Sleep Token – Take Me Back To Eden
Il 01/02/2024, di Francesco Faniello.
Gruppo: Sleep Token
Titolo Album: Take Me Back To Eden
Genere: Post Rock/Metal
Durata: 63:31 min.
Etichetta: Spinefarm Records
Avete mai letto ‘Alta Fedeltà’ di Nick Hornby, o visto il film? Io sì: libro e film mi furono prestati da una ragazza con cui uscivo e che identificava il sottoscritto col personaggio di Rob Gordon (non ci voleva molta fantasia, in effetti) essendo inoltre fortemente infatuata di John Cusack, finché piombai tra le braccia dell’equivalente romanzata/cinematografica di Charlie Nicholson/Catherine Zeta-Jones, con in più l’aggravante dei capelli biondi, che di converso ebbe subito da ridire sulle cassette recanti i loghi di Nirvana e Led Zeppelin, tra le altre cose. Il finale potete immaginarlo: era troppo, anche per le spalle larghe di un nuotatore mancato; però all’epoca un lascito musicale non poteva mai mancare, e in questo caso parliamo di un CD masterizzato di una delle compilation Café del Mar che tanto andavano all’epoca in ambito chill out – quella col remix dei Bush, per i più curiosi tra voi.
Ecco, gli Sleep Token sono come quelle sonorità, e volte le ricordano pericolosamente da vicino: modaioli fino al midollo e a tratti fortemente irritanti, ma irresistibili come la slot machine animata di un vecchio episodio di “Ai confini della realtà” o come… beh, avete capito. E dire che quando la caporedattrice mi ha affidato il compito di indagare su quello che è a tutti gli effetti il fenomeno Spotify dell’anno appena trascorso ho cercato di scappare nella maniera più anacronistica possibile, a suon di ‘Terrible Certainty’ o di ‘Eternal Nightmare’ – che poi quest’ultimo era proprio il disco thrash metal che conteneva più di tutti il germe insospettabile dell’evoluzione che ci ha portati fin qui, conteso tra Demmel e il suo insospettabile sparring partner. Insomma, è proprio vero che dal proprio passato non si sfugge, come insegnano sia “Mai stata baciata” che “Final Destination”, per non parlare del Freccia interpretato da Stefano Accorsi, e che non posso certo arroccarmi in una comoda difesa in stile “non è metal”, come avevo fatto inserendo il flag “out of metal” nella prima stesura di questo articolo. Non è improbabile che questa sia una delle propagazioni del metallo del futuro, qualcosa che ha nel suo gotha già qualcos’altro che quelli come me fanno fatica a considerare “metal”, quindi figuriamoci.
Vero è che non potremo continuare a utilizzare l’etichetta “post” all’infinito, quindi tanto vale accettare di essere entrati in una nuova era e simpatizzare con le studentesse di Arte che crediamo sbavino dietro ai Paramore mentre questi ultimi sono per loro giù preistoria, correndo come fanno dietro alla next big thing coadiuvate dai tempi di TikTok e del colosso verde di cui sopra. D’altronde sono da tempi non sospetti un accanito sostenitore dei Ghost, senza chiedermi quanto metallo ci sia o non ci sia nella loro formula, quindi sono già a buon punto per farmi accettare nella nuova società segreta dei mascherati, che beneficia sicuramente di luci di palco glaciali e misurabili con i gradi Kelvin, visto che le buone vecchie T-Shirt con i loghi dei DRI o dei Voivod erano di per sé insufficienti a mantenere una temperatura corporea sostenibile, figurati questi costumi elaborati che – leggo – qualcuno cuce addirittura di propria mano.
A proposito, per evitare di buttare tutto in un unico calderone dirò subito qual è la differenza sostanziale tra i due combo mascherati del momento, a parte le due distinte sponde del Mare del Nord: i Ghost prendono a piene mani da tutto ciò che è amarcord, passato, tradizione, mescolandolo in maniera ancor più irriverente della loro formula testuale e apparendo per questo invisi agli occhi dei puristi; gli Sleep Token prendono dalla dispensa borchiata i riffoni, un po’ di growl messo qua e là e ciò che rimane del concetto di “progressive”, mescolandolo a una base di rigorosa contemporaneità, in cui l’autotune è un’opzione di pari dignità dello screamo e le tastiere eteree che tanto piacciono al pop di tutti i decenni un elemento imprescindibile.
Se l’iniziale ‘Chokehold’ strizza l’occhio al movimento prog post-contemporaneo, ‘The Summoning’ ha sin dall’incipit i Tool come punto di riferimento, con in più un accorato lirismo nelle linee vocali che è proprio dei nostri tempi senza confini tra il pop(ular) e l’esclusivismo elitario che tanto ci piace sciorinare. Altro episodio da comfort zone è l’ex modernismo da Super Rock di ‘Vore’, ma già dal successivo ‘Ascensionism’ Julia Valet avrebbe trovato pane per i suoi (veri) denti, con l’emulazione albionica di Coolio che lascia spazio a quei cori che fanno tanto Enigma, per poi conquistarci con quell’accordo di tonica con la quinta in buona evidenza e continuare in evoluzioni korniane su cui Jonathan Davis avrebbe detto volentieri la sua in un reboot della Regina dei Dannati.
Sì, lo so, sto usando spudoratamente le “mie” categorie per descrivere qualcosa che cerca di darsi un tono futuristico, alla stessa maniera di quel video dei Night Flight Orchestra in cui c’è la tipa che si riprende con una telecamera antidiluviana, ma è pur vero che una ballad tanto acclamata come ‘Are You Really Okay?’ è collocabile negli Anni Venti solo grazie agli arrangiamenti (dei cori, in particolare) e al sound, laddove cinquant’anni fa si sarebbe chiamata ‘Thank You’ e magari trent’anni fa ‘No Rain’. In più, da ‘The Apparition’ in poi si ha la netta impressione che la nostra stessa pazienza sia messa a dura prova; anzi, in particolar modo da ‘TVUMDB’… oops, ‘DYWTYLM’, oscena senza possibilità di redenzione, e dite a Vessel I e Vessel II che in quanto ad atmosfere caraibiche nessuno è superiore agli Equilibrium di ‘Die Affeninsel’!
Insomma, secondo il mio personalissimo parere in questa seconda parte il colosso Sleep Token (perché continuo a pensare ai Token Entry?) vacilla pur tentando un recupero su basi assolutamente inconsistenti con ‘Rain’, dove tutto mi ricorda Seal, che faceva già meglio di così tre decenni fa, godendosi il bacio della rosa. E la title track? Nelle intenzioni, siamo al post/dopo/after progressive degli spazi siderali, ma l’effetto è quello di una rotella delle frequenze radio un po’ troppo instabile, mentre a 7:17 Vessel I si ricorda che sto scrivendo quest’articolo dalla curva dimensionale dove si è autocollocato dopo che Ikaris si è precipitato nel Sole, tirando fuori il growl delle vecchie occasioni, un po’ come il metallino della domenica pronto ad andare a vedere la cover band dei Pantera al pub sotto casa indossando la sua maglietta preferita.
Ah, che bello: c’è la ballad conclusiva con cori gospel che neanche Whoopi Goldberg, ma nulla riuscirà a convincermi che l’ispirazione per quel pianoforte in apertura non sia ‘(Everything I Do) I Do It For You’ di Bryan Adams, e il disco è bello che giunto a conclusione.
Manca ancora qualcosa, vi do ragione, ed è la dimostrazione di come un simile progetto per “bucare lo schermo” non abbia bisogno di appoggiarsi su definizioni tirate per la collottola come “metal”, “pop” o simili. Anche se mi avrete bollato come il dinosauro di turno, non posso fare a meno di sottolineare che ‘Aqua Regia’ è per me il punto più alto di questo ‘Take Me Back To Eden’, l’episodio che svetta davvero, quello che tra l’altro fa lievitare il mio giudizio in centesimi di almeno tre unità, con una linea vocale degna della migliore Skin (un’ottava sotto, ovviamente) e con le sue influenze jazzy/world music su arrangiamenti di piano che non avrebbero sfigurato nei momenti più intimisti di Peter Steele, in un universo parallelo in cui si fosse lanciato nella carriera solista. Un incedere che si pianta in testa, e che non può non riportarmi indietro a “quella” estate: ecco, questo sì che potrebbe entrare in un’ipotetica Top Five di gordoniana memoria.
Per il resto, che dire… riaffermiamolo pure, let freedom ring with a shotgun blast!
Tracklist
01. Chokehold
02. The Summoning
03. Granite
04. Aqua regia
05. Vore
06. Ascensionism
07. Are You Really Okay?
08. The Apparition
09. DYWTYLM
10. Rain
11. Take Me Back to Eden
12. Euclid
Lineup
Vessel I: vocals, guitar, bass, keyboards
Vessel II: drums