
Nel 1997 succede la catastrofe. Peart perde prima la figlia Selena, 19 anni, in un incidente d’auto. Pochi mesi dopo è la volta della sua compagna Jacqueline, madre di Selena, portata via dal dolore e da un tumore. Peart annuncia il suo ritiro dalla musica. Si imbarca per un viaggio di migliaia di chilometri lungo il continente americano, che poi descriverà nel suo libro ‘Ghost Rider’ (‘Il Viaggiatore Fantasma’, traduzione di Stefania Sarre, Tsunami Edizioni, 2014) Peart corre dietro ai suoi fantasmi, soprattutto al suo rimorso per non aver saputo evitare la catastrofe, poi sembra fare pace con loro, anche grazie all’incontro con quella che poi diventerà la sua nuova compagna. Contro tutte le aspettative riprende i “suoi” Rush. Paradossalmente, è in questi anni a cavallo del cambio di secolo e millennio che il resto del mondo si accorge di quanto i Rush e Peart stesso siano stati importanti, anche grazie ad una nuova generazione di musicisti esplosa negli anni ’90, meno legata ai sacri terrori critici di quella precedente, che non ha paura di dire che ascoltare i Rush ha cambiato loro la vita.
‘Vapor Trails’ (2002) è il disco del ritorno. Ma Peart non è più lo stesso. Da sempre geloso della propria vita privata, diventa virtualmente inaccessibile ai giornalisti, e quasi “difeso” dai suoi compagni di vita musicale. Il disco di per sé stesso non è eccezionale (la produzione è piuttosto brutta, i pezzi ascoltabili ma non memorabili). Ma nel frattempo ci siamo tutti accorti che dei Rush non si può proprio fare a meno. I loro concerti sono pieni più che mai, e se ce ne fosse stato bisogno, è proprio a partire dal 2002 che i Rush diventano intoccabili in un modo a cui perfino mostri sacri come Black Sabbath e Iron Maiden (che hanno da sempre alternato capolavori a mediocrità assolute) non potranno mai aspirare. Più che un’istituzione, i Rush sono un assioma, aiutati dal fatto che dall’inizio della loro carriera non hanno mai smesso di migliorare e di evolversi anche dal punto di vista tecnico. Fra il 2002 e il 2011 fanno uscire un sacco di live, ed è impossibile sentirsi nostalgici per i “vecchi” Rush dal vivo di ‘Exit Stage Left’, perché QUESTI Rush sono molto migliori – una traiettoria inversa a quella di tante vecchie glorie. E nessuno è migliorato (pur partendo da una base notevole) quanto Peart.
Nel 2012 avviene il colpo di scena. I Rush fanno uscire ‘Clockwork Angels’, il loro disco migliore dai tempi di “Grace Under Pressure” (ma qualcuno addirittura parla del loro migliore disco da ‘Moving Pictures’). E’ un ritorno alla forma migliore che lascia veramente senza parole, un concept album stilisticamente completo (e complesso) in cui non si spreca una nota come nei momenti migliori della band. Ed è finalmente la somma finale delle due anime poetiche dei Rush (e di Peart) – l’ottimismo positivista di ‘Caravan’, dove Peart ci ricorda di “non poter smettere di pensare alla grande”, e la disperazione celata dietro un sorriso di ‘B2BU’, in cui con amarezza lo stesso Peart ci dice che “L’Orologiaio ci sta amando a morte”. E’ un disco (seguito da un libro) che fa sperare in un ritorno di fiamma ed un seguito che, però, il progressivo declino fisico di Peart (che soffre di tendiniti croniche debilitanti) renderà impossibile. Nel 2015 i Rush si sciolgono, e in silenzio Peart comincia la sua ultima battaglia, conclusasi ieri tragicamente e definitivamente.
(Luca Signorelli)