I migliori 10 dischi dei Savatage secondo Dario Cattaneo
Il 27/06/2019, di Dario Cattaneo.
In: Hammer Chart.
Abbiamo il piacere di annoverare trai nostri collaboratori Dario Cattaneo, scrittore e critico musicale, autore qualche anno fa del libro ‘Dietro Il Sipario – L’Epopea dei Savatage’ per Tsunami edizioni (ordinalo a questo indirizzo a metà prezzo). La band formata nei primi Ottanta dai geniali fratelli Oliva è da sempre una delle band più amate dai propri supporter, ma meno chiacchierate a livello della grande scena, nonostante la loro elegante ma robusta rilettura di metal classico e sonorità orchestrali siano fonte di ispirazione di un numero altissimo di band. È con molta soddisfazione quindi che vi elenchiamo in maniera oggettiva i migliori dieci album della discografia dei Savatage, ripercorrendola appunto attraverso le parole dell’unico autore italiano che ha deciso di dedicargli un intero libro.
10. ‘Power Of The Night’ (1985)
Il nostro cammino dal basso verso l’alto con destinazione della band floridiana parte stranamente dal 1985, un’anno in realtà nevralgico per il metal classico in generale. A cavallo infatti del biennio ’85/’86, molti dei più grandi nomi del metallo inglese e oltreoceano si avvicinarono infatti al ‘nuovo’ mondo dei synth, cambiando leggermente le regole del gioco nella scena mondiale: ‘Somewhere In Time’ dei Maiden, ‘Turbo’ dei Judas e ‘The Ultimate Sin’ di Ozzy; tutti dischi usciti con l’arrivo del 1986 che si staccavano a livello di suono dai precedenti album ‘Powerslave’, ‘Defender Of The Faith’ e ‘Bark At The Moon’. Una rivoluzione quindi attesa e recepita a livello anche globale… ma a cui i Savatage non parteciparono per nulla. Pur essendo comunque un buon album, per certi versi anche superiore a ‘Sirens’ e ‘Dungeons’, pagò (e paga ancora) una certa inadeguatezza rispetto al periodo in cui uscì. Il passaggio poi dalle indipendenti alla major Atlantic mise almeno parzialmente le briglie agli ancora giovani Savatage, fornendogli certo i mezzi per una produzione pulita e patinata ma limitandoli in quello di cui ancora abbisognavano per far fare alle composizioni di quel periodo il vero salto di qualità: cioè la spontaneità e volendo anche la ruvidità che accompagnava i loro primi vagiti discografici. Impastoiati dunque nelle loro armi più potenti – il carisma selvaggio di Jon e l’ecletticità solista di Criss – i Savatage si presentano con questo lavoro più come band heavy “di serie” di una grande label piuttosto che come la futura band del tonante ‘Mountain King’. Seppur quindi un disco certamente sufficiente e anzi farcito di canzoni ancora adesso dalla salda presenza nel cuore dei fan (‘Warriors’ e la title-track su tutte), ‘Power Of The Night’ è un disco un po’ con il freno a mano tirato, che si vede in questa lista sorpassato dagli altri nove capitoli presentati nel seguito.
9. ‘Poets And Madmen’ (2001)
Solo in nona posizione troviamo un album invero già decisamente bello, l’ultimo in carriera per la band. Il fatto è che è relativamente difficile affezionarsi a questo disco. Una serie di “condizioni sfavorevoli” hanno infatti accompagnato questa uscita discografica, facendo sì che a non tutti i fan andassero giù alcune scelte pesanti. E – venendo subito alla prima di queste condizioni – si deve considerare il fatto che ‘Poets…’ è l’unico album dell’ultimo periodo al quale il singer Zachary Stevens non abbia partecipato. In effetti, poco importa se alle linee vocali su tutto l’album si trovi proprio il cantante originale Jon Oliva: negli anni Zachary si era del tutto guadagnato il diritto di dirsi vero frontman della band. O almeno uno di essi: i fatti ci avevano già mostrato i Sava come band poliedrica caratterizzata dall’uso di diverse voci e diversi registri, quindi la speranza di molti di vedere il buon Zach quantomeno dividere il microfono con patron Oliva può essere anche considerata giustificata. Più legato alla musica è invece il secondo difetto che troviamo nell’album, rappresentato dal tentativo di raccogliere l’elaborata struttura degli ultimi album e di coniugarla al sound più ruvido del periodo di ‘Hall Of The Mountain King’. Una scelta che di per sé non critichiamo, ma che poteva dare migliori risultati. Di quel sound infatti manca il drumming nervoso di Wacholz, il chitarrismo distintivo di Criss. Con i Savatage in quel momento più eleganti e maturi, era venuta a cadere quella spontaneità che aveva reso gli album del periodo centrale i capolavori che sono. I bei brani però ci sono eccome, la sola ‘Morphine Child’ rappresenta un degno successore di ‘Chance’, uno dei migliori pezzi della band: la classica song che scrive pagine di metal con una facilità vietata ad altre band. ‘Stay With Me Awhile’ e ‘There In The Silence’ sono bei momenti di heavy di gran classe, e anche la diretta ‘Drive’ lascia il segno nella nostra mente. Un album bello, come dicevamo funestato da alcune scelte che non sono state del tutto recepite, ma il cui valore è comunque indubbio.
8. ‘Sirens / The Dungeons Are Calling’ (1983)
Risalendo nella nostra personale classifica dei dischi dei Savatage si torna invece indietro nel tempo, dall’ultimo fino al primo disco ufficiale della band floridiana. A proposito di questo simil-debutto – ‘Sirens’ – non si può non riconoscere come – nonostante la posizione bassa in questa classifica – si sia rivelato un disco baciato dal tempo. Si nota, infatti, col passare degli anni un progressivo innalzamento nella considerazione di questo disco da parte della critica: man mano che il tempo scorreva e che le caratteristiche della band si sono andate via via definendosi, ci si rendeva infatti sempre più conto di come su ‘Sirens’ si era già in grado di ascoltare i futuri elementi distintivi del classico Savatage-sound. Un esempio è proprio ‘Sirens’, che con il riff arpeggiato iniziale e le sue campane di sfondo non può non ricordare almeno un celebre brano da ‘Gutter Ballet’ (‘Hounds’). Anche ‘Holocaust’ – altro grande pezzo – non può ora come ora non identificarsi come prototipo del sound apocalittico e distruttivo del futuro capolavoro ‘Hall Of The Mountain King’. Qui, anche la personalità vocale di Jon è è già del tutto sbozzata: le prime risate malvagie e la teatrale interpretazione del testo sono quelli che i fan impareranno ad amare nel corso degli anni a venire. Un primo stampino per le acclamate ballad in stile Savatage è era anche presente: ‘Out On The Streets’ non fa mistero del gusto che i nostri avranno per questo tipo di composizioni.
Associato a ‘Sirens’ riportiamo però per questa classifica anche ‘Dungeons Are Calling’, più propriamente un EP che non una vera e propria release. Da un lato c’è da considerare il fatto indiscutibile che le sette canzoni incluse in quell’EP siano in toto gli ‘scarti’ dell’album precedente, tutte composte nello stesso periodo e con le stesse condizioni al contorno. D’altro canto però, è altrettanto indiscutibile che ignorare il classico ‘By The Grace Of The Witch’, ripreso per anni in sede live dalla band, o considerare il capolavoro ‘City Beneath The Surface’ come un semplice scarto sia in effetti alquanto ingeneroso.
7. ‘The Wake Of Magellan’ (1997)
Con i Savatage oramai in formazione stabile dal 1995, troviamo in settima posizione un album veramente solido dal titolo ‘The Wake Of Magellan’. Un album che anche se meno ‘bello’ in termini assoluti rispetto al precedente ha il davvero grande pregio di rappresentare – fedelmente e senza trucchi – il vero volto finale raggiunto dalla band nel periodo post-Criss, dopo anni di tribolazioni. ‘Wake…’ è un album solido, dal carattere sinfonico e carico di pathos; caratterizzato da una musica ricca e drammatica e da testi impegnati e profondi. Si tratta di un altro concept album (formato che i Savatage adottarono spesso in finire di carriera), e nel suo intreccio narra la storia di un uomo deluso da tutto che decide di lasciarsi morire in mare, l’unico punto fermo di tutta la sua vita. A questa triste vicenda vengono legati due fatti di cronaca realmente accaduti: l’assassinio della reporter statunitense Veronica Guerin e l’incidente della Maersk Dubai, nave battente bandiera taiwanese che lanciò fuori bordo quattro clandestini rumeni dei quali uno poi si salvò, riportando tutto. I brani sono la perfetta cornice per questi temi così drammatici: il bellissimo coro della opener ad onoris ‘Welcome To The Show’ apre infatti un invisibile sipario davanti ai nostri occhi, dipingendo una incontenibile tensione drammatica con la progressione heavy di ‘Turns To Me’, brano la cui potenza viene esaltata da continui cambi di tempo e da impreviste ripartenze dopo sprazzi quasi acustici. Due sono i brani cantati da patron Jon: ‘Another Way’ e ‘Paragons Of Innocence’ e entrambi ci ricordano con onore i “vecchi” Savatage. In generale, in tutto l’album il bilanciamento tra passato e presente risulta perfetto, motivo per cui per noi ‘The Wake Of Magellan’ rimane l’ultimo grande lascito della band nel suo periodo di ‘rinascita’, davvero un altro lavoro che tantissimi fans possono portare ancora nel proprio cuore.
6. ‘Handful Of Rain’ (1994)
Ci si avvicina alla parte alta della classifica con l’album più travagliato dell’intera discografia dei Savatage. Il disco vede infatti tenersi la propria intera gestazione (concepimento, scrittura, registrazione e produzione) in un periodo molto circoscritto di tempo, il periodo subito successivo alla morte per incidente stradale del chitarrista, compositore e soprattutto fondatore Criss Oliva. ‘Handful’ di conseguenza è del tutto considerabile come un ‘figlio’ del solo Jon Oliva il quale – chiusosi in lutto per il fratello dentro i propri studi personali in Florida in compagnia dell’amico e produttore Paul O’Neill – ne ha composto, suonato e registrato tutte le musiche (basso e batteria compresi!) nonché scritto tutte le liriche. Un lavoro scaturito quindi dal dolore di una perdita gravissima, quella di un fratello, un complice, un parente ma anche e soprattutto un compagno di esistenza. Comprensibilmente, tutto questo cordoglio, questa turbolenza, questa incertezza si sono condensate nella musica, distillandosi in una decina di brani intensi, emozionali e per certi versi anche struggenti. Anche se dal punto di vista creativo, compositivo e dell’impatto gli dischi che seguono in questa lista risultano essere superiori e più amati dai fan, ‘Handful Of Rain’ resta un album importantissimo, un concentrato di amore, passione, determinazione, un vero e proprio grido di ‘non ci arrenderemo’ sbattuto in faccia al destino beffardo. Tante sono le belle canzoni, dalla violenta opener ‘Taunting Cobras’ alla intensa ‘Watching You Fall’ passando per la splendida ‘Castles Burning’, dedicata al nostro eroe il magistrato Giovanni Falcone. Impossibile non citare due assoluti capolavori senza uguali della discografia dei Savatage: la incredibile ‘Chance’, con il suo primo tentativo di coro polifonico a quattro voci a condire una canzone che così teatrali e ‘queen-oriented’ i Savatage non ne avevano mai composte e la struggente ‘Alone You Breathe’, dedicata alla scomparsa del compianto Criss. Come dicevamo, di dischi più rappresentativi dei Savatage ne troveremo più avanti, ma questo incredibile platter del ’94 rimane davvero il quadro a tinte più scioccanti e sincere di tutta la loro discografia.
5. ‘Edge Of Thorns’ (1993)
Se ‘Handful Of Rain’ è considerato l’album di Jon, ‘Edge Of Thorns’ è l’album di Criss. L’ultimo registrato prima della sua prematura scomparsa, è infatti l’unico capitolo discografico della band che non vedeva la partecipazione come membro (ma come compositore dietro le quinte sì) del fratello grande Jon. Parzialmente abbandonato dalla voce a causa di un infezione alle corde vocali, fiaccato nel corpo e tradito nello spirito da quegli stessi eccessi che gli avevano fornito spinta creativa ed emotiva fino a quel momento; il carismatico frontman si era infatti ritirato dalla band subito all’indomani del tour a support del capolavoro ‘Streets’, abbattuto forse anche dallo sforzo di aver creato in un solo anno un lavoro di quella portata. Senza più il Mountain King al timone, è toccato al co-fondatore e secondo compositore Criss prendere in mano le redini della barca, facendogli decidere la direzione in cui condurre per gli anni a venire i propri compagni. Il risultato è un album si di transizione, ma la cui qualità lasciò (e lascia tuttora) tutti esterrefatti. Perfettamente a cavallo tra i Savatage più heavy e chitarristici (‘Lights Out’, ‘Miles Away’) e quelli più eleganti (‘Edge of Thorns’, ‘All That I Breathe’) il disco inanella una serie di brani perfettamente a fuoco e davvero ben riusciti, che ci mostrano un Criss Oliva appunto davvero al suo top, compositivamente parlando ma soprattutto dal punto di vista esecutivo. Ma la motivazione principe per vederlo così in alto in questa classifica rimane quella che ‘Edge Of Thorns’ è un album di conferma: uscito in un periodo allora facilmente definibile come il più difficile e travagliato per la band (non si poteva conoscere il destino di Criss nel 1993) ‘Edge’ faceva comunque vanto di tutti gli aspetti migliori costruiti negli anni da una band che – soprattutto nel quinquennio precedente – precedenti aveva scosso il mercato e convinto i fan con delle uscite capaci di scrivere la storia.
4. ‘Dead Winter Dead’ (1995)
La gestazione solitaria di ‘Handful Of Rain’ nel 1994, oltre ad averci donato uno dei cinque album più importanti dei Savatage, ha in realtà avuto anche un curioso (ma importante) effetto collaterale: aveva cementato definitivamente il sodalizio artistico tra lo scrittore e produttore O’Neill e Jon, aprendo di fatto nuovi orizzonti stilistici e nuovi approcci compositivi. Quello che erano stati gli input più importanti degli ultimi anni – la vocalità più morbida di Zack Stevens, l’uso dei cori “a’ la ‘Chance’”, il chitarrismo diverso che dalle irrequiete e sregolate dita di Criss passavano a quelle del sodale Caffery – in quel periodo si cristallizzarono in una nuova forma. Più elegante, più declamatoria, più sinfonica, ma pur sempre legata all’heavy classico. Seguendo quanto si era già realizzato con ‘Streets’, si puntò alla realizzazione di una cosiddetta Rock Opera, un insieme di brani liricamente collegati che formano un unico intreccio e un’unica trama. La storia – veramente bellissima – ha luogo nei pressi della città di Sarajevo, e narra della drammatica storia d’amore tra due personaggi di provenienza e fede diversi, lui serbo e lei di fede musulmana. La forma della band è in tutto l’album davvero perfetta, e sono in tanti ad essere concordi che proprio questo album sia il più rappresentativo – nonché il meglio riuscito – dell’epoca post-Criss. Tra rasoiate di chitarra ad opera del bravo Al Pitrelli, le cannonate della notte bosniaca ‘doppiate’ dai tamburi del nuovo entrato Jeff Plate e la voce autoritaria di Stevens il disco snocciola solo capolavori, dalla introduttiva ‘This Is The Time’ alla finale ‘Not What You See’ passando per la sofferta ‘This Isn’t What We Meant’ è un unico percorso sulle montagne russe, che ci fa apprezzare tutti, ma davvero tutti, gli elementi che hanno reso grandi i Savatage dell’ultimo periodo.
3. ‘Gutter Ballet’ (1989)
Il periodo migliore per i Savatage fu comunque il quinquennio compreso tra il finire degli Anni ’80 e l’inizio del decennio successivo, gli anni cioè della cosiddetta “trasformazione”. Quello fu il periodo durante il quali la band floridiana smise di essere semplicemente una buona band hard’n’heavy per lavorare, sbozzare e infine far fiorire quella forte personalità che li avrebbe resi poi unici nel panorama heavy statunitense e mondiale. Nel trittico di album usciti in quel periodo d’oro ‘Gutter Ballet’, il nostro terzo classificato, rappresenta cronologicamente il lavoro centrale, l’album della conferma dopo il tonante ‘Hall Of The Mountain King’ ma sorta di padre putativo per il lavoro successivo, l’ambizioso ‘Streets’. In effetti, è proprio grazie a ‘Gutter Ballet’ che ci rese conto per la prima volta della profondità della maturazione subita dal Savatage-sound nel corso di quegli anni: questo è il motivo per cui – non a torto – questo disco viene spesso considerato come un vero spartiacque per l’intera carriera della band. Caratterizzato da un sound ancora vicino a quello delle origini, ma graziato da una maturità compositiva e da un approccio invece del tutto figli del recente sodalizio tra la band e il produttore O’Neill, ‘Gutter Ballet’ vive di una serie di pezzi solidi e abrasivi nei quali è assolutamente possibile apprezzare come il chitarrismo di Criss stesse diventando sempre più definito e personale, cancellando parzialmente i confini tra ritmica e solistica in molti passaggi, e come il modo di calcare il palco del leader Jon si stesse facendo via via sempre più teatrale. La splendida title-track, l’arcigna ‘Hounds’, la furiosa ‘The Unholy’ e la struggente ‘Summer’s Rain’ sono trai migliori estratti della discografia dei Savatage, e il podio per questo splendido disco risulta quanto mai meritato, nonostante vedremo che ‘Gutter Ballet’ manca dell’importanza storica di ‘Hall Of The Mountain King’ e della ricercata raffinatezza e struttura di ‘Streets’.
2. ‘Streets’ (1991)
Terzo e ultimo passaggio della trilogia pubblicata nel periodo d’ora dei Savatage, ‘Streets’ è il disco che occupa la seconda posizione nella nostra personale classifica. I motivi in realtà sono tanti, ed esulano dalla sola – strabiliante – qualità dei sedici brani raccolti nella sua ora e dieci di durata. In effetti, ‘Streets’ fu primo in tante cose. Fu il primo album la cui scrittura avvenne non in sala prove e non in compagnia dell’intera band, ma ad opera dei soli fratelli Oliva, chiusi in una sorta di autoimposta clausura in un lussuoso attico di New York con vista sulla città sottostante. In compagnia di Paul O’Neill, Jon lavorò per un periodo di esattamente 365 giorni alla stesura del suo lavoro allora più ambizioso: un disco rock che fosse però la trasposizione in musica di un copione teatrale, scritto tempo addietro dallo stesso O’Neill per Broadway. Teatro, opera, orchestra e tanto tanto metal: tutto questo era possibile trovare dentro ‘Streets’, ancora adesso l’album preferito da Jon Oliva stesso e da molti, molti fan della band. Basato sulla vicende narranti l’ascesa, la ricaduta e la successiva redenzione di una rock star di nome D.T. Jesus (personaggio immaginario ma dai molti e sospetti particolari riconducenti ai vizi e agli eccessi dello stesso Jon); l’album dipingeva a tinte vibranti l’ipotetica vita di questa fragile rockstar nella spietata New York degli Anni ’90: città di musica e di concerti, di ricattatori e delle droghe, della ricchezza dei Wall Street e della povertà dei vicoli della downtown. Tra l’effimera gioia della fama, fantasmi portatori di pietà e di consigli, amici che si rivelavano traditori e tanta introspezione si snodano quindi la quindicina di canzoni più elaborate, pensate e curate dell’intera discografia dei Savatage. In ‘Streets’ non ci fu spazio per istintività, casualità o improvvisazione, ogni nota, ogni linea vocale, ogni passaggio strumentale fu registrato, cancellato e ri-registrato chissà quante volte sopra l’enormità di ben 96 tracce di mixer, lungo un periodo effettivo dicevamo di un anno intero. Ci sono dunque poche parole che si possono spendere per descrivere a un fan la grandezza di ‘Street’: la sola quantità netta di dedizione, fatica e impegno riversati su questo lavoro bastano a giustificare la sua presenza così in alto in questa classifica.
1. ‘The Hall Of The Mountain King’ (1987)
Non è raro sentire parlare di ‘Hall of The Mountain King’ come “l’album della trasformazione”. Ed a conti fatti è davvero così. Dopo lo scivolone rappresentato dallo scadente ‘Fight For The Rock’ (che nemmeno vedete riportato in questa classifica) nessuno si aspettava un disco del genere dai Savatage. O, almeno, non questo disco. ‘Fight’ era un album scialbo e debole, che subiva di tutti i difetti citati per ‘Power Of The Night’ ma che aggiungeva a questi la confusione, lo smarrimento, di ragazzi dalla grande passione ma a cui stavano venendo messe briglie e pastoie molto strette. Nel passaggio al mondo delle major, infatti, i Savatage avevano rischiato di perdere la capacità di generare quelle scintille in grado di appiccare il fuoco al combustibile della loro creatività. I vari: “una canzone così non andrà mai in radio”, oppure “i fan vogliono qualcosa di più radiofonico”, le varie esortazioni del tipo: “fate un’altra ‘Sirens’”, sarà un successo, avevano infatti mandato in confusione l’impetuoso Jon e il più schivo Criss, facendogli realizzare un album che era forse più un prodotto di chi li produceva che della band stessa. Ebbene, tutta la confusione di quel periodo finì per essere spazzata via il 28 settembre del 1987 dopo il primo, perentorio, grido presente sull’opener del quarto disco dei Savatage: “Behind the wheel just went aloooong!!!!”. Bastarono quei dieci secondi e l’energico riff di Criss a gridare alla resurrezione di una band che si stava perdendo. Quasi si trattasse di un manifesto dell’intero album, già solo in quei pochi secondi iniziali si sentì la portata del cambiamento che i Savatage apportarono al proprio modo di lavorare e comporre. Via i testi rockettari, addio alla melodia radiofonica, al suono addomesticato, ai cosiddetti ‘canoni’ dell’heavy Anni ’80; ‘Hall Of The Mountain King’ era un album per distruggere, un capitolo per aprire una nuova via. Quell’urlo iniziale era feroce alfiere di questo cambiamento, pregno di un energia, di una convinzione che erano l’ultimo pezzo mancante del puzzle, il tassello che i Savatage avevano per quattro album – con risultati altalenanti – tentato di infilare. Tutto girava al massimo, e la chitarra di Criss si perdeva in assoli eccezionali, ancora adesso trai migliori della sua intera carriera. La voce di Jon si era vestita di un’autorità nuova, di un carisma prima solo abbozzato, apprezzabile dall’interpretazione quasi teatrale che nessuno aveva ancora mai sentito da loro. ‘Hall Of The MOuntain King’ sarà magari non considerato da tutti come l’album migliore dei Savatage (anche chi scrive gli preferisce ‘Gutter Ballet’), ma è sicuro il disco cardine della loro carriera, un passo fondamentale per la band e in generale per tutto quello che sarà la storia dei Savatage da lì a venire.