I migliori 10 dischi dei Nine Inch Nails secondo Giovanni Rossi
Il 10/05/2018, di Giovanni Rossi.
In: Hammer Chart.
Abbiamo il piacere di ospitare sulle nostre pagine Giovanni Rossi, scrittore e critico musicale, massimo esperto al mondo del gruppo industrial metal statunitense Nine Inch Nails. La band del poliedrico Trent Reznor è, con tutta probabilità, una delle più amate e sperimentali al mondo, con il suo originale e caustico misto di metal, elettronica e industrial. E chi potevamo chiedere, se non a Rossi, autore del libro ‘Nine Inch Nails. Niente mi può fermare’ (Tsunami edizioni) di elencare in maniera oggettiva i migliori dieci album della discografia dei NiN? Buona lettura!
10. ‘Further Down The Spiral’ (1995)
Reznor nasce come manipolatore di suoni e nel corso della vita dei Nine Inch Nails sono state numerose le volte in cui ha accettato di rivisitare i brani di artisti in cerca del suo tocco. Allo stesso modo da parte sua, ha spesso voluto affidare i suoi lavori ad altri colleghi per vederli rielaborati secondo l’impronta personale di ciascuno, in particolare di quegli artisti di cui ha sempre avuto stima. “Further Down The Spiral”, pubblicato nel 1995, contiene undici ricostruzioni da componimenti di “The Downward Spiral”. Le firme sono quelle di J.G Thirlwell (Foetus), Jonh Balance e Peter Christopherson (Coil), Aphex Twin, Rick Rubin, Danny Hide e Dave Navarro. Il risultato complessivo trascende il concetto stesso di remix album, perché gli interventi si spingono molto in profondità, in alcuni casi sconvolgendo completamente la struttura del brano iniziale, ma è proprio questo il bello di “Futher Down The Spiral”. Non è la prima e non sarà l’ultima volta che i Nine Inch Nails pubblicano un lavoro di questo tipo, ma è certamente probabilmente l’opera più ricca di apporti e variegata.
9. ‘Ghosts I-IV’ (2008)
L’anno successivo a “Year Zero”, i Nine Inch Nails pubblicano l’album che non ti aspetti. Trentasei brani strumentali numerati progressivamente come “Ghosts”, di fatto un quadruplo mascherato da doppio, distribuito in digitale gratuitamente su licenza Creative Commons. Un’operazione che Reznor sognava da tempo, finalmente libero da obblighi contrattuali con etichette. “Ghosts I-IV” nasce in dieci settimane di pura improvvisazione e sperimentazione, senza alcuna preclusione o regola prestabilita, compagni di viaggio il produttore Atticus Ross, Adrian Belew (King Crimson), Alessandro Cortini e Brian Viglione (The Dresden Dolls, Violent Femmes), una brigata di assaltatori sonici di prim’ordine. L’assortimento strumentale che ne scaturisce è di conseguenza dei più vari e l’atmosfera complessiva dell’opera si avvicina a sonorità prettamente dark ambient. Se alcune tracce possiedono una forte identità individuale, altre sono poco più che veloci incursioni in idee accennate. Qui inizia in modo serio quel sodalizio con Atticus Ross che porterò il duo alle fortune dell’Oscar per “The Social Network” e ad una brillante incursione nel mondo delle soundtrack.
8. ‘And All That Could Have Been’ (2002)
I Nine Inch Nails sono una formidabile macchina live. Per poter comprendere al meglio la loro musica bisognerebbe averli visti dal vivo almeno una volta nella vita: un impatto frontale devastante, cariche a testa bassa sul pubblico, nessuna pausa, nessun calo di intensità, alla fine solo sudore, sfinimento e cocci di strumenti fracassati. Se purtroppo non esistono live ufficiali della memorabile performance a Woodstock nel 1994, “And All That Could Have Been” riesce ugualmente a rendere il concetto. Pubblicato nel 2002, il doppio registrato dal vivo durante il tour americano “Fragility v2.0”, offre sedici brani sia in CD che DVD che danno un’idea di ciò di cui sono capaci i Nine Inch Nails su un palco. La scaletta è un veloce viaggio che da “Pretty Hate Machine” a “The Fragile” attraversa i primi dieci anni di storia dei Nine Inch Nails. Sebbene le immagini non riescano sempre a rendere sul piccolo schermo l’intensità dell’esecuzione, la formazione è una delle più spettacolari che Reznor abbia mai avuto al suo fianco, con Robin Finck alla chitarra, Charlie Clouser ai synth, Danny Lohner al basso e Jerome Dillon dietro la batteria.
7. ‘Hesitation Marks’ (2013)
I Nine Inch Nails avevano fatto perdere le loro tracce nel 2008, con “Ghosts I-IV”. Reznor aveva deciso di dedicarsi alle colonne sonore e al progetto How To Destroy Angels insieme alla moglie ed al fido Atticus Ross, incentrato sull’esplorazione dell’elettronica in chiave ambient. Ma nel 2013 decide finalmente di tornare a riesumare i Nine Inch Nails. “Hesitation Marks”, quei tagli preliminari che chi sta tentando il suicidio prova per testare la propria determinazione, è una raccolta di quattordici brani che se da una parte presentano tematiche intimiste che si avvicinano a quelle lambite in “The Fragile” o violente come quelle di “Broken”, dall’altro rispolverano le sonorità più riconoscibili di “The Downward Spiral”. “Copy of a” e “Came Back Haunted” diventano subito due dei brani più acclamati nei live dei Nine Inch Nails. Se pure non raggiunge le vette di inizio carriera, “Hesitation Marks” è una prova genuina e viscerale, impreziosita dall’apporto di musicisti come Pino Palladino e ancora una volta Adrian Belew, un lavoro che si allontana dagli esperimenti dei tre album precedenti per tornare ad una proposta del suono Nine Inch Nails più tradizionale.
6. ‘With Teeth’ (2005)
Dopo “The Fragile”, ad un passo dal baratro, Reznor si rinchiude in un lungo isolamento per sconfiggere dipendenze e depressione. Ne esce nel 2005 con “With Teeth”, non più un concept, ma la raccolta di tredici brani molto più vicini al formato classico canzone. E subito diviene l’album più discusso dai fan dei Nine Inch Nails, accusato di eccessivo ammiccamento commerciale. In realtà “With Teeth” è molto più profondo di quanto si pensi, con temi tutt’altro che facili, arrangiamenti complessi e un tono complessivo viscerale, sanguigno. Ci sono meno clangori industriali e molto più rock, ma con quelle dissonanze e quelle metriche tipiche dei Nine Inch Nails. Ciò che è sicuramente cambiato è il mood di Reznor, meno pessimista, meno oscuro, ma dopo che hai guardato la morte in faccia e ne sei uscito non poteva essere diversamente. “The Hand That Feeds” diventa uno dei singoli di maggior successo di Reznor, “Only” si fregia di un video girato da David Fincher, “Right Where It Belongs” sembra una versione luminosa di “Hurt”. Reznor lascia tutti i vecchi compagni di ventura e rivoluzione la formazione live, con l’ingresso tra gli altri del chitarrista Aaron North e del nostro Alessandro Cortini.
5. ‘Broken’ (1992)
Dopo il successo di “Pretty Hate Machine”, la TVT vorrebbe una replica in chiave sythpop. Reznor non ci pensa neppure e si rifiuta di pubblicare qualsiasi cosa a nome Nine Inch Nails per diversi anni. Finalmente nel 1992 firma con la Interscope e rilascia l’EP “Broken”, un calcio nello stomaco che non potrebbe essere nulla di più distante dal predecessore. Commercialmente un suicidio, musicalmente un capolavoro che gli fa guadagnare nuove schiere di ammiratori e che allontana definitivamente l’alone pop. Otto brani violenti, fulminei, pregni di metal in chiave industriale. “Wish” si porta a casa un Grammy al grido di “fist fuck!”, lo stesso farà “Happiness in Slavery” con la performance di due anni dopo a Woodstock, la velocissima “Gave Up” diviene uno dei brani live più acclamati dei Nine Inch Nails. I suoni sono stridenti, le chitarre urlano, abbondano i campionamenti, la voce è affogata in stratificazioni noise. Reznor fa ancora tutto, affiancato alla produzione da Flood. L’anno seguente Peter Christopherson (Throbbing Gristle, Coil) girerà un corto che diviene subito leggenda, guadagnandosi a causa della crudezza delle immagini la fama di snuff movie.
4. ‘Year Zero’ (2007)
Complesso concept su un 2022 distopico, “Year Zero” è un album che trascende la sola dimensione musicale, divenendo un caso più unico che raro nel panorama rock. Reznor vuole raccontare a suo modo la preoccupazione per il futuro del suo Paese, la funzione propagandistica di internet, il desiderio di prevaricazione e controllo che i governi possono esercitare sui diritti individuali ed è da qui che nasce l’idea di un’esperienza che solo nella fase finale approda all’album. Si, perché “Year Zero” è un articolato alternate reality game che si dipana tra criptici messaggi stampati su magliette, chiavette USB disseminate nei bagni dei concerti, un reticolo di siti di fantomatiche case farmaceutiche e agenzie para governative, una caccia al tesoro che tiene i fan con il fiato sospeso fino all’uscita dell’album il 17 aprile 2007. Le composizioni abbandonano qualsiasi velleità melodica, riavvicinano sonorità pesantemente industriali e Reznor torna a seppellire quintali di dettagli sotto le stratificazioni delle tracce. Ogni brano è la descrizione di un momento della trama, con pezzi tra i più duraturi della discografia dei Nine Inch Nails come la cadenzata “Capital G”, la rituale “The Beginning Of The End” e la frenetica “Survivalism”. Un’operazione complessa, anticommerciale, oscura, la cui portata non verrà immediatamente colta.
3. ‘Pretty Hate Machine’ (1989)
Assistente in uno studio di registrazione, Trent Reznor ha la possibilità di farne quello che vuole durante le ore notturne. Il ventiquattrenne aspirante musicista ha diverse idee, ma nessuno secondo lui in grado di aiutarlo a realizzarle. Del resto, ha davanti a sé tutto ciò che gli serve, una sala d’incisione di cui conosce già ogni minimo segreto. E così nasce l’autarchico “Pretty Hate Machine”, anno di grazia 1989. L’album di debutto dei Nine Inch Nails è interamente composto, arrangiato, suonato, cantato e prodotto dal genio di Mercer, con l’ausilio di una piccola brigata di aiutanti pronti a fornire le proprie limature, tra cui il chitarrista e amico Richard Patrick, futuro fondatore dei Filter. Dieci brani che raccontano un nuovo modo di unire elettronica e metal, un ibrido che finisce etichettato sulle riviste musicali come industrial metal. L’opener “Head Like A Hole” resterà negli anni uno degli inni live dei Nine Inch Nails, “Terrible Lie” è il grido d’accusa scagliato contro la menzogna, “Sin” è un rapporto peccaminoso, tradito, sfigurato. In ciascuna delle dieci tracce Reznor mette a nudo un pezzo di se stesso, iniziando quel percorso di introspezione personale che lo condurrà fino a “The Fragile”. La voce di Reznor è lacerata, sofferta, dolente, violenta, con un timbro estremamente riconoscibile e personale. Nei brani c’è odore di Ministry e Skinny Puppy, ma anche Depeche Mode e Adam And The Ants, però i Nine Inch Nails per quanto giovani possiedono già un’identità che trascende i modelli. Il successo del debutto è clamoroso e porta i Nine Inch Nails ad un passo dalla scomparsa prematura, quando Reznor scopre che il contratto capestro firmato con l’etichetta discografica non gli lascerebbe l’autonomia artistica che lui reclama. Fortunatamente tutto si risolverà.
2. ‘The Fragile’ (1999)
Giunto all’apice del successo in seguito a “The Downward Spiral” e alla produzione di “Antichrist Superstar” di Marilyn Manson, Reznor si ritrova schiacciato da un male oscuro: la depressione. E scopre che la fama non è un lenitivo, anzi. Il dilemma che gli si presenta è semplice: uccidersi o continuare a comporre. E nel 1999 esce la sua risposta, “The Fragile”, un doppio album che dopo cinque anni di silenzio squarcia il velo di silenzio che aveva avvolto i Nine Inch Nails. Ventitré brani composti nell’isolamento selvaggio del Big Sur, in cui sale in cattedra il timbro melancolico del pianoforte, dove la furia di “The Downward Spiral” entra in una nuova dimensione, più matura, più consapevole. Si va dal metal di “Starfuckers, Inc.”, all’elegia strumentale di “La Mer”, passando per la ballata di “The Day The World Went Away”. “The Fragile” è uno dei punti più alti del corpus compositivo dei Nine Inch Nails, pregno di un’umanità che penetra ancora più in profondità il dramma di un uomo che non vuole arrendersi nonostante tutto. L’album che avrebbe potuto scrivere John Lennon, seduto al pianoforte in un angolo dimenticato della California.
1. ‘The Downward Spiral’ (1994)
– Il capolavoro dei Nine Inch Nails targato 1994 è un concept che entra diretto nella storia della musica. Quello che Roger Waters, non a caso citato da Reznor come uno dei suoi ispiratori, aveva fatto in “The Wall”, qui viene portato alle estreme conseguenze, senza reti di protezione, senza possibilità di ritorno o redenzione: Pink Floyd in modalità autodistruzione. Sadomasochismo, depravazioni, scarnificazioni, violenza, omicidi, ma anche e soprattutto il grido disperato di chi ha perso Dio, “The Downward Spiral” viene registrato al 10050 di Cielo Drive, la casa in cui la Manson Family aveva trucidato Sharon Tate, la moglie incinta del regista Roman Polanski. Non potrebbe esistere location migliore per fissare su nastro il baratro che sta ispirando Reznor, se poi si pensa che la casa è frequentata anche da un apprendista Marylin Manson, il quadro è completo. “Mr.Self Destruct” è il biglietto da visita di Reznor scandito da frustate e grida, “Closer” è il singolo che nessuna radio osa mandare in onda senza censura, “March of The Pigs” è la furia sacrilega di una generazione allo sbando, “Heresy” la disperata constatazione della morte di Dio, “Hurt” una poesia ineguagliata di intensità unica che verrà consegnata all’eternità dalla cover di Johnny Cash. Produzione e arrangiamenti giungono ad un livello di dettaglio maniacale, con un Chris Vrenna che passa mesi interi a immagazzinare centinaia di giga di campionamenti per estrapolare i suoni giusti con cui intarsiare i gioielli di Reznor. “The Downward Spiral” è una dolorosa discesa a spirale che non lascia scampo, quattordici gioielli intarsiati di rabbia, nichilismo e rara maestria, un album che ha segnato una generazione di ascoltatori e che ha indicato una nuova strada a centinaia di artisti.