Rammstein – Rammstein [o quello col cerino in copertina]
Il 18/05/2019, di Alex Ventriglia.
Dieci anni sono un lasso temporale importante, per certi versi può rappresentare un vero e proprio “snodo” specie per chi si raffronta con una carriera musicale di rilievo e con il gusto (impietoso) di masse oramai freneticamente abituate a fagocitare tutto e il contrario di tutto, un’ambivalenza questa che, spesso, finisce per annacquare senso critico e capacità analitica, per non dire del reale costrutto artistico. I Rammstein, con la baldanza tipica dei grandi gruppi, tentano di scavalcar l’ostacolo con assoluta nonchalance, ma gli anni trascorrono per tutti, vien da ammettere che il tempo è stato tiranno anche per i berlinesi se è vero che, sotto la patina luccicante e un battage da consumati mestieranti, l’omonimo e nuovissimo studio-album pare raschiare il fondo del barile, cercando invano un’ispirazione che si rivela spesso preda di ben altre intuizioni, che forse non ritenevamo facenti parte del bagaglio musicale di Paul Landers e compagni. Chi scrive il six-piece tedesco lo conosce dagli inizi di carriera, dai tempi immemori in cui i Rammstein non erano neppure distribuiti in Italia, ragazzotti dalle potenzialità enormi, astri emergenti in una Germania ancora carica di conflitti e presi in simpatia al di là dell’oceano grazie a una collaborazione con il regista David Lynch (che di fatto sdoganò il nome Rammstein negli States, inserendolo dentro la colonna sonora di ‘Strade Perdute’, tra i film più controversi del visionario regista già autore di capolavori quali ‘Twin Peaks’ e ‘Velluto Blu’), ma che, sul Vecchio Continente, erano rarissima merce per pochi, roba underground ma con smanie espansionistiche. Oggi è il colosso Universal, ma allora la label si chiamava PolyGram e non pochi furono i suoi colpi di genio, tra i quali anche quello di importare in Italia il sestetto di Berlino, freschissimo autore del dirompente ‘Sehnsucht’, album che, legato al successivo e “gemello” ‘Mutter’, a mio modo di vedere rappresenta l’Alpha e l’Omega dell’intera epopea rammsteiniana. I berlinesi invasero definitivamente Milano, e l’Italia, sul finire degli anni Novanta, con un incendiario showcase aperto anche al pubblico tenuto dentro allo storico locale milanese di via Besenzanica, conosciuto sia come Rainbow, che con il nome di Prego Club, Metal Hammer fu tra gli invitati speciali dell’evento e il sottoscritto il cronista che seguì il “blitzkrieg” italico della truppa capitanata da Till Lindemann. Fatto sta che, praticamente un ventennio dopo, i sei di Berlino provano quasi a rimettersi in gioco, lasciando che sia il clamore innescato dai primi due singoli, ‘Deutschland’ e ‘Radio’, a fare il “lavoro sporco”, dando immediatamente in pasto ciò che i fans a gran voce reclamano, mentre il grosso resta nelle retrovie, con una spiccata, determinante vena intimista che paga sì pesante dazio all’ispiratissimo frontman, ma che, nell’insieme, tarpa forse le ali all’intero progetto in sé. In molti passaggi, i Rammstein non li abbiamo quasi riconosciuti, i ritmi hanno rallentato, di brutto, e le polveri sembrano essersi inzuppate, alla ricerca di un qualcosa di diverso o, più semplicemente, di una quadra che stavolta non sembra funzionare. Ci sta. Soprattutto quando il tempo accumulato tra un album in studio e l’altro inizia ad esser decisamente troppo, si rischia di andar fuori registro, uscendo dai propri binari. Forse sarò drastico, ma i Rammstein ci hanno abituato ad altri standard, e ritrovarli così, dopo ben due lustri di attesa, lascia l’amaro in bocca e alimenta più di un dubbio.
Tracklist
01. Deutschland
02. Radio
03. Zeigh Dich
04. Ausländer
05. Sex
06. Puppe
07. Was Ich Liebe
08. Diamant
09. Weit Weg
10. Tattoo
11. Hallomann
Lineup
Till Lindemann: lead vocals
Richard Z. Kruspe: lead guitar, backing vocals
Oliver “Ollie” Riedel: bass guitar (1994–present)
Paul H. Landers: rhythm guitar, backing vocals
Christian “Flake” Lorenz: keyboards, samples, synthesizers
Christoph “Doom” Schneider:drums