The Library (3) – ‘Le Stagioni della Luna’: Viaggio esclusivo nella biografia degli Opeth attraverso le parole del coautore Eugenio Crippa

Il 14/10/2014, di .

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The Library (3) – ‘Le Stagioni della Luna’: Viaggio esclusivo nella biografia degli Opeth attraverso le parole del coautore Eugenio Crippa

Pronunciare il nome degli Opeth oggigiorno è assai rischioso. Il gruppo svedese si è guadagnato negli anni il proprio posto nel panorama metal internazionale, non senza polemiche. Da un raffinato genere estremo la band di Mikael Åkerfeldt si è evoluta sino a cambiar pelle, trasformando il loro sound fino a sconfinare appieno nel progressive, più rock che metal. Proprio questo mutamento stilistico è alla base della querelle che rende gli Opeth uno dei gruppi più discussi degli ultimi vent’anni, in un susseguirsi di perdite ed acquisizioni di schiere di fans. Fino a questo 2014 sembrava impossibile che una band di tale caratura non avesse una biografia in grado di spiegarne il percorso artistico; a supplire a questa mancanza sono stati due italiani, Eugenio Crippa e Filippo Pagani, che con un’attenta e scrupolosa indagine hanno stilato un minuzioso resoconto della carriera degli Opeth. Metal Hammer vi offre una descrizione esclusiva de ‘Le Stagioni Della Luna’ attraverso le parole di uno degli autori.

Ciao Eugenio! Benvenuto su Metal Hammer! Grazie per la disponibilità! Siamo qui per parlare del libro “Le Stagioni Della Luna” una biografia approfondita sugli Opeth. Vuoi presentare il libro ai nostri lettori?
“Le Stagioni della Luna” è un volume di 350 pagine che ripercorre l’intera storia degli Opeth, dalle origini alla primavera del 2014. È pubblicato da Tsunami Edizioni, casa editrice milanese che ogni lettore della vostra rivista dovrebbe conoscere, in quanto specializzata in pubblicazioni a sfondo musicale nel settore hard&heavy. Almeno un centinaio di pagine sono occupate da immagini e foto, molte delle quali ho personalmente scattato dal 2001 a oggi, nelle varie occasioni in cui ho incontrato la band.
Il libro è accuratamente organizzato. Puoi dirci da dove nasce l’idea e come è avvenuta la strutturazione dell’opera in fase iniziale?
Semplicemente, io e Filippo ci siamo scambiati delle idee a riguardo ed è stato chiaro sin dal principio che l’opera avrebbe seguito un ordine cronologico, con un capitolo dedicato ad ogni album, più un’introduzione alla scena svedese illustrata dal mio co-autore, che si è anche occupato della sezione sugli eredi musicali. La doppia prefazione, una mia intuizione, e l’inclusione delle battute finali in un appendice a parte sono invece idee nate sul finire dei lavori. I vari capitoletti infine sono stati aggiunti nell’intero periodo, quasi un anno, che abbiamo impiegato per scrivere: li trovo molto utili, in quanto aiutano a prendere fiato e a strutturare meglio la storia della band.
Riguardo alle numerose immagini presenti, dalle foto ai volantini, dalle recensioni ai manifesti. Era tutto di vostra proprietà, nel vostro archivio, o avete dovuto svolgere una ricerca più approfondita?
Disponevamo già entrambi di molto materiale raccolto negli anni, ma di ricerche aggiuntive ce ne sono state parecchie. Ci siamo rivolti a molti, da amici ad ‘addetti al settore’, non sempre con risposte positive: infatti, quando ho contattato il fondatore degli Opeth David Isberg o il manager della loro prima etichetta, questi mi hanno risposto di essere già stati precettati (il motivo lo trovate nella prossima risposta), mentre il copertinista Travis Smith è stato molto disponibile, e i suoi contributi sono stati posti all’inizio di ogni capitolo sotto le copertine di ciascun album. Molte scansioni di fanzine le ho recuperate in rete, un paio siamo invece riusciti ad ottenerle dai loro autori e rappresentano una vera esclusiva, dato che la prima nazione in cui gli Opeth furono esportati, nel lontano ’92, fu proprio l’Italia. Infine, sono io stesso l’autore di quasi tutti gli scatti dal vivo e diverse altre fotografie a corredo dei testi.
Puoi spiegare come è avvenuto il processo di scrittura in relazione ai contatti con la band? Ci sono moltissime dichiarazioni che spiegano ed ampliano la vostra narrazione…
Sin da quando li abbiamo visti la prima volta in concerto, io e Filippo abbiamo fatto in modo di mantenere dei contatti con gli Opeth, seppure non siano mai stati loro a rivolgersi a noi in primo luogo. Li abbiamo incontrati e intervistati più volte, e alcune citazioni sono perciò ‘nostre’, mentre altre vengono da svariate decine di riviste.
Ora, posso anche raccontare un aneddoto che risale allo scorso autunno. Chi segue gli Opeth dovrebbe sapere che anche il loro entourage è al lavoro su un libro ufficiale, che sicuramente non vedrà la luce prima del 2015. Nel settembre 2013 andai a vederli in concerto al Melloboat Festival, un evento prog svoltosi su una nave da crociera sul tragitto Stoccolma-Riga, e consegnai a ciascun musicista una busta contenente delle mie foto e delle domande a cui si chiedeva loro di rispondere per contribuire ulteriormente alla scrittura del libro. Inizialmente furono tutti entusiasti dell’iniziativa; due mesi dopo però scrissi a Mikael una mail a riguardo – nessuno aveva ancora risposto – e lui mi disse che pensavano di realizzare a loro volta una biografia ufficiale. Per questo motivo altri personaggi legati agli Opeth non poterono aiutarci nella ricerca di materiale addizionale. Ne rimasi davvero deluso; tuttavia eravamo già al lavoro da diversi mesi e non avevamo nessuna intenzione di rendere vani i nostri sforzi sino a quel momento.
Vorrei che illustrassi anche il significato del bellissimo artwork…
L’illustrazione di copertina è opera di Marco Castagnetto, un artista che aveva già realizzato appositamente la cover di un altro libro Tsunami, quello scritto da Stefano Cerati sull’analisi dei testi degli Slayer. Un giorno, mentre eravamo tutti riuniti in redazione, uno dei due boss della casa editrice visitò il sito web dell’artista imbattendosi in quell’illustrazione, che ci sembrò sin da subito ideale. Fu come trovare il commento sonoro ideale alla scena di un film. Opeth si traduce anche come ‘Città della Luna’, poiché il nome del gruppo viene da un libro di Wilbur Smith in cui si narra di una città chiamata Opet (la ‘H’ finale fu aggiunta da Isberg); perciò l’immagine del nostro satellite a sfondo di quella misteriosa fanciulla che regge un lumicino si addice perfettamente all’immaginario del gruppo svedese.
Lasciando da una parte le domande tecniche ora vorrei parlare con te del succo del libro. Ho percepito “Le Stagioni Della Luna” non solo come la biografia degli Opeth, ma anche di Mikael Åkerfeldt. È corretto?
Anche, sicuramente. Il punto è questo: Åkerfeldt è rimasto l’unico membro della prima formazione, se si esclude quella embrionale che nell’estate/autunno del ’90 non produsse sostanzialmente nulla fino al suo ingresso. Da quel momento lui è sempre stato il principale compositore di musica e testi, e dai primi mesi del ’97, quando la line-up di “Orchid” e “Morningrise” si dimezzò improvvisamente, non fosse stato per la sua tenacia dubito che gli Opeth sarebbero vissuti a lungo. La loro musica ha quasi sempre rispecchiato la sua visione e i suoi ascolti e, benché in molti siano particolarmente affezionati ad alcuni vecchi membri come Martin Lopez e Peter Lindgren, questi ultimi hanno quasi sempre contribuito a livello stilistico e non compositivo.
Tu, che oramai conosci bene l’artista, come lo definiresti?
Domanda difficile, dove rischio di fare la figura del fanboy. Tuttavia, parlavo di delusione poche righe fa: nessuno dei nostri idoli è perfetto, e averci avuto a che fare non ha fatto che confermare questa tesi. Non credo che Åkerfeldt abbia una personalità così multiforme: è un grande appassionato di musica che è riuscito a tradurre le proprie ‘visioni’ in qualcosa di unico, e a farne una ragion di vita. Da una decina di anni è anche un padre di famiglia, che però ha sempre privilegiato le faccende musicali a quelle casalinghe. Film, videogiochi e una passione maniacale per i vinili, di cui privilegia le prime stampe originali: non serve altro per definire il nostro uomo.
Se ti nomino Sörskogen, tu cosa puoi dire ai nostri lettori?
Si tratta di un sobborgo di Stoccolma in cui Åkerfeldt è cresciuto e a cui è sempre stato legato, tanto che diversi servizi fotografici degli Opeth sono stati realizzati in quella specifica area. È anche il nome di un suo progetto, che purtroppo ha fruttato una sola canzone cantata in svedese, “Mordet I Grottan”, registrata con l’aiuto di Dan Swanö. È sufficiente cercarla su YouTube per poterla ascoltare: non ha avuto alcun seguito, ma la melodia del ritornello fu poi utilizzata in “To Rid the Disease” (dall’album “Damnation” del 2003).
Fra i passaggi da un’etichetta discografica all’altra, secondo voi, cosa hanno dato, e soprattutto tolto, le varie label agli Opeth?
Sicuramente ogni etichetta ha contribuito ad accrescere la popolarità del gruppo, che esordì in sordina su Candlelight nel periodo in cui gli Emperor realizzavano i loro capolavori. La Peaceville, che pubblicò solo “Still Life”, non fece molto di più, mentre fu su Music For Nations che cominciarono a fioccare le proposte di tour in Europa e USA. A questo comunque va aggiunto il lavoro sapiente di un management senza il quale gli Opeth non sarebbero mai diventati una band professionale a tutti gli effetti. Il passaggio alla Roadrunner, infine, fu visto da molti come uno svendersi a una multinazionale del metal, mentre per gli Opeth servì unicamente a garantire una maggiore esposizione; nemmeno la RR ha mai avuto alcun tipo di controllo sul songwriting degli svedesi.
Alla seconda parte della domanda non credo vi sia risposta: nel caso degli Opeth il ruolo delle etichette è sempre stato esclusivamente quello di promuovere dei dischi i cui contenuti erano insindacabilmente appannaggio della band e di nessun altro. Certo, è necessario talvolta un compromesso, perché un’etichetta discografica è un’attività a scopo di lucro, che per sopravvivere necessita di vendere dischi e incassare. Ma tale compromesso in questo caso non è mai stato artistico, semmai promozionale. Videoclip, single edit e simili, sono degli standard di cui gli Opeth farebbero volentieri a meno.
Due nomi: Dan Swanö e Steven Wilson. Spiegaci sinteticamente come hanno influenzato l’opera del gruppo svedese…
So di dire una mezza eresia, ma l’influenza di Dan Swanö è stata davvero limitata nel caso degli Opeth. Certo, si era formata una solida triade artistica tra lui, Opeth e Katatonia nel periodo ’93-’96, ma mentre la band di Jonas Renkse e Anders Nyström necessitò davvero di aiuti consistenti per trovare una propria identità – si pensi alla varietà delle loro release di quegli anni – Åkerfeldt e soci hanno sempre avuto le idee chiare e Swanö fu inizialmente scelto perché… costava poco! “Orchid” e buona parte di “Morningrise” erano costituiti da vecchio materiale suonato in sala prove fino alla nausea, e che necessitava di essere finalmente registrato.
Il contributo di Steven Wilson è stato decisamente più marcato ma, ancora una volta, come ben spiegato anche nel libro, non è assolutamente una sorta di ghost writer che gli Opeth si portano dietro da “Blackwater Park”. La voce secondo cui Wilson mettesse mano a tutto ciò che Åkerfeldt ha scritto si è radicata a tal punto che ho letto recensioni in cui si nominava il musicista e produttore inglese anche in dischi in cui non ha per nulla messo mano.
Qual è stato il ruolo del prog italiano nella storia degli Opeth?
Per farla breve: Il prog italiano è semplicemente uno dei moltissimi ascolti di Åkerfeldt – nonché oggetto di collezionismo sfrenato – e in quanto tale una delle molteplici influenze nel sound degli Opeth, dopo il death metal a cavallo tra anni ’80 e ’90, l’heavy metal classico di Judas Priest e Iron Maiden e il rock progressivo inglese, da quello dei grossi nomi alle formazioni più oscure (una fra tutte: i Comus). Probabilmente la passione per il prog nostrano è nata più avanti, e infatti è molto più presente negli ultimi lavori che nei dischi d’esordio.
Questa è una domanda obbligatoria: il mutamento (comunque avvenuto gradualmente, come si legge nel libro e non così improvviso come sembra dall’esterno) del sound degli Opeth, avvenuto in maniera clamorosa con “Heritage”. Dacci una breve descrizione di esso, o un tuo parere se preferisci.
Ci sono fondamentalmente due tipi di gruppi: quelli che, incastonati in un genere, sono sostanzialmente costretti a riproporre sempre la solita minestra, e quelli che agiscono in maniera opposta. Con tutte le possibili considerazioni del caso, credo sia obiettivo riconoscere a quale categoria gli Opeth appartengono. Con “Heritage” il passaggio è stato avvertito molto di più, dato che il precedente “Watershed” fu uno dei lavori più ‘duri’ pubblicati dal gruppo, e il fatto di proporre un tour del tutto spurio del tipico growl death metal ha ancor più inasprito le critiche da parte degli ascoltatori.
Credo che in quel momento, all’alba del decimo disco, gli Opeth abbiano voluto essere sé stessi al 100%. Per alcuni si trattò di rinnegare le proprie origini, per altri di una naturale evoluzione. Forse, se c’è qualcosa su cui si può andare d’accordo, è il fatto che la musica degli Opeth non mette mai d’accordo veramente nessuno!
Domanda trabocchetto e odiosa: L’album preferito e perché?
Detesto le classifiche e paragonare tra loro i vari album, non necessariamente degli Opeth, perché ciascun lavoro ha qualcosa che altri non hanno. Diciamo che sono affezionato a “Still Life” più di tutti gli altri perché è con quel disco che li ho conosciuti veramente, prima avevo solo ascoltato qualche brano isolato.
Nell’appendice dedicate spazio agli ‘eredi’ degli Opeth. Dicci qual è secondo te il gruppo che in questo momento rappresenta meglio lo stile del gruppo svedese, magari scegliendo fra gli italiani.
Sarò sincero fino in fondo: il capitolo sugli eredi non è opera mia, e personalmente non vedo alcuna necessità di individuare un nome che più di altri si rifaccia al sound, non solo degli Opeth, ma di qualsiasi gruppo. Il Made in Italy è veramente sterminato, e vi sono molte realtà musicali che, fossero appunto nate in un terreno fertile e attento come quello svedese, non resterebbero semisconosciuti a un pubblico che in generale preferisce affollare gli stadi davanti a Metallica e Iron Maiden, salvo poi lamentarsi in continuazione che non c’è nulla di nuovo in giro.
Dovendo scegliere un nome fra tutti, comunque, sul versante progressivo consiglio ai vostri lettori di informarsi su Fabio Zuffanti e i suoi progetti: La Maschera di Cera, Höstsonaten, l’omonima release de L’Ombra della Sera e il suo recente album solista “La quarta vittima”. Provate poi a sbirciare all’interno dell’attuale scenario stoner / sludge / psichedelico, è un panorama infinito in cui la personalità degli artisti riesce a emergere ben più che in altri contesti.
Ultima domanda: Il tuo parere, le tue impressioni su “Pale Communion”!
Semplicemente, non esisterebbe miglior definizione per l’espressione ‘naturale evoluzione del disco precedente’. Di “Heritage” restano le clean vocal e certi suoni della chitarra distorta, ma mentre quel disco fu registrato con un equipaggiamento anni ’70, “Pale Communion” si rifà al decennio successivo. I brani sono meno strutturati, ma non per questo radio-friendly, e inoltre l’album si chiude con l’accoppiata di “Voice of treason / Faith in others” che ritengo uno dei picchi emotivi più intensi della carriera degli Opeth.

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