Progspective (7) – Queensrÿche
Il 16/09/2017, di Andrea Schwarz.
In: ProgSpective.
Per la rubrica di questo numero la ‘folgorazione’ arriva da lontano, qualche giorno fa si è nuovamente palesata in tutto il suo splendore. Parliamo dei Queensrÿche autori in questi giorni di un paio di concerti in territorio italico, a Bologna prima, Fontaneto d’Agogna poi lo scorso 29/06/2017. Ma di quale folgorazione stiamo parlando? Qualcosa che per chi come il sottoscritto è una sacrosanta verità ogni volta che il nome e la musica della band statunitense risuona nelle proprie orecchie. Utilizziamo un aggettivo soltanto: innovazione. E già perché i Queensrÿche nel corso della loro carriera sono sempre stati un passo avanti componendo musica che ancora oggi è attuale, fuori da ogni schema anche se nella comune esigenza di etichettare la musica (o qualsiasi altra forma d’arte come nella vita quotidiana) i Queensrÿche sono stati definiti come prog. Ma è alquanto riduttivo, un qualcosa di forzato nato dalla voglia di apporre etichette nel creare generi e sottogeneri. Ma fin dai propri inizi il termine prog è solamente riuscito a descrivere la forza propulsiva ed innovatrice della loro musica piuttosto che la descrizione della stessa poiché non hanno mai fatto sfoggio di tecnica fine a se stessa, mai un eccesso di solismi o tonnellate di note fini a se stesse. Piuttosto una cura maniacale dei particolari, una volontà disco dopo disco di andare oltre i propri limiti cercando di stupire se stessi prima ancora che i propri fans sparsi per il globo. Fin dal primo album intitolato ‘The Warning’ del 1984 i Queensrÿche non suonano banalmente come mere copie dei più famosi Iron Maiden grazie a fini incastri di twin guitars del duo DeGarmo/Wilton come novelli Murray/Smith ma vanno oltre grazie ad atmosfere più darkeggianti, lyrics improntate su tematiche ispirate al pericolo della tecnologia digitale, un pò come avviene in films come ‘Blade Runner’ o ‘Terminator’ in anni in cui i computer stavano piano piano ma in maniera decisa prendendo piede nella società dei primi anni ottanta. Prendete ad esempio un brano come ‘NIM 156’ con l’iniziale ‘Machines have no conscience’ cantata dall’ugola di un Geoff Tate che si dimostra fin dagli esordi come uno dei talenti più cristallini del panorama musicale di quegli anni (e di quelli a venire). ‘No Sanctuary’ ha al suo interno uno dei tratti distintivi del loro songwriting, una ballad con al suo interno un flavour operistico ed un chorus magnetico. In ultimo ‘Take Hold Of The Flame’ e la conclusiva epicheggiante ‘Road To Madness’, la prima con il suo riff iniziale pulito ed una performance mostruosa di un Tate che con grande maestria riesce ad essere a suo agio sia sulle basse che sulle alte tonalità mentre nella seconda lo stesso Tate è alle prese con tematiche più personali che hanno a che fare con le malattie mentali, musicalmente gli arrangiamenti orchestrali di Michael Kamen donano profondità al brano anche se il loro utilizzo minimale non fu sfruttato in tutta la loro potenzialità. E’ quindi il loro voler essere al passo con i tempi a livello musicale utilizzando soluzioni stilistiche ancora inedite così come la voglia di esplorare tematiche che in quel determinato frangente non erano sulla bocca di tutti come oggi. Contestualizzando i temi ed il periodo storico in cui furono composti non è difficile comprendere il taglio quasi avanguardistico di queste nove canzoni. Non ‘contenti’ di quanto prodotto con ‘The Warning’, il percorso di crescita fa un balzo in avanti nel successivo ‘Rage For Order’ prodotto da Neil Kernon (Michael Bolton, Flotsam And Jetsam, Nevermore, Street, Kansas), un album maggiormente ‘guidato’ dalle tastiere piuttosto che dalle chitarre come avvenuto nel debutto. Anche in questo caso trattasi di un concept album incentrato su tre temi principali: amore, politica e tecnologia, filo conduttore che accompagnerà le undici composizioni qui presenti. La lavorazione alla base di un disco seminale come questo è stata accompagnata da una ricerca spasmodica dell’ambiente giusto nel quale poter registrare, due lunghe settimane furono necessarie solo per questo fine così come ben cinque giorni furono impiegati per trovare il giusto sound delle chitarre di DeGarmo / Wilton. Per capire quanto i suoni e le canzoni di ‘Rage For Order’ siano attuali ancora oggi a distanza di ben 31 anni basti ascoltare canzoni come ‘The Killing Words’ con il suo magnetico intro di tastiere, la voce sempre ispirata di Geoff Tate ed una coppia d’asce che regala melodie ad ogni singolo passaggio. L’espressività di Tate è qualcosa di disarmante, la sua capacità di muoversi tra tonalità alte alternate ad altre decisamente più baritonali rendono la sua voce unica ed inimitabile, ancora oggi è difficile scoprire talenti altrettanto cristallini. Al di là della pura tecnica che indubbiamente fa parte del bagaglio di tutti i musicisti qui presenti, il quintetto riesce a dosarla concentrandosi sul songwriting, sulle melodie che sono sempre orecchiabili ma mai banali, un bilanciamento perfetto ed una cura maniacale dei dettagli con un Tate che non solo canta i testi dei brani ma li interpreta in maniera teatrale. ‘Rage For Order’ brilla in canzoni come ‘Walk In The Shadow’, nella darkeggiante ‘Gonna Get Close To You’, nella tecnologica ‘Screaming In Digital’, nella maideniana ‘The Whisper’ a riprova in quest’ultimo caso di come si possa mantenere salde le proprie radici metal semplicemente reinventandosi grazie ad idee musicali che in tanti negli anni hanno cercato di far proprie. È con ‘Operation Mindcrime’ del 1988 che i nostri scrivono un’altra importante pietra miliare in campo, questa volta di diritto, prog metal, una storia ed una serie di canzoni che tanti hanno provato ad imitare, brani che anche decontestualizzati riescono a ‘camminare da soli’ pur essendo slegati dal contesto della trama. Chissà quale strana alchimia si possa creare in studio quando una band riesce a comporre musica così perfetta….sarebbe bello poter riavvolgere il nastro del tempo e ripiombare dietro al mixer per assaporare il gusto della storia. Di questo album si è scritto e detto di tutto, sarebbe oltremodo superfluo continuare ad incensare un disco che ancora oggi al pari di pochi altri riesce ad ammaliare vecchi e nuovi ascoltatori. Nel 1990 è la volta di ‘Empire’, un tassello importante della loro carriera che li ha visti affinare e modellare il modello proposto solamente due anni prima con ‘Operation…’, i suoni si fanno più puliti e cristallini che mai, il vero fiore all’occhiello è il songwriting a dir poco perfetto, le twin guitars di DeGarmo e Wilton fanno scuola mentre ancora una volta Tate si dimostra essere un interprete piuttosto che un cantante. Menzione particolare per la sezione ritmica di Eddie Jackson (basso) e Scott Rockenfield (batteria), più eclettico quest’ultimo rispetto alle precedenti produzioni, sempre preciso e mai debordante (ma dal prezioso contributo) il basso di Jackson. Anche qui è difficile estrapolare un singolo brano nella perfezione generale, citiamo ‘Silent Lucidity’, una ballad che grazie agli arrangiamenti degli archi possiede un’atmosfera fiabesca. E’ un disco che li proietta nell’Olimpo dei grandi, li catapulta nello starlight del music business portandoli il 27/04/1992 a registrare un set acustico per gli MTV Unplugged che in quegli anni erano un passaggio obbligato per chi si era ritagliato un posto al sole. Nel 1994 arrivano a comporre il loro album più darkeggiante e superprodotto, quel ‘Promised Land’ che è probabilmente il loro canto del cigno prima che prendano il sopravvento le loro velleità moderniste ed alternative sfociate in ‘Hear In The Now Frontiers’, ultima gemma dove possiamo gustarci songs come ‘Disconnected’ (con influenze da ‘Game Without Frontiers’ di Peter Gabriel), l’epica ed emozionale ballad ‘Someone Else’, la catchy ‘One More Time’, l’acustica ‘Bridge’ e l’heavy di ‘Damaged’. L’ultimo episodio dove brilla il genio incontrastato di questi cinque musicisti, un ultimo esempio di un talento senza confini prima di svolte moderniste e litigi che molti anni dopo portarono alla dipartita di Chris DeGarmo prima, Geoff Tate poi in modalità assolutamente deprorevoli che hanno lasciato strascichi per moltissimi anni. Tutto ciò non inficia il talento e la spinta innovatrice che molte delle loro produzioni hanno nel loro DNA, un gruppo che ancora oggi, riascoltando live le vecchie produzioni emanano una magia ed un carisma senza eguali.