Motörhead – (We Are) The Road Crew! Dietro le quinte del periodo classico

Il 14/01/2018, di .

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Motörhead – (We Are) The Road Crew! Dietro le quinte del periodo classico

Quattro studio-album, più un live, l’epocale ‘No Sleep ‘til Hammersmith’ del 1981 (un “unicum” assoluto se pensiamo anche al suo clamoroso successo di vendite, sbaragliando aspettative e concorrenza piazzandosi direttamente al primo posto delle charts inglesi, fatto più unico che raro appunto, specie poi per un album dal vivo), senza tralasciare lo storico, suggestivo EP ‘St. Valentine’s Day Massacre’, gioiellino nero pece confezionato in tandem con le Girlschool. Compositivamente parlando, questo sono stati i Motörhead nella loro incarnazione più classica, il trio per eccellenza Kilmister/Taylor/Clarke, quello che ha svezzato intere generazioni di appassionati e futuri musicisti, molti dei quali, dall’onda d’urto innescata dai tre, alzeranno più di un letale tsunami, basti pensare a Metallica e Venom, la prima coppia illustre che salta in mente, o a tutta la comunità hardcore punk e alle frange estremiste che pulluleranno ben presto tra Nord Europa e Stati Uniti.

La sacra triade, come l’ho sempre chiamata, debutta nel 1979 con ‘Overkill’, atto d’esordio per la Bronze, label che sarà quasi un marchio distintivo per i Motörhead degli albori, che proprio su questo loro secondo album (l’album omonimo, pubblicato un paio di anni prima dalla Chiswick Records, risulterà quasi un capitolo a parte) danno sfoggio di tutta la potenza di cui dispongono, in primis segnalandosi per uno stile rude e dirompente, però mai fine a se stesso e modellato attorno all’innovativo modus operandi del nume ispirativo Ian Fraser Kilmister, in arte Lemmy, ex Hawkwind, che suona il suo basso Rickenbacker e l’amplificatore Marshall con gli alti su e i bassi giù, più che un bassista, un feroce, istintivo chitarrista ritmico, maestro delle distorsioni e cantore di vita vissuta ai margini, sempre ballando sull’orlo del vulcano. ‘Overkill’ è un album pazzesco, un autentico pugno in faccia, con dentro alcuni dei classici più scintillanti dell’intera epopea Motörhead: dalla fremente title-track a ‘Capricorn’, da ‘Stay Clean’ al manifesto ‘No Class’, da ‘Damage Case’ a ‘Tear Ya Down’, alla micidiale ‘Metropolis’, l’aria che si respira lungo il corso dell’album è quella della rivolta urbana. Per chi scrive, ‘Overkill’ (affiancato al live ‘No Sleep ‘til Hammersmith’ e alla pietra miliare ‘Ace Of Spades’) rappresenta l’Opera Omnia, lo zenith assoluto di quella line-up stabilmente entrata nella leggenda, che proverà a ripetersi solo qualche mese più tardi con la release di ‘Bomber’, ma con minor successo, stessa intensità e virulenza, ma con qualche difetto in cabina di regia. Oppure, più semplicemente, troppa fretta nel voler dare alle stampe il loro terzo full-length che, comunque, al suo arco ha frecce acuminate. E pericolose.

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L’opener ‘Dead Man Tell No Tales’, la livida e impetuosa ‘Stone Dead Forever’ (con il suo ipnotico giro di chitarra a fare il verso al roboante basso di Lemmy, tra i brani più distintivi dei Motörhead primordiali), ‘Bomber’, classico che più classico non si può, e il rock’n’roll ruvido e sguaiato di ‘Over The Top’. Un poker d’assi (di picche, naturalmente…) che aggiunge sostanziosa carne al fuoco, per un album che, seppur meno brillante rispetto al precedente, traina il terzetto al successo, tra tournée in Patria e in Europa (durante le quali fa il suo debutto il celeberrimo caccia bombardiere da palco, una trovata scenica dall’effetto assicurato!), le numerose apparizioni televisive e la pubblicità che gli deriva dall’imminente esplosione della NWOBHM, in cui i Motörhead si ritrovano invischiati, quasi loro malgrado. Lemmy, anche se incuriosito, di tutta la carovana marcata New Wave Of British Heavy Metal ha grande stima per soli tre o quattro gruppi, trova speciali soprattutto Iron Maiden, Girlschool e Saxon. Senza dimenticare i Tank, quasi dei suoi figliocci per l’attitudine e lo stile musicale espresso. Tutte formazioni che, nell’immediato futuro, avranno molto a che spartire con i Motörhead… Motörhead che, e mai proverbio fu più appropriato, battono il ferro finché caldo, ci danno dentro a più non posso pur di consegnare entro la fine del 1980 – un anno basilare per tutto il movimento hard’n’heavy britannico, solo se pensiamo agli esordi omonimi di Iron Maiden ed Angel Witch (sempre su Bronze) e alla pubblicazione di ‘British Steel’ dei Judas Priest, altra uscita “nevralgica” in un mercato sempre più in ebollizione – il quarto, decisivo album.

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‘Ace Of Spades’, fin dalla esacerbata canzone leggendaria che ne porta il titolo, si rivela un disco fondamentale per i destini della band, completamente a proprio agio nella baraonda condotta a tutto spiano, con pezzi che decisamente contribuiscono a fabbricarne la reputazione, già di per sé poco “raccomandabile” – Love Me Like A Reptile’, ‘Jailbait’, ‘The Hammer’, ma soprattutto ‘The Chase Is Better Than The Catch’ e ‘(We Are) The Road Crew’, quest’ultimo autentico manifesto Motörheadiano, vero e proprio simbolo di appartenenza, le tracks che determinano la vittoria per K.O. del rude three-piece inglese, che si piazza al quarto posto delle charts di vendita. Il 1981 è un altro anno cruciale, in cui i Nostri si dilettano prima a “cazzeggiare” con le Girlschool con un EP che, a dire il vero, farà epoca: ‘St. Valentine’s Day Massacre’, dove i due gruppi si divertono a “scambiarsi” brani energici e coinvolgenti tipo ‘Emergency’, ‘Bomber’ e la cover di ‘Please Don’t Touch’ (Johnny Kidd & The Pirates). Sul fronte dei live, invece, la novità più importante è rappresentata dalla prima esperienza americana dei Motörhead, chiamati a far da supporto ai Blizzard Of Ozz capitanati da Ozzy Osbourne, l’ex frontman dei Black Sabbath rinvigorito da una formazione a dir poco stellare, con dentro elementi della classe di Randy Rhoads e Tommy Aldridge, per citarne solo due. Lemmy, l’America, la conosce già e fa quasi da guida ai suoi due compari, nel corso di un tour non lunghissimo, ma che si rivela di grande aiuto per i progetti futuri.

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E per il capolavoro che sta per arrivare… ‘No Sleep ‘til Hammersmith’ irrompe sulle scene a Giugno ’81 e conquista immediatamente la prima posizione della classifiche, consacrando definitivamente Lemmy, ‘Fast’ Eddie Clarke e ‘Philty Animal’ Taylor, increduli forse, ma ben consapevoli delle loro possibilità. Come scritto nell’incipit di apertura, il live album in questione è realmente un “unicum” nel settore, all’interno possiede tutto ciò che un disco dal vivo deve avere: intensità, sacro furore, magnetismo, una tracklist perfetta, una band potentissima e al massimo della forma e con un carisma a tutt’oggi ineguagliato. Esagero? Neppure per idea. ‘No Sleep…’ è IL live album per antonomasia, con dalla sua anche la curiosità del titolo non corrispondente al vero, dato che è stato registrato durante il Short Sharp Pain In The Neck Tour nelle date di Norfolk, Leeds, Newcastle e Belfast, e non all’Hammersmith Odeon di Londra, come invece recita il titolo! Anche questo, contribuisce a far leggenda… Cosìccome leggendario è il festival Heavy Metal Holocaust che si svolge in estate al Port Vale Football Stadium di Stoke-on-Trent, a cui i Motörhead partecipano come headliner in compagnia dei Blizzard Of Ozz di Ozzy, Triumph, Mahogany Rush, Riot e Vardis. E’ uno show monumentale, quello al Port Vale Stadium, che chiude un anno a dir poco trionfale, per una band che pare inarrestabile. Già, pare inarrestabile, poiché sono in arrivo i primi, sinistri scricchiolii… Rapidissimi sia nella stesura che nella registrazione, i tre nell’Aprile del 1982 sono in grado già di pubblicare il nuovo full-length album, ‘Iron Fist’, l’uscita probabilmente più debole dell’intero primo lotto Motörheadiano, ma la title-track stessa è e resta uno dei grandi classici di sempre, che vale forse l’intero disco.

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Ma la scena, purtroppo, è rubata dai primi contrasti tra Lemmy e ‘Fast’ Eddie che prima contesta al bassista un comportamento non proprio esemplare e professionale, durante delle date in cui l’ex Hawkwind collassa sul palco, per colpa di qualche “vizietto” di troppo. Ma la goccia che farà traboccare il vaso è la collaborazione che Lemmy mette in piedi con Wendy O. Williams, oltraggiosa vocalist dei newyorkesi Plasmatics, per una cover version di ‘Stand By Your Man’, con il divertente scopo di mettere alla berlina sia l’autrice Tammy Wynette, che l’ipocrisia e la falsità a volte imperanti in certi ambienti americani. ‘Fast’ Eddie Clarke non la prende per niente bene, e non solo si rifiuta di partecipare, ma decide di abbandonare la band nel bel mezzo della tournée, costringendola a correre in fretta ai ripari, con il reclutamento di Brian ‘Robbo’ Robertson, chitarrista scozzese con un illustre passato nei Thin Lizzy. Del controverso (ma bellissimo) ‘Another Perfect Day’ da lui inciso con il gruppo, magari tratteremo un’altra volta, coronando uno degli importanti passi della carriera dei Motörhead; certo è che, in ‘Fast’ Eddie Clarke, la coerenza è stata forse fin troppo precipitosa e fine a se stessa, se pensiamo a come è finita banalmente (e stupidamente) una delle formazioni più straordinarie dell’intera storia del rock’n’roll, il prototipo perfetto di come si suoni (superbamente) in tre…

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