Metallica – Hardwired…To Self-Destruct
Il 13/11/2016, di Stefano Giorgianni.
Gruppo: Metallica
Titolo Album: Hardwired...To Self-Destruct
Genere: Heavy Metal, Thrash Metal
Durata: 77 min.
Etichetta: Blackened
Distributore: Universal
Una Lectio Magistralis, quella impartita dai Metallica con il nuovissimo ‘Hardwired…To Self-Destruct’, release discografica attesa spasmodicamente da milioni di fans sparsi in tutto il mondo. Un album che ha dalla sua tutta l’ispirazione dei migliori Metallica, ma anche più di una zona d’ombra, una su tutte la loro incapacità a esser sintetici. Nelle parole di Alex Ventriglia e Stefano Giorgianni l’analisi e la critica di un album a dir poco clamoroso.
ANALISI di Alex Ventriglia
Anno Domini 2016. I Four Horsemen tornano a cavalcare i loro fedeli destrieri, pronti a scatenare l’Apocalisse con un nuovissimo album, sintomatico già dal suo titolo, ‘Hardwired… To Self-Destruct’, destinato a sconvolgere il mercato discografico, fin dalla sua data di uscita, il 18 di novembre. Un album che sarà fondamentale. Che è tuttora fondamentale. Soprattutto per la smania della band californiana di voler ravvivare gli antichi ardori, incendiando quel sacro fuoco passionale a volte messo a repentaglio, quasi in pericolo, per colpa di mosse artistiche che spesso possono sembrare fuori logica. Chi scrive è un irriducibile fan di lungo corso, che dei Metallica ha vissuto sia la genesi che l’esplosione su scala mondiale, per non dire dei loro trascorsi da autentici pionieri del thrash metal californiano, l’assalto all’arma bianca comandato da ‘Kill’em All’ resterà per sempre impresso dentro ognuno di noi, idem dicasi per la prima volta che li vidi suonare dal vivo, di spalla ai Venom. Erano un gruppo punk, i primi Metallica, con molti rudimenti ancora da apprendere, un leader silenzioso ma prezioso qual era Cliff Burton, e una furia iconoclasta che non aveva eguali in quegli anni di ribellione adolescenziale. Ma che fossero dei predestinati, già si vedeva, determinazione ferrea e piena consapevolezza dei propri mezzi, le chiavi di volta del successo planetario di cui ancora godono James Hetfield & Co. I quali per ‘Hardwired… To Self-Destruct’, undicesimo studio-album, hanno lavorato volutamente in sordina, spesso in presa diretta proprio per agevolare quel sintomatico flusso di energia che soltanto l’immediatezza può garantire, assistiti alla produzione da Greg Fidelman, e ben consci di ciò che vogliono i loro fans. Questa è stata la parola d’ordine. L’incipit dominante, il modus operandi alla base di tutto il progetto che, al centro, ha riportato un sound gravido di urgenza ed elettricità, dinamismo e potenza, ovverossia quanto trabocca da buona parte dei dodici brani dell’album – doppio, della durata di 80 minuti circa – album di grande calibro, prodotto in maniera superlativa, e dalle enormi aspettative quindi, visto il compito a cui è chiamato. Poco alla volta, il quartetto ha smontato il “fortino” di protezione eretto attorno ‘Hardwired…’, lasciando che fossero i social network a lavorare a livello promozionale, funzionali ai massimi livelli sia le prime dichiarazioni rilasciate, che, ovviamente, i videoclips dei nuovi brani, per un effetto totale, dirompente, che ha innescato i primi dibattiti, alimentando speranze fortissime. Come in fondo è anche giusto che sia, per una band di tale, gloriosissimo blasone. Della title-track, che tra l’altro è anche il brano di apertura, tutto è già stato detto, il suo affondo si rivela primario, viscerale nell’impartire i dettami, nell’indicare la via maestra, la sacralità e l’ispirazione che fuoriescono dall’album sono le stesse degli anni d’oro. È questo a fare la differenza, l’entusiasmo scorre a fiumi quando si capisce che, stavolta, i Metallica hanno interpretato alla perfezione il loro ruolo. Scudisciate veementi (‘Moth Into Flame’, brano in grado di rivaleggiare già con i loro grandi classici, oppure ‘Spit Out The Bone’, che per la sua posizione finale e una rabbia intrinseca mi ricorda non poco la storica ‘Dyers Eve’) e mid-tempos possenti, si susseguono numerosi gli excursus di stampo NWOBHM – non soltanto i sempiterni Diamond Head, ma è l’intero, inconfondibile “british steel” a farla da padrone, dentro un album spumeggiante per la botta di energia generata – sia che si tratti di ‘Now That We’re Dead’, della grandiosa ‘Am I Savage’, oppure di ‘Confusion’, tra le più “inglesi” del lotto. Più che per i brani presi singolarmente, ‘Hardwired…’ entra in profondità grazie a un magma sonoro scurissimo e quasi integralista, ma, purtroppo, va spesso a discapito di una fruibilità di certo non facilitata. A mio modo di vedere, questo è l’unico neo che si porta dietro l’album, un neo non da poco, se vogliamo spaccare il capello in quattro, poiché i quattro californiani si perdono volentieri dentro labirinti di note su note, spesso ridondanti, a volte meno, in canzoni che avrebbero maggior presa se solo durassero la metà. Ma questo è un loro antico vizio, che si perde nella notte dei tempi, mai avuto il dono della sintesi, Lars e i suoi compari.
I quali, e non credo di poter esser smentito, ci regalano forse il degno successore del regale ‘Black Album’, illustrissimo spartiacque della loro carriera e autentica stella polare per tutti coloro che amano il metal di altissima qualità. Eversiva.
RECENSIONE di Stefano Giorgianni
Iniziamo subito con un’affermazione per rompere il ghiaccio: il titolo ‘Hardwired…To Self-Destruct’ i Metallica l’hanno scelto di proposito. Questo perché la prima parte (il disco uno, per intendersi) è un collegamento diretto con i fan e con la propria storia, con lampi e tuoni che discendono da ‘Kill ‘Em All’ fino a ‘Death Magnetic’, spesso composizioni senza fronzoli, come i Quattro della Bay Area sanno fare, sia di mestiere che di cuore. La seconda parte (disco due), invece, è un esempio di autodistruzione, di come portare una release pressoché eccellente nello spazio del nulla cosmico, con un’accozzaglia di note che, pur se ben disposte, non si imprimono nella mente di chi ascolta. Avrete quindi ben capito che cos’è questa nuova fatica dei Metallica; un’opera incompiuta, forse volutamente, anche se i nostri mai ce lo diranno.
Questa è la premessa necessaria per andare a trattare uno dei dischi dell’anno, se non valore almeno per importanza, questo perché, così come accade quando gli Iron Maiden si accingono a rilasciare un nuovo full-length, il grado di euforia e attesa sale alle stelle non appena si vocifera dell’uscita di un’imminente fatica dei Four Horsemen. Per prima cosa è necessario dire che i Metallica ci sanno fare e ci credono, anche se alcuni pezzi possono apparirvi meno ispirati (cosa che pensa pure il sottoscritto), siamo certi che James Hetfield & Co. abbiano dato tutto loro stessi nella scrittura dei brani e che non abbiano lasciato nulla al caso, in quanto sanno sempre cosa fare e quando farlo, nonostante alcune scelte possano portarli contro i fan più affezionati (vedasi lo strappo o la rottura ai tempi di ‘Load’ e ‘Reload’, o del ruvido ‘St. Anger’). In ‘Hardwired…To Self-Destruct’ c’era un po’ la volontà di tornare alle origini, o forse sono state le stesse radici ad aggrapparsi ai quattro californiani (anzi, ai tre più uno se consideriamo Lars un danese autoctono) e a esigere ciò che gli spettava, trascinando i Metallica a ritroso nel tempo e regalandoci dei thrasher [pur non al 100%, siamo comunque onesti] che ci hanno fatto innamorare oramai molti anni fa. Sì, perché molti di voi (se non tutti) avranno potuto godere nell’ascoltare ‘Hardwired’, ‘Moth Into Flame’, la stessa ‘Atlas, Rise!’, pezzi che vanno per sound da ‘Kill ‘Em All’ a ‘Ride The Lightning’, facendoci intravedere scorci di ‘…And Justice For All’. Riff ruvidi, tempi scalmanati ed esacerbanti sono il succo di queste tracce che non scontenteranno (speriamo) nessuno e segnano un ritorno all’approccio diretto dei Four Horsemen, finalmente, si potrebbe dire. Poi si aggiungono ‘Now That We’re Dead’, traccia elegante con una batteria che, nei primi secondi, sa di elettronico e con un appeal oscillante fra il Black Album e ‘Load’/’Reload’, pezzo fa pensare a una frase “sì, siamo i Metallica del thrash, ma anche quelli dell’heavy ammiccante e orecchiabile”. ‘Dream No More’, penultimo brano della prima parte, è un intruglio stoner/sludge-sabbathiano, a dir la verità un pezzo veramente godibile, che dimostra l’eterogeneità di ‘Hardwired’. Il sound porfirico e decadente di ‘Dream No More’ va a contrapporsi all’epicità di ‘Halo On Fire’, che, nonostante gli otto minuti di durata (cosa che ci ha spaventato non poco), ci mostra dei Metallica ispirati e in grande forma, cosa che ci porta a pensare che si stiano per candidare seriamente al disco dell’anno, per merito non per riconoscenza.
Poi però cosa succede? Arriva la seconda parte, dove i Quattro decidono di autodistruggersi deliberatamente, già con la prima ‘Confusion’, di cui si salva solo l’introduzione, per poi trasformarsi in uno scontato tributo ai Diamond Head, che, pur se ben confezionato, risulta abbastanza indigesto, boccone che rimarrà impigliato nell’esofago quasi fino alla fine del disco. Una lunga marcia mid-tempo verso l’ignoto, questa è l’espressione che potrebbe riassumere il polpettone confezionato dai Metallica in questa seconda sezione di ‘Hardwired…To Self-Destruct’, partendo dai sottili echi maideniani (poi caduti nel vuoto) in ‘ManUNkind’, transitando per l’introspettiva ma non entusiasmante ‘Here Comes Revenge’. Da ‘Am I Savage’ le sorti del disco (forse) si rialzano con un pezzo che sembra discendere da un vicino passato, avendo in ogni caso poca presa e su cui oscilla quell’annosa ombra del “già sentito” che mai giova a una canzone di qualsivoglia artista. ‘Murder One’ si salva su una zattera (in mezzo a all’oceano) solo grazie ai rimandi e alla dedica al compianto Lemmy, siamo sempre nell’ambito dei mid-tempo che si trascinano come uno zombie alla fine e ci fanno sperare che il pezzo finisca in fretta. ‘Spit Out The Bone’ ci risveglia con il suo tempo irrefrenabile i riff veramente da pelle d’oca, a dimostrare che siamo ancora in vita, tanto noi quanto i Metallica. Pezzo quest’ultimo che fa un po’ incazzare, in quanto sarebbe stata molto più azzeccata una seconda parte così tirata, magari poco elaborata e più ignorante per far diventare ‘Hardwired…To Self-Destruct’ un album quasi indimenticabile.
In conclusione, ‘Hardwired…To Self-Destruct’ meriterebbe due giudizi, uno per la prima parte, un 90 limpido per schiettezza e qualità, e uno per la seconda, un 60 stiracchiato solo per qualche spunto decente e per ‘Spit Out The Bone’. Facciamo dunque una sorta di media assegnando un 77 con enorme rammarico e rimpianto per qualcosa che potrebbe essere stato ma che non è, lasciandovi con un interrogativo finale: Perché non rilasciare solamente la prima parte e mettere la seconda come bonus-disc per i più temerari? Attendiamo i vostri pareri…
Tracklist
CD1
01. Hardwired
02. Atlas, Rise!
03. Now That We’re Dead
04. Moth Into Flame
05. Dream No More
06. Halo On Fire
CD2
01. Confusion
02. ManUNkind
03. Here Comes Revenge
04. Am I Savage?
05. Murder One
06. Spit Out the Bone
Lineup
James Hetfield: vocals, guitars
Kirk Hammett: guitars
Robert Trujillo: bass
Lars Ulrich: drums