La classifica dei dischi dei Tool secondo Giovanni Rossi

Il 14/11/2018, di .

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La classifica dei dischi dei Tool secondo Giovanni Rossi

Torniamo a ospitare sulle nostre pagine Giovanni Rossi, scrittore e critico musicale, diventato ormai parte della redazione di Metal Hammer. Quest’oggi, Giovanni stila una classifica dei dischi dei Tool, idolatrato gruppo statunitense capitanato dall’eclettico Maynard James Keenan (del quale potete leggere la biografia ufficiale, L’Armonia degli Opposti pubblicata quest’anno da Tsunami Edizioni) in attesa del grande ritorno della band americana al Firenze Rocks 2019.

6. ‘Opiate’ (1992)

Nell’anno di grazia 1992, si abbatte sugli Stati Uniti il ciclone Tool. L’EP di esordio del gruppo viaggia fuori dai binari di un periodo in cui il grunge è all’apice e il thrash è il genere metal del momento. Ma il quartetto sceglie un’altra strada, quella di un metal pesante contaminato da quelle folate progressive che lentamente avrebbero preso sempre più il sopravvento. Il risultato riassume la gavetta live degli inizi e riordina svariate idee apparse sul primo demo in cassetta della band. ‘Hush’ è il primo, urticante brano a far conoscere i Tool al di fuori del loro circuito di iniziati, mentre altri pezzi come ‘Jerk-Off’ e la title track rispecchiano alla perfezione le idee iniziali del quartetto. C’è odore di Green Jellö e di Tom Morello, ma c’è soprattutto la personalità di un gruppo che inizia a manifestarsi anche in sala di registrazione dopo essersi creato un foltissimo seguito dal vivo. Le ritmiche sono potenti, scandite, complesse, le linee di chitarra taglienti, ma al tempo stesso dettagliate e descrittive. I testi scritti da Keenan sparano fin da subito ad alzo zero contro religione e conformismo, mettendo in chiaro che i Tool non sono qui per intrattenere, né per divertire. Parlare di lavoro acerbo è improprio, perché pur essendo alla loro prima uscita ufficiale, i Tool già hanno sulla pelle una soddisfacente esperienza dal vivo, meglio allora definirlo come un manifesto programmatico in evoluzione. Sei tracce per una delle uscite più pesanti del gruppo, fucilate che lasciano solamente intravedere il potenziale che i quattro avrebbero espresso in futuro.

5. ‘Salival’ (2000)

Se si vuole gustare appieno la portata dei Tool, la dimensione live è quella più congeniale, fin dall’inizio, perché è lì che la geometrica perfezione dello studio si impreziosisce della sciamanica energia che il quartetto sprigiona dal vivo. Keenan e compagni lo sanno benissimo ed è per questo che nel 2000 decidono, dopo soli due album in studio, di pubblicare un live. ‘Salival’ è composto di un Cd contenente brani suonati dal vivo tra cui alcuni inediti e da un DVD con i primi cinque video del gruppo. A corredo un bellissimo libro fotografico che testimonia l’attenzione che il gruppo ha sempre più riposto anche nella parte visuale, complice la passione per la grafica da parte di Adam Jones. I cinque pezzi dal vivo rendono bene l’idea di cosa i Tool siano capaci di fare, e non è un caso che nei titoli selezionati dal gruppo non figurino i brani più conosciuti ed amati dai fan. Brani come ‘Third Eye’ e ‘Pushit’ esprimono bene le dimensioni sulle quali i primi Tool si sono sperimentati, così come la cover di ‘You Lied’ dei Peach, la band da cui proveniva Justin Chancellor. La voce di Keenan è un urlo selvaggio, un’invocazione dagli abissi, un profondo salmodiare, vero quarto strumento della band. La sua presenza, anche nella sola dimensione audio, palpabile. La cover di ‘No Quarter’ dei Led Zeppelin potrebbe sembrare un azzardo, rischio insidioso quando si cerca di misurarsi con mostri sacri quali sono i Led Zeppelin. Ed invece i Tool esprimono qui appieno la loro matrice progressiva pregna di elementi metal e psichedelici, realizzando una rilettura sofferta e coraggiosa.

4. ’10’000 Days’ (2006)

I Tool impiegano cinque anni per dare un seguito a ‘Lateralus’, nonostante le pressanti insistenze dall’etichetta discografica e del pubblico. Ci sono di mezzo i molti impegni di ciascun membro della band, Keenan in primis ormai diviso tra la passione per le arti marziali e gli A Perfect Circle. Ma la cosa che nessuno sospetta è che questo sarebbe stato l’ultimo album del gruppo ad oggi, suggellando un silenzio che fino ad ora è stato interrotto solo da apparizioni live nei festival estivi americani. L’aspettativa di tutti è che questo nuovo album possa bissare un capolavoro come ‘Lateralus’, peso che i Tool comunque non sentono, impermeabili come sono alle convenzioni e alle imposizioni del business. Ma anche se di livello inferiore, ‘10,000 Days’ è un album di altissima foggia. Ci sono tutti gli ingredienti che caratterizzano il gruppo, con una forte accentuazione della componente heavy metal, a partire da ‘Jambi’, uno dei brani che diventerà tra i più amati del gruppo. È proprio questo ritorno per gli stilemi metal che riporta in primo piano il lavoro di Jones, mentre Carey e Chancellor proseguono nel loro pregevole articolarsi di cambi di tempo e dinamica. Ancora una volta i testi di Keenan contengono un voluto ermetismo, ancora una volta le sue parti vocali sono potenti, mutevoli, giocate su intersezioni di registri e colore, ancora una volta il bellissimo booklet non riporta volutamente le liriche, perché l’essenza dei Tool continua a risiedere nell’oscuro mistero. Lo stesso titolo che riprende la durata dell’orbita di Saturno, allude a quelle teorie dei cicli vitali trentennali in cui ciascuna persona ha la possibilità di svoltare la propria esistenza. Pur inanellando due singoli come ‘Vicarious’ e ‘The Pot’, l’album non bissa il successo del predecessore, ma rimane comunque di un livello qualitativo altissimo.

3. ‘Undertow’ (1993)

Alla loro prima uscita sulla lunga distanza, i Tool mantengono la promessa dell’esordio e piazzano un album da doppio platino. La lezione di ‘Opiate’ è sviluppata in dieci brani che pur mantenendo una pesantezza inalterata, si impregnano sempre più di schemi riconducibili al progressive, e qui i critici musicali iniziano ad avere il loro bel da fare nel cercare di mettere un’etichetta convincente sul gruppo. ‘Prison Sex’ ed il suo video sono il biglietto da visita del gruppo al mainstream, e con la fama arrivano anche le prime censure, mentre ‘Sober’ è il primo singolo, dolorosa immersione nella dipendenza e nel male della vita. Spiccano lo straordinario lavoro della sezione ritmica formata da Danny Carey e da Paul D’Amour, precisi e simbiotici come pochi in quel periodo, e soprattutto il grande lavoro vocale di Keenan, che anche in studio riesce a trasfondere il suo incredibile carisma, impiantando nelle liriche da lui stesso composte una dose di emozionalità quasi tangibile, carnale. I testi provocatori e cinicamente scorretti, sono ispirati in larga parte ai lavori del compianto comico Bill Hicks, per il quale Keenan nutriva una profonda ammirazione. ‘Undertow’ fa chiaramente presagire il potenziale dei Tool, ma già di per sé è molto vicino ad un punto di arrivo, perché testimonia una band matura e padrona del proprio suono, originale e distinguibile. Basterebbe replicare con qualche rafforzamento per reiterare una formula vincente. È quello che auspicano i loro discografici e che tutto sommato non dispiacerebbe neppure al pubblico. E invece loro spiazzano tutti e di nascosto preparano il terreno al sorprendente seguito.

2. ‘Ænima’ (1996)

A tre anni di distanza da ‘Undertow’, i Tool sfoderano il loro primo capolavoro. Quindici brani pazzeschi che si dischiudono in un mondo nuovo a metà tra psichedelia, metal e progressive, dove i punti di riferimento sono Jung, Hubbard, Leary, l’evoluzionismo e la Bibbia. Una apparente schizofrenia di ritmi e parole governata da una precisione geometrica assoluta. Il subentro di Justin Chancellor a Paul D’Amour in corso d’opera segna un ulteriore passo avanti della pur già pregevole sezione ritmica dei Tool; la sua intesa con Carey è quasi istintiva, naturale ed il risultato esalta ancora di più le sperimentazioni circolari del batterista. Anche le chitarre di Jones si spingono un passo oltre, intraprendendo soluzioni di colore diverse dalla pesantezza degli esordi, come nel pizzicato sulla paletta di ‘Eulogy’. Jones si diverte a giocare sui cambi di accordatura e questa mutevolezza conferisce al suono una multiformità tonale cangiante. Infine, Keenan, al suo pieno compimento in una serie di liriche ermetiche, indecifrabili, da molteplici significati e rimandi esattamente come le musiche, complesse nelle stratificazioni e nei piani di lettura. La forbice narrativa va dai testi sacri alla magia, ed in mezzo a questi estremi il cantante lascia una voluta assenza di spiegazioni, rafforzando lo stilema estetico di un gruppo che non è nato né per intrattenere, né per spiegare, ma per offrire esperienze individuali, senza regalare chiavi di lettura. ‘Stinkfist’ è il singolo devastante che entra di prepotenza nelle scalette live di tutti i futuri concerti, ‘Forty Six & 2’ un trattato sull’evoluzionismo costruito su complesse alternanze di tempo, ‘Hooker With A Penis’ uno dei pezzi più brutali e pesanti della discografia dei Tool. ‘Ænima’ è un successo superiore al suo predecessore e conferma i Tool come uno dei gruppi più originali ed inclassificabili della scena americana.

1. ‘Lateralus’ (2001)

Il capolavoro dei Tool, la summa di un percorso purtroppo caratterizzato da una parsimonia che li ha resi celebri come uno dei gruppi meno prolifici e più attesi di sempre. ‘Lateralus’ è un trattato di numerologia, esoterismo, psicologia, matematica, alchimia, fisica, dimensioni esplose in dodici tracce che si dilatano tra brevissimi strumentali come ‘Eon Blue Apocalypse’ e lunghe suite come ‘Reflection’ e la stessa title track. ‘The Grudge’, ‘Schism’, ‘Parabola’, sorprendono per l’equilibrio in movimento costante di metriche e melodie. È qui che Carey raggiunge il culmine di un lavoro che non può più ridursi alla definizione di ritmica, perché in realtà le sue articolate partiture descrivono circonlocuzioni mutevoli nella metrica, nella dinamica e nel tempo; persino i suoi movimenti sono funzionali alla struttura delle canzoni, autentico sciamano dietro un impressionante armamentario di piatti e tamburi che governa possedendo lo spazio. Ed è sempre in ‘Lateralus’ che Keenan scrive alcuni dei suoi testi più enigmatici e complessi, figura non più riducibile in quel ruolo di frontman che peraltro rifugge con una ritrosia all’esposizione pubblica che diverrà proverbiale. L’emblema di ‘Lateralus’ è proprio la title track, un pezzo che meriterebbe uno studio separato tanti sono i livelli di lettura che propone. Il brano è costruito sulla sequenza di Fibonacci, sia nella metrica del testo, che in quella della musica. La durata delle battute, i tempi, la distribuzione delle sezioni, la lunghezza complessiva del brano, tutto ha una sua funzione esatta, nessun numero è lasciato al caso. E i testi riprendono suggestioni provenienti dal creazionismo aborigeno, dal cromatismo dell’LSD, dalla botanica e dall’ermetismo, tutto accomunato sotto l’analisi della figura della spirale. In questo album si realizza appieno la proporzione quadrilatera del gruppo, ennesimo rispecchio della sostanza nella forma, perché questo è l’album della sezione aurea e della spirale, indizi di quella perfezione misteriosamente disseminata nell’universo. E questo si traduce in un bilanciamento assoluto tra voce, batteria, basso e chitarra, in cui volutamente nessuno prende il sopravvento, perché il fine ultimo è la perfezione nell’equilibrio. ‘Lateralus’ è un’esperienza di ascolto che non ha precedenti e che conferma la portata unica della musica dei Tool.

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