Protest The Hero – Palimpsest
Il 26/10/2020, di Roberto Sky Latini.
Gruppo: Protest The Hero
Titolo Album: Palimpsest
Genere: Progressive Metal
Durata: 52 min.
Etichetta: Spinefarm Records
Questo è il sesto album da studio per gli elettrizzati canadesi, che non hanno mai calmato la loro estetica compositiva. Questo lavoro, come quelli del passato, vive di velocità, scatti e passaggi iperdinamici. L’approccio, in quanto ad energia e arrembaggio, è sempre molto adolescenziale, semmai possiamo individuare nella perdita del punk e degli afflati più scuri il loro avanzare d’età; ma ciò non li acquieta. Il virtuosismo è alto come al solito, e non è stato abbandonato il loro modo di vivere il sound che li ha caratterizzati in maniera ipertonica con gli schizzi causati dai continui cambi di ritmo e le taglienti pennate chitarristiche.
Non ci sono mai aperture ariose vere e proprie a causa del susseguirsi nervoso dei riff, ma il primo pezzo ‘The Migrant Mother’ in qualche modo, grazie al cantato, appare aperto e solare, piuttosto Metalcore come impostazione. Uno dei pezzi forti è però ‘From The Sky’ la cui chitarra liquida sostiene una voce ampia, dal pathos sentito, in opposizione a vari passaggi che scuriscono l’atmosfera. La stessa ottima bontà compositiva si percepisce immergendosi nella variegata e dilatata ‘Reverie’, dalla qualità è incontestabile. Quando si scatenano maggiori durezze, come in ‘The Fireside’ o ‘Gardenias’, l’adrenalina inizia a prodursi in maggiori quantità, ma nella prima il gioco della vocalità schizzata si stempera in un ritornello orecchiabile che non ci sta male e però manca di un accento che mantenga la tensione; mentre nella seconda c’è un ponte soft che fa da calmante, ma qui tale pennellata morbida è maggiormente pregnante. Il senso di riconoscibilità di una canzone non è sempre immediato; nelle varie tracce ci sono attimi che riescono a caratterizzarsi ma servono più ascolti, come sempre del resto, nonostante sia un disco più accessibile dei precedenti. Proprio l’ultimo brano ‘Rivet’ sembra quello più facile da memorizzare, ed è un altro dei momenti topici dell’intera opera (strano che le canzoni migliori siano quelle più lunghe). I momenti strumentali di ‘Harboreside’; ‘Mountaiside’ e ‘Hillside’, lunghi ognuno solo un minuto circa, appaiono poco utili ai fini dell’opera globale; certo il loro suono placido permette un attimo di riposo, ma si tratta di pezzi leggermente banali, così brevi e monotematici da apparire slegati dal contesto; giusto l’ultimo, ancora più corto, sembrava promettere qualcosa.
La band non contiene nulla del Mathcore punkeggiante dell’ormai lontano primo album ‘Kezia’ del 2005; in quel senso ruggente si esprimeva maggiore personalità. Anche quando si aumenta il tono cattivo di certe song e si usa un raro ma presente growling (come in ‘Soliloquy’), non si entra mai nello spirito punk della band che fu. Va in ogni caso considerato che le aperture, quelle davvero più melodiche, sono ben combinate e regalano un solido piacere. La capacità di dipingere coi suoni rimane una peculiarità di valore. Oggi non è scomparsa nel combo la loro valenza di base, ma sembrano più dei Dream Theater accelerati, diventando un gruppo più normalizzato. E non mancano anche piccoli accenni alla Rush, loro compaesani. Altre volte potremmo avvicinarli alla produzione moderna degli arrangiamenti italiani alla Mularoni, si sente un valido afflato modernista che di sicuro li fa più attuali dei nomi citati prima. Certo bisogna saper suonare per essere performanti con il loro repertorio, e ciò vale anche per la musica presente in questo album. Ma fortunatamente non c’è alcuna caduta, il disco funziona e mantiene le promesse sia tecniche che di songwriting, mescolando raffinatezza pensata e istinto emotivo, anche se quest’ultimo viene sistematizzato e controllato da una intelligenza strutturale. I testi parlano dell’America attuale, valutandone bellezza e negatività, un parlare che non vuole cercare banalità, così come la musica che non è né sempliciotta né semplicistica (né lo è la bella copertina). Non sorprenderà chi li conosce, ma sono sicuro che chi li dovesse ascoltare la prima volta, rimarrebbe stupito favorevolmente anche da questo full-lenght.
Tracklist
01. The Migrant Mother
02. The Canary
03. From The Sky
04. Harborside
05. All Hands
06. The Fireside
07. Soliloquy
08. Reverie
09. Little Snakes
10. Mountainside
11. Gardenias
12. Hillside
13. Rivet
Lineup
Rody Walker: vocals
Luke Hoskin: guitars
Tim MacMillar: guitars
Mike Ieradi: drums
Guests:
Cameron Mclellan: bass
Milen Petzelt-Sorace: orchestra arrangement