Inchiuvatu + Agghiastru + Lamentu @ Defrag, Roma,18 ottobre 2024
Il 01/11/2024, di Maurizio Buccella.
Quando inizi ad accumulare un numero sufficiente di anni alle spalle ti rendi conto che la vecchiaia di base è triste perché finiscono le prime volte. Per questo, laddove ti capita di incappare nell’ esperienza in grado di spiazzare, quando pensi di aver visto tutto (per lo meno nei settori in cui ci pensiamo navigati) accogli quell’ emozione come un dono dall’inferno.
Io sono entrato per la prima volta nel Teatro Tetro un venerdì di ottobre flagellato dalla pioggia. Malgrado si trovi dentro il Raccordo è in genere piuttosto facile parcheggiare nei pressi del Defrag, per cui sono riuscito ad entrare senza sembrare troppo reduce dalle olimpiadi di nuoto coi vestiti. Sapevo già che lo show degli Inchiuvatu sarebbe stato sui generis eppure, quando mi vedo il palco trasformato in una scenografia teatrale – con tanto di insegne luminose, croci, tendaggi trasparenti, con un teatrino dei pupi al centro – sarà l’abitudine de centinaia di palchi “ordinari” ma mi riesce difficile non sentirmi come se, rientrato dal lavoro, avessi trovato una giostra al posto del tavolo del salotto con unicorni di legno in luogo delle sedie.
I primi a salire sono i Lamentu, le cui ombre incappucciate si affacciano sul palco tra le volute cremisi dei fumi sulle note dell’intro, poi il riff iniziale di ‘Liack’ si fa strada tra i vapori. Liotrum inizia a ringhiare una nenia, macera di odio, da dietro il cappuccio bianco che lo fa sembrare una figura della Semana Santa naufragata direttamente in un incubo. I pezzi si susseguono scanditi dalla sezione ritmica di Totò Vulgata, che odora di chiodi dentro carni sudate e danze sciamaniche dentro tempeste di sabbia. Il tutto accompagnato dalle massicce linee di basso di Iblis, così vibranti di echi death che, se socchiudi gli occhi, ti sembra di vedere demoni ballare sulle corde arroventate.
Complice lo spazio angusto, ritagliato entro gli spigoli della scenografia, sul finire dell’esibizione Liotrum urta col gomito l’imponente croce di legno, su cui campeggia in alto la scritta INCH, senza riuscire a bloccarla prima che caracolli sul pubblico. – La croce è caduta a Roma. – sentenzia il frontman tra le ovazioni del pubblico, mentre riposiziona il crocifisso sconfitto da culti esotici. Poi riparte fino alla chiusura dell’ esibizione.
Africa all’interno. Autunno fuori, ma qui siamo lontani dalle ottobrate romane. La pioggia continua incessante, raffreddando le magliette sudate nell’aria pungente. Durante la pausa i fumatori si accalcano nello spazio ristretto sotto la tettoia. Non potendo scegliere tra fumo e acqua torno dentro in attesa del secondo atto.
Sto ancora cercando l’unico amico non fumatore, presente alla serata, quando il brusio alle mie spalle si muta in grida d’allarme. Mi volto in tempo per vedere una coppia di uomini robusti trasportare una figura inerte verso il palco. L’uomo si alza con lentezza, rivelando alle luci dei riflettori una testa da fantoccio, avvolta nella stoffa dipinta con lineamenti rudimentali. Si guarda intorno, spaesato, per poi barcollare dietro le quinte. È qui che ho sentito la prima frattura rispetto al copione standardizzato degli show in ambito metal – il gruppo sale, esegue la scaletta, il pubblico esulta, all’occorrenza poga, ecc – che preclude alla totale polverizzazione di tutti i cliché del genere. L’uomo smarrito è solo la prima di una serie di maschere che si alterneranno in una giostra di identità fantasmatiche in cerca di affermazione attraverso gli occhi del pubblico.
Sulle note dell’intro ‘Esta’ Agghiastru torna sul palco con addosso un cappello dalle falde costellate di campanelle, a celare una maschera in legno in cui, ora che solleva il mento per intercettare il microfono, si rivela la caricatura dei suoi tratti. La chitarra mastica il riff in odore stoner di ‘Ecce Homo’ opener dell’EP omonimo, intervallato da strofe gridate come maledizioni lanciate nei secoli a venire.
Da lì in poi i pezzi si alternano a momenti recitati, all’occorrenza accompagnati da campanacci, così come gli svariati personaggi si alternano sul palco, da ciclopi al demoni, passando per la marionetta in lacrime sanguigne sulla cover art di ‘Viogna’. L’azione si sposta spesso ai vari angoli del palco, deviando in continuazione l’attenzione degli spettatori. Da un lato la tastiera incorniciata dietro una tenda trasparente da cui, nei pezzi solo piano e voce, sembra di spiare dall’unica finestra illuminata di una villa infestata dove le note si librano dai tasti sfiorati da dita spettrali. Sul lato opposto la sezione ritmica continua a forgiare i binari su cui corrono quasi tre ore di live. Al centro campeggia il rettangolo del teatro dei pupi, che si anima di figure stranianti negli interstizi tra i vari cambi di scena, come schegge oniriche dentro un sogno più vasto. Malgrado la durata non ci sono momenti morti. Tutto scivola fluido nella sensazione di galleggiare tra mondi che si sfaldano e mondi che prendono forma.
In genere nei live report si organizza il testo in tanti paragrafi, con tanto di setlist, quanti sono i gruppi nel bill, ma qui queste regole non valgono, perché l’ultimo set in realtà è la diretta estensione del precedente. Se coi Lamentu si vedevano teste oscillare al ritmo tribale della loro macelleria rituale, ora il pubblico è in ipnosi totale. Ma si ridesta quando si illumina la scritta INCHIUVATU che domina sulla scenografia. Agghiastru, ora in completo nero, attacca il riff di ‘Inchiuvatu’ tra le ovazioni sotto il palco. Segue ‘Cu sangu a l’occhi’ ma l’apice dell’estasi rubata sotto gli amplificatori, per me, arriva solo con ‘Ave Matri’. Da brividi, in conclusione, la versione solo piano di ‘Addisiu’ intonata dal pubblico “come ai concerti di Renato Zero” ironizza Agghiastru. Come anticipavo all’inizio la forza dello spettacolo sta nelle sue potenzialità trasformative. Le persone che entrano non sono le stesse che escono perché, tra un brano e l’altro, vengono gettati semi di riflessione che, seppur avvolti in significanti carnevaleschi, abbracciano temi esistenziali. L’aggressione all’ordine delle aspettative avviene non solo attraverso suoni e immagini ma anche tramite una serie di movimenti psicologici che toccano il pubblico nel vivo delle paure collettive, ora angosciando, ora rassicurando. Emblematico il passaggio dell’offertorio verso il pubblico. Si distinguevano visi spaesati – in effetti 15 euro di ingresso per l’impianto scenico messo in piedi al Defrag sono irrisorie a fronte della media di 30/40 euro per molto meno – prima di realizzare che offerta era a loro beneficio.
Al termine di tutto – spettacolo, concerto, teatro – si è fatta l’una passata, con un mondo di cose da smontare. Ciononostante i musici si fermano col pubblico a condividere impressioni e sigarette. Mentre scompongono il Teatro Tetro la folla si riconsegna alla pioggia. Tutti con lo stesso gomitolo di emozioni aliene da digerire nell’attesa dell’alba.
Fotografie: FotoReporter X /INCH Productions