Almanac – track-by-track di ‘Kingslayer’
Il 16/11/2017, di Dario Cattaneo.
In: Speciali Monografici.
In esclusiva per i lettori di Metal Hammer Italia, presentiamo un ricco track-by-track del secondo album degli Almanac, la nuova creatura di Victor Smolski, creata all’indomani della sua turbolenta uscita dai power metaller teutonici Rage. Forte di ben tre cantanti di estrazione e timbrica fortemente diversi, questa nuova creatura sinfonica si muove a cavallo di sonorità potenti ma anche ricche ed eleganti, da sempre un distintivo marchio di fabbrica del bravo chitarrista Bielorusso. Non ci resta che augurarvi una buona lettura e un buon ascolto di questo sontuoso ‘Kingslayer’!
‘Regicide’
Un’introduzione lenta e avvolgente, interpretata in modo maligno e teatrale da un bravo Andi B. Frank, ci ricorda fortemente il sound di alcuni Savatage o dei Jon Oliva’s Pain più eleganti, impressione peraltro confermata dallo scorrere del pezzo sulle prime più aggressive strofe. Il brano però evolve velocemente, aprendosi in corrispondenza di un bridge più arioso ed esplodendo finalmente in un grandioso ritornello che ci mostra subito tutta la potenza delle tre voci messe assieme. Nonostante il pezzo sia ben costruito e presenti al suo interno una sezione strumentale sicuramente interessante, basterebbe solo quel chorus per portare a casa un facile successo. Come primo brano, una scelta perfetta, anche se – vedremo – il meglio l’album ce lo deve ancora rivelare.
‘Children of The Sacred Path’
Dopo un primo brano dove erano pomposità e grandeur a farla da padroni, Smolski e gli Almanac decidono di mettere le cose in chiaro anche sul fattore velocità: su ‘Kingslayer’ non si scherza per nulla. Il pezzo in questione è la classica cavalcata power, con doppia cassa e spessi riff di chitarra a venire stemperati solo in parte dall’ultra fruibilità delle melodie e dai sontuosi arrangiamenti. Sebbene per forza di cose meno epico e coinvolgente dell’opener anche questo secondo brano si rivela molto funzionale dopo pochissimi ascolti, facendosi apprezzare per la sua posizione così precoce nella tracklist.
‘Guilty As Charged’
Ideale ponte tra i due volti che abbiamo visto finora di questo disco, ‘Guilty As Charged’ unisce la tendenza all’aggressività con la continua ricerca dei Nostri della soluzione elegante e magniloquente. A strofe e bridge molto tirate, al limite diremmo del thrash si alternano infatti momenti più ariosi, che possono essere riassunti in un altro grandioso ritornello interpretato come sempre all’unisono da Readman, Frenk e dall’attraente Jeannette Markewka. A differenza dei due pezzi che l’anno preceduto, che si concentravano su un unico aspetto del sound della band, ‘Guilty As Charged’ ci convince più che altro proprio per la naturalezza con cui la band riesce a cambiare registro senza perdere di credibilità.
‘Hail To The King’
Dopo l’ottima partenza cui abbiamo assistito finora, questo più compassato brano segna a nostro avviso il primo (e forse l’unico) passaggio a vuoto dell’intero album. Non che il brano sia costruito male, anzi, l’introduzione sinfonica si fa apprezzare senza difficoltà – solo che nel confronto con i brani precedenti le strofe, il prechorus e il ritornello risultano sicuramente più scontati e meno vincenti. Nel bene o nel male, questo episodio non aggiunge quindi niente a quanto ascoltato fino ad adesso, spingendoci più che a concentrarci nell’ascolto, a chiederci cosa ci aspetterà dopo.
‘Losing My Mind
Dopo la battuta d’arresto almeno sul fronte originalità rappresentata dal pezzo precedente, gli Almanac risollevano immediatamente le sorti dell’album con uno dei pezzi migliori del lotto. Grazie a un introduzione e ad arrangiamenti figli diretti della splendida ‘Empty Hollow’ dei Rage di una decina di anni fa, questo brano conquista immediatamente l’attenzione, portando finalmente in posizione principale sotto i riflettori proprio il compositore principale Smolski e la sua chitarra. Grazie a un riff davvero molto ficcante e ai già citati arrangiamenti il brano entra prepotente in testa, e quasi ci sembra superfluo il solito, efficacissimo, ritornello, anch’esso trai migliori dell’album. Un pezzo davvero magistrale.
‘Kingslayer’
Una volta salito sul palco, Smolski sembra non volerlo mollare. Inaspettatamente, la title-track non è infatti una vera e propria canzone, ma una strana intro atmosferica di quasi un minuto dove il compositore bielorusso fa correre un po’ le dita sulla tastiera del suo strumento preferito. Nessuna concessione però a un eccessiva tecnica fine a se stessa, sia chiaro! L’atmosfera del pezzo rimane infatti mistica e rarefatta, pronta ad esplodere nel giro di basso del prossimo, esaltante, brano.
‘Kingdom Of The Blind’
Come dicevamo un giro di basso, alternato a funzionali accordi suonati sulle onnipresenti tastiere, ci introduce questo brano, anch’esso tra gli highlight assoluti dell’intero lavoro. Similarmente a quanto accadeva su ‘Regicide’ e ‘Losing My Mind’, anche questa canzone capitalizza la propria fortuna sull’eccellente scelta dell’arrangiamento, sull’incredibile fruibilità e su un altro ritornello davvero ben riuscito. Come sempre, a parte la classe compositiva di Smolski, quello che fa la differenza su pezzi del genere è l’amalgama delle voci dei tre cantanti, diremmo unica nel suo genere. Con questo trittico dedicato quindi all’anima più pomposa e sinfonica dei Nostri, ci dirigiamo quindi tranquillamente verso le battute conclusive dell’album.
‘Headstrong’
Vi era piaciuta ‘Children of The Sacred Path’? Beh, se la velocità e il power metal più classico sono il vostro pane, ‘Headstrong’ vi sfamerà a lungo. Introdotta prima delle strofe da un intreccio chitarre/tastiera davvero ben riuscito, la canzone affida le proprie strofe a tutti e tre i cantanti, facendo cantare a ognuno una frase in un alternanza che ci convince da subito. Come prevedibile, quest’alternanza delle voci tende a scomparire in prossimità del precorus, per poi presentarsi di nuovo compatte e registrate una sopra l’altra nel nuovo, potente ritornello. Senza essere eccezionale, ‘Headstrong’ è un altro pezzo estremamente funzionale, che conferma l’alto livello della band anche sui pezzi in qualche modo legati a sonorità un pelo più scontate e inflazionate.
‘Last Farewell’
Dopo i ritmi indiavolati di ‘Headstrong’ i nostri piedi e le nostre teste si fermano bruscamente in presenza dell’unica vera ballad dell’intero lotto. Fortemente influenzata da sonorità folk e celtiche, questa sempre interessante canzone si appoggia ancora una volta sulle prestazioni dei tre cantati, David Readman su tutti. Sebbene anch’essa risulti alla lunga un po’ più scontata delle altre e soprattutto più debole a livello creativo rispetto agli highlights ‘Kingdom of The Blind’ e ‘Losing My Mind’, anche questa canzone si mantiene comunque interessante, lasciando il ruolo di unico filler alla già citata ‘Hail To The King’.
‘Red Flag’
L’album si chiude con un altro brano di symphonic metal dal respiro epico. Gli elementi sono sempre quelli: strofe più aggressive affidate alle tre voci, bridge e ritornelli più maestosi e corali e una massiccia base ritmica appoggiata sul riffing di chitarra ma ‘vestita’ di tastiere e sintetizzatori. A onor del vero ci aspettavamo forse un finale un po’ diverso, magari con un brano dalla lunghezza maggiore o più articolato, ma alla fine ci rendiamo conto che la caratteristica di questo brano è la stessa del disco intero e cioè l’apprezzabile capacità di racchiudere tanti elementi in uno span temporale che comunque tiene in considerazione la facilità di ascolto e la fruibilità.