The Cure – Songs Of A Lost World
Il 18/11/2024, di Alessandro Ebuli.
Lo so, siamo una rivista metal, eppure talvolta viriamo su alcuni “Out of metal” che riteniamo importanti. La nuova uscita dei Cure fa parte di quelle imprescindibili, vuoi per i lunghi sedici anni trascorsi dal precedente album di inediti, vuoi perché è innegabile che i Cure abbiano influenzato moltissime band all’interno del panorama metal, ‘Songs Of A Lost World’ non poteva non catturare l’attenzione anche di Metal Hammer. Il nuovo album di Robert Smith si presenta denso di quelle sonorità che il fan più accanito della band inglese attendeva da molto tempo e che negli ultimi discutibili album mancava fin troppo. L’ovvietà del caso è semplice, quindi togliamoci subito il dente: ‘Songs Of A Lost World’ riparte esattamente dal punto in cui si chiudeva ‘Blooflowers’ del 2000, il quale iniziava esattamente dall’ultimo solco di ‘Disintegration’ del 1989. In mezzo, come già detto, album più o meno controversi. Fino a qui siamo tutti d’accordo? Bene. Allora proseguiamo senza pregiudizi e analizziamo l’album. Anzitutto le sonorità sono figlie dirette di quei due album clamorosi, ma qui tutto si fa più denso e armonico al contempo. La solitudine di Robert Smith si avverte fin da subito nell’iniziale parte strumentale di ‘Alone’, primo singolo della nuova opera. Smith qui ci mostra quanto la sua inquietudine e la sua solitudine vogliano essere trasferite all’interno del disco. La canzone inizia come una condanna (This is the end of every song that we sing… cold and afraid, the ghosts of all that we’ve been) e la solitudine dell’individuo e dell’autore inizia a prendere forma.
Ciò che in primis si avverte dalle sonorità del nuovo album è senza dubbio l’ideale prosecuzione di un progetto che ad oggi possiamo considerare una trilogia – intima, profonda, emozionale – in cui la musicalità rimanda a ‘Disintegration’ per le parti più melodiche, i cui singoli fenomenali ma dal carattere inquieto e introspettivo erano stati partoriti da una mente giovane, e continua con le sonorità intensamente gotiche e decadenti di ‘Bloodflowers’ di un uomo conscio delle proprie potenzialità e certo di avere scritto pagine inarrivabili della musica; è qui che ‘Songs Of A Lost World’ si inserisce e chiude l’ideale trilogia, con brani uniti da una forte sensazione di circolarità, lungo un flusso compositivo che mai come oggi suona tutt’altro che nostalgico ma perfettamente consapevole di un futuro oscuro e decadente, quasi lui stesso lo avesse previsto con i suoi oscuri album già negli eightes.
‘I Can Never Say Goodbye’ indaga sul dolore della perdita (il brano è stato scritto per la morte del fratello di Smith); è la perdita di un proprio caro il punto focale del brano, ma se analizziamo l’album nella sua totalità si parla di un dolore collettivo, fisico, emozionale, universale. Tutto il mondo si sta sgretolando, tutto cade a pezzi e Smith centrifuga ogni propria sofferenza per farci pensare, riflettere, per risvegliare le anime galleggianti nell’oblio che questo tempo delirante ci ha fatti diventare.
In ‘Warsong’ si avverte una stratificazione di suoni e chitarre distorte all’inizio del brano, e se qui la canzone ci porta a pensare alle guerre combattute dai soldati al fronte, è legittimo immaginare una guerra interiore vissuta da Smith speculare alle guerre realmente combattute, come se l’umanità stesse vivendo la propria guerra interiore in una sorta di contrappasso dantesco.
‘Drone: Nodrone’ si interroga invece sulla tecnologia, sul controllo massmediatico oramai imperante – lo era forse già negli anni ottanta, ma la percezione di quell’enorme pericolo non era la stessa di oggi -, con una ritmica nervosa e incalzante, mentre ‘And Nothing Is Forever’ è una dichiarazione di intenti a partire dal suo titolo (But all this time alone has left me hurt and sad and lost). Ancora decadenza, ancora dolore e solitudine e la parola nothing che ricorre spesso nelle liriche di ‘Songs Of A Lost World’.
‘Endsong’ ha una lunga parte introduttiva strumentale che sembra voglia, con la sua batteria circolare e ipnotica, trasportarci in un nuovo mondo immaginario che Smith sembra avere costruito per difendersi dal futuro; a circa metà, tre quarti del brano le parole Alone in the dark ci arrivano in faccia come un pugno, e il brano si conclude con la parola nothing ripetuta più volte, come per ammonirci sul futuro che incontreremo da oggi in avanti. Non c’è niente là fuori, nothing, e lo canta manifestando un dolore intenso che non ammette repliche.
Il quadro crepuscolare dipinto da Smith è negativo, le canzoni dell’album riflettono sul passato e si interrogano sul futuro, senza nostalgia, senza rimpianto, soltanto con un grande timore per ciò che verrà, in cui si azzerano le speranze e si fatica a vivere la quotidianità. C’è tutto uno spaccato emozionale interiore dentro questa nuova opera di Smith, forse l’opera definitiva di una lunga e fenomenale carriera.
Alienazione e consapevolezza del fatto che il mondo sia arrivato al limite del sopportabile è ciò che Smith ci racconta, e con la sua tipica decadente vocalità lo urla senza paura. Si tratta di una nuova apertura alla vita. Un’apertura consapevole, affranta, sofferta, ma ragionata e finalmente riversata all’interno dei solchi di un disco.
Che ‘Songs Of A Lost World’ piaccia o meno fa poca differenza, si tratta di un disco estremamente importante per i Cure; non soltanto un ritorno, ma un desiderio, una necessità di raccontare a tutti in quale baratro stiamo precipitando.
Zio Bob, avevamo tutti bisogno di te.
Tracklist
1. Alone
2. And Nothing Is Forever
3. A Fragile Thing
4. Warsong
5. Drone: Nodrone
6. I Can Never Say Goodbye
7. All I Ever Am
8. Endsong
Lineup
Robert Smith: Vocals, Guitar, Keyboards
Simon Gallup: Bass
Jason Cooper: Drums
Roger O’Donnel: Keyboards
Reeves Gabrels: Guitar