Hellfest @ Val de Moine, Clisson, 27, 28, 29 e 30 giugno 2024

Il 15/10/2024, di .

Hellfest @ Val de Moine, Clisson, 27, 28, 29 e 30 giugno 2024

Dans l’Enfer

L’Hellfest, per chiunque ci vada o l’abbia vissuto almeno una volta, è un’esperienza trascendentale, un Festival nel suo genere unico al mondo e che da qualche anno a questa parte è diventato un “rendez-vous” assolutamente imprescindibile. Costi quel che costi, ma l’appuntamento a Clisson non può e non deve mancare, per il contesto e per l’ambientazione, per l’atmosfera che si respira e per il “cartellone” a dir poco monumentale, con un “cast” di nomi che forse puoi trovare solo all’Hellfest, per varietà e per importanza. Ma andiamo per ordine, di carne da mettere al fuoco ce n’è in abbondanza…

Giovedì 27 giugno

Per il sottoscritto, atterrato a Nantes solo da qualche ora, aprire l’Hellfest 2024 con una sua vecchia conoscenza, vale a dire Marc Grewe ex frontman di Despair e soprattutto Morgoth, il quale un tempo lavorava come label manager alla Century Media degli anni d’oro (quando l’etichetta con base a Dortmund dettava legge grazie a Moonspell e Tiamat, The Gathering e Samael, apprestandosi infine a lanciare i Lacuna Coil su scala mondiale), è stato speciale ed emozionante! Già, perché sono i suoi Asinhell chiamati a “bagnare” la kermesse francese inaugurando di fatto il Mainstage 01 e, da vecchio lupo di mare qual è, l’amico Marc si rivela superbamente all’altezza del compito, patrocinatore di un death metal dal flavour antico, ma ben innervato di soluzioni moderne. L’Hellfest risponde alla grande, ruggisce d’impeto, e per Marc e i suoi ragazzi è una grandissima soddisfazione, a Clisson non si scherza mica…

Il primo giorno, all’Hellfest, è sempre quello dell’assestamento, si prova a prendere confidenza con un Festival che bisogna imparare a gestire, se si vuole arrivare in fondo ai suoi quattro lunghi giorni di durata, nonostante tutto il comfort e le agevolazioni che comunque l’Hellfest garantisce. Un Festival che però parte sempre col botto, grazie a quelle sorprese che in Francia non mancano davvero mai, con tutti quei gruppi che quasi se la contendono gelosamente, la partecipazione all’Hellfest. Per il prestigio, certo, ma non solo per quello.

Mi viene immediatamente da segnalare lo show pazzesco degli Slaughter To Prevail – pazzesco sia per l’intensità trasmessa, sia per la promessa (mantenuta, seppur con qualche fatica iniziale) di realizzare appunto all’Hellfest il “Wall of Death” più grande al mondo!!! – che finisce per marchiare a fuoco il giovedì, perché impossibile non accusare la sconquassante onda d’urto generata da questa deathcore band russa di origine, ma con base ad Orlando, Florida. Un quintetto mascherato che non conoscevo affatto, del quale forse non comprerei un disco, ma che non posso che applaudirne forza ed intensità, in più restando colpito da un frontman tanto massiccio quanto devastante qual è Alex Terrible, già dal nome tutto un programma. L’esatto, decisivo ago della bilancia, per un gruppo che mescola sapientemente Bring Me The Horizon, Suicide Silence e primi Slipknot.

Si resta in postazione, e pazienza se dalla parte opposta, su palchi diversi, scendono in campo Green Lung e Brujeria, ma il piatto è ghiotto comunque perché su Clisson sta per passare la furia di Kerry King smanioso di presentare a tutti la sua nuova, minacciosa “creatura” da solista, e questo indipendentemente da ciò che implicheranno i futuri impegni di fine estate degli Slayer, la cui clamorosa, improvvisa reunion li vedrà headliner in una manciata di Festival americani. ‘From Hell I Rise’ è quasi un album classico, nel senso che è esattamente quanto ci si doveva attendere dallo storico chitarrista californiano, né più e né meno, a maggior ragione se nella valutazione gioca poi il fatto di poter saggiare i contenuti direttamente sul palco principale dell’Hellfest, ovverossia una pura “lesson in violence” come da sempre gli Exodus insegnano e tramandano… Il debut-album viene suonato praticamente tutto, con picchi che si chiamano ‘Where I Reign’, ‘Toxic’, ‘Two Fists’ e soprattutto ‘Idle Hands’, brani che una volta di più testimoniano la bravura di un vocalist come Mark Osegueda, probabilmente il cantante più eclettico e versatile dell’intera scena thrash metal made in Bay Area, il quale duetta alla grande con l’ambizioso Kerry, che appare voglioso e in gran spolvero. Tanto che concluderà, omaggiando una folla che non aspettava altro, chiamando in causa il suo blasonatissimo passato, prima con ‘Disciple’ e poi con ‘Black Magic’ e ‘Raining Blood’, che sinceramente credevo non avrei riascoltato più. Grande show, da parte di Kerry King, proprio vero che il lupo perde il pelo ma non il vizio, oggi però il proverbio lo ripeteremo in più di una circostanza, e, guarda caso, sempre avendo a che fare con thrasher (e personaggi) d’autore…

E chi meglio di Dave Mustaine, personaggio di spicco certo, chitarrista forse tra i più sottovalutati se vogliamo dirla tutta, ed elemento cardine di un gruppo amatissimo, forse oggi più di ieri. Megadeth che, passate da poco le 21, salgono sul Mainstage 01 e, senza farsi pregar troppo, suonano uno show sensazionale, direi perfetto sia per la scaletta che per lo stato di forma in cui appare la band, Mustaine in primis. Grande selezione da ‘Countdown To Extinction’ (‘Skin o’ My Teeth’ e ‘Symphony Of Destruction’ scuotono Clisson che è una bellezza!) e ‘Rust In Piece’ (‘Tornado Of Souls’, ‘Holy Wars… The Punishment Due’), ma a spazzar via tutto e tutti è un’imprevedibile, incontrollabile versione di ‘Mechanix’, che personalmente credo di aver ascoltato live una volta sola, all’epoca del loro primo concerto a Milano, tournée di ‘So Far, So Good… So What!’; erano i primordi, da noi tanto amati e osannati, e un cavallo di battaglia del genere, glorioso e conteso, fa un’enorme differenza, fa calare la sentenza, definitivamente. 

Il giovedì non è affatto finito, si alternano ancora Graveyard e Dark Tranquillity, e il sottoscritto, anche per “rifugiarsi” dagli Avenged Sevenfold headliner della serata, fugge via lontano riparando sotto il palco del Valley, per l’attesa performance degli All Them Witches, four-piece di Nashville tra i più quotati in ambito stoner rock e con una predilezione per la psichedelia, meglio se contagiata da Syd Barrett & Co. E i quattro del Tennessee, guidati da Charles Michael Parks Jr., voce incisiva e basso tonante, regalano al Valley e alla sua sterminata platea un concerto strepitoso, languido in certi momenti e ortodosso in altri, incastrando di tutto nel proprio melting-pot stilistico, che tra Kyuss d’autore, primissimi Pink Floyd, Grateful Dead e Led Zeppelin, profumano anche di Allman Brothers e Byrds. Uno spettacolo che, al centro, ha rimesso una cosa sostanziale: la musica, ovviamente di grandissima qualità. 

È l’una passata, sta per arrivare l’ora del rientro, sfioro l’Altar mentre i Sodom stanno chiudendo e scelgo invece il palco adiacente, il traboccante Temple preda dei Cradle Of Filth, annunciati in forma smagliante e pronti a fare uscire il nuovo album (‘Existence Is Futile’, annunciato per il prossimo 22 ottobre su Nuclear Blast), per giunta allenati in vista della relativa tournée mondiale. In effetti, e lo scrive uno che non è mai stato granché tenero nei suoi confronti, la band si presenta davvero bene, con in testa Dani Filth da sempre ispiratore massimo di questa nera congrega, dando vita a uno show ricco di sorprendenti brani storici, sul cui trono non possono non salire ‘Born In A Burial Gown’, ‘Dusk And Her Embrace’, ‘From The Cradle To Enslave’, ma soprattutto ‘The Principle Of Evil Made Flesh’, forse il brano che più mi piace degli inglesi, quando erano ancora una promessa, seppur già in possesso delle carte giuste… 

Credo che come primo giorno di rodaggio possa andare bene così, domani sarà ancora più tosta, si inizia dalla mattina, qualche gruppo è già segnato in lista, ma la notte è ancora lunga, decisamente lunga.

Venerdì 28 giugno

Mettere in preventivo un giorno per l’altro, all’Hellfest è francamente impossibile, i piani vengono sovvertiti e i pronostici finiscono in vacca, questo per aggiungere che oggi si entra a ora di pranzo, e l’appuntamento, imperdibile e doppio, è con gli italiani, con due gruppi che, seppur di scuole differenti, sono tra i nostri più quotati all’estero, vale a dire Shores Of Null e Black Rainbows, entrambi romani, uno che suonerà al Temple e l’altro al Valley.

I primi, guidati dalla voce spettrale e torbida di Davide Straccione, irrompono compatti e danno subito vita a uno show carico di suggestioni gothic doom e folate di death metal slabbrato ed insidioso, suonando praticamente per intero il repertorio dell’ultimo ‘The Loss Of Beauty’, album magniloquente che si basa su pezzi del calibro di ‘Destination Foe’ e ‘The Last Flower’, ‘Darkness Won’t Take Me’, ‘Nothing Left To Burn’ e ‘My Darkest Years’, con una menzione particolare per il break centrale tratto da ‘Quiescence’ (‘Ruins Alive’ e ‘Quiescent’). Un’autentica estasi catartica, il concerto dei capitolini che ripagano alla grande l’invito all’Hellfest, per una partecipazione importante e di assoluto prestigio. 

Dai toni più “solari” e dinamici invece i Black Rainbows, come già detto sempre di Roma, ma spesso fuori dai patrii confini per concerti e Festival vari, che portano sul palco del Valley “strane” sensazioni lisergiche accoppiate a uno stoner rock che deve tanto ai padri fondatori, tra Black Sabbath marchiati ‘Vol. 4’, Hawkwind e la scuola di Detroit ispirata da Grand Funk Railroad e MC5. Di quest’ultimi spicca appunto la cover di ‘Black To Comm’, insieme a ‘The Hunter’ tra i momenti topici nel set del three-piece capitanato dal chitarrista Gabriele Fiori. 

Mentre fuggo letteralmente in direzione degli enormi palchi principali, butto per la prima volta un occhio dentro la Warzone, anche per studiare come piazzarmi per la serata, e a mettere a soqquadro l’intera situazione ci sono i dirompenti Speed, originari di Sydney, coriacei esponenti del nuovo hardcore punk che avanza e che tutto travolge.

 Nulla di trascendentale sicuramente, ma una grossa botta di adrenalina pura, questo sì, che mi viene in soccorso pure durante lo show dei Fear Factory, ospiti del Mainstage 01, i quali, nonostante la carica di Milo Silvestro e un Dino Cazares che mai si risparmia, appaiono meno brillanti del solito. Anche se il trittico finale ‘Demanufacture’, ‘Replica’ e ‘Zero Signal’ finisce per fare sempre la sua porca figura… 

Non c’è verso oggi di rifiatare, si rimbalza da un palco all’altro, senza sosta alcuna, e anche il buon Mauro Parozzi si destreggia, instancabile, tra obiettivi, lenti e macchine fotografiche, preda delle file chilometriche che si registrano all’ingresso del pit, per ogni concerto e per qualsiasi band. Ma va detto che per certi gruppi il caos è del tutto garantito, tanto che si può quasi giustificare: è il caso per esempio dei texani Polyphia, capaci di scatenare l’isteria dei loro fans e non solo, gruppo che io personalmente non conoscevo se non per sentito dire, tra gli alfieri più autorevoli di certo progressive prevalentemente strumentale, al confine del math-rock e che non disdegna neppure l’elettronica, per una miscellanea sonora che finisce per lasciare a bocca aperta! Semplicemente sbalorditivi, con la coppia alle chitarre Tim Henson e Scott LePage asse portante dell’intero apparato Polyphia, band che specie dal vivo sembra rapirti, per non liberarti mai più.

Come non ci si può liberare neppure degli Steel Panther, fortuna nostra, e, diciamolo pure, di tante belle signorine che accorrono in massa, dato che condivideranno il palco con i platinati bellocci from Los Angeles, ai quali, la parodia di tutto quello che è stato l’hair metal negli anni Novanta, riesce magnificamente bene. Al suo quarto Hellfest, il gruppo di Ralph Saenz e Russ Parrish convince e diverte, in un’esplosione di testosterone e rock’n’roll che fa alzare le tette al cielo, e non solo quelle, giusto per ribadire che il rock è spesso puro e semplice intrattenimento. Ed è sano, fottutamente sano mantenerlo tale.

Tale e quale è anche la mia lista, ma i tempi restano stretti e le esibizioni sono spesso concomitanti, quindi rinuncio a Clawfinger, Emperor (di cui mi diranno faville, ma che recupererò poi in Italia, al Metal Park) e, molto a malincuore, Amorphis, ma carpisco di sfuggita un brano o due dei Satyricon (che trovo particolarmente in palla, ci divertiremo con loro nel 2025, quando saranno in tour con Behemoth e Rotting Christ…), ma l’obiettivo principale nel radar è arrivare salvo e puntuale alla Warzone, per uno degli avvenimenti-clou di questo Hellfest, ossia il ritorno dei Biohazard e con tanto di line-up originale! Quello che ammiriamo forse supera abbondantemente, e incredibilmente, le attese, con una band letteralmente trainata dall’impeto di Billy Graziadei ed Evan Seinfeld, coppia storica nonché cuore pulsante dei Biohazard, che in un’oretta e poco più demolisce ogni dubbio o resistenza. ‘Urban Discipline’ viene in pratica saccheggiato, dall’opener ‘Shades Of Grey’ a ‘Wrong Side Of The Tracks’, da ‘Punishment’ a ‘Black And White And Red All Over’, cosìccome gli estratti da ‘State Of The World Address’, che colpiscono duro e pesante! Sulle roventi note della cover di ‘We’re Only Gonna Die’ dei Bad Religion, una convinzione netta, direi ferrea, nel reputarlo uno dei migliori concerti dell’anno! Per intensità. Clamore. E fascino antico.

Il podio della giornata se lo assicurano anche i Machine Head, chiamati all’Hellfest come headliner in questa loro breve tornata europea, e, avendoli persi di vista da un po’, non li credevo più a questi livelli, perentori e fiammanti, in quanto protagonisti di uno show che vive quasi un crescendo rossiniano! Robb Flynn è un frontman coi controcazzi, sa benissimo quando aizzare gli animi e quando, invece, è l’introspezione a doversi fare strada, in uno show che sfoggia subito solennità e classe d’altri tempi, e per lui, eroe thrash metal ante litteram, sembra essere un gioco da ragazzi portare a fondo un compito tanto “brutale” quanto impegnativo come uno show da headliner all’Hellfest di fronte a decine e decine di migliaia di persone.

Dalla fatidica Torre decido di buttar giù Pain Of Salvation e Fu Manchu, per “salvare” i Body Count con tanto di Ice-T al microfono, e la scelta si rivela ultra azzeccata perché i californiani, al di là dei gusti musicali di ognuno di noi, delle loro prese di posizione a volte discutibili, che vi possan piacere o meno, sono una delle formazioni più esplosive e dirompenti possiate trovare in circolazione! E sul palco del Warzone lo dimostrano ampiamente, massacrando ogni resistenza, coinvolgendo sé stessi e un pubblico a dir poco estasiato, come era lecito attendersi. Se ‘Talk Shit, Get Shot’, ‘Cop Killer’ e ‘Born Dead’ suonano di ordinanza, grande sorpresa invece per il fulmineo medley ‘Raining Blood’/‘Postmortem’ che già in apertura di show mette subito in chiaro le cose, che da qui non se ne esce vivi… Altro concerto da consegnare ai posteri, prima della ritirata notturna.

Sabato 29 giugno

Oggi, le ossa son più dolenti che mai e stasera scenderanno in campo pure i Metallica che, come ogni grande nome che si rispetti, trainano con sé decine e decine di migliaia di fans che vanno ad aggiungersi agli usuali aficionados dell’Hellfest, una folla oceanica presente indipendentemente dalle band coinvolte in scaletta. Oggi, proprio per arrivare decentemente in fondo, saltiamo in blocco i gruppi della mattinata (peccato solo per i texani Eternal Champion, da annoverare tra le migliori formazioni in campo Epic Metal di ultima generazione) e inauguriamo il sabato prima con gli storici Anvil e poi con la gloria nazionale Rhapsody Of Fire, per due concerti tra loro quasi agli opposti… Lips, spiace dirlo, appare spento e fiacco e lo show anche per questo non decolla mai, è quasi una bestemmia dirlo, ma gli Anvil odierni sono una delusione cocente, e una giornata storta può capitare, anche per una formazione rodata come quella canadese.

Suona invece più agguerrita e convinta la band capitanata da Alex Staropoli che, dotata di un frontman d’impatto e di gran bravura vocale qual è Giacomo Voli, regala un’ottima performance alla sterminata platea dell’Hellfest che, specie sui grandi classici tipo ‘Unholy Warcry’, ‘The March Of The Swordmaster’, ‘Dawn Of Victory’ e la conclusiva ‘Emerald Sword’, risponde entusiasta, rapito dai gloriosi tempi che furono.

Mi assento dai palchi principali nonostante ci siano ora i Black Stone Cherry, rocciosa rock band del Kentucky che ama flirtare col Southern, ma del tutto a modo proprio, e che trova nel drummer John Fred Young il suo elemento più dirompente e significativo. Mi tocca salutare perché al Temple, in contemporanea, suonano gli oscuri Wayfarer, anch’essi statunitensi, del Colorado, e anche loro profondamente radicati nelle sonorità della loro terra, se è vero che muovono una miscellanea fatta di country e folk, grandi atmosfere e un’urgenza e un’inquietudine black metal! Tra gli alfieri più strabilianti di questa “nouvelle vague” che specie negli States tira molto forte (pensiamo a Wolves In The Throne Room e Panopticon, e agli stessi Uada che di recente han battuto spesso i palchi italiani), il four-piece di Denver risulta eccezionale nel proporre questo viaggio arcaico che profuma tanto di western e di suggestioni sinistre e torbide, sulla scorta di brani come ‘The Cattle Thief’ e ‘False Constellation’, ‘To Enter My House Justified’ e ‘The Crimson Rider’. Non c’è che dire, confermano in pieno quanto di speciale si dice sul loro conto.

Mi divido tra Legion Of The Damned (ruvidi come carta vetrata, una band che ha sempre raccolto briciole, nonostante il tiro micidiale e una carica eversiva come pochi altri) e Stratovarius, gruppo che in passato il sottoscritto ha seguito spesso, perdendolo però di vista nei suoi passi più recenti, ma ciò che resta saldo e imperituro è soprattutto il valore del vocalist Timo Kotipelto, sempre un notevolissimo valore aggiunto. 

Sul Mainstage 01, seppur “sacrificata” sul palco circolare costruito per contenere lo Snake Pit dei Metallica, irrompe infine una formazione tra le più attese dell’intero Festival, vale a dire i Mammoth WVH messi in piedi da un chitarrista e figlio d’arte tra i più autorevoli a raccogliere l’eredità paterna, non solo biologica ma anche musicale. I quali rispondono con uno spettacolo perentorio e frizzante, dove non è il solo Wolfgang Van Halen a mettersi in luce, ma è tutto il gruppo a girare come un orologio svizzero, con il bassista Ronnie Ficarro instancabile e mai domo, nell’aizzare il pubblico e a comandare il motore ritmico dei Nostri. Gran bel concerto quello degli statunitensi, fautori di un rock corposo e vigoroso il giusto, proprio come si conviene a uno che, di cognome, fa Van Halen, il quale manda su di giri l’audience con brani tipo ‘You’re To Blame’ e ‘Right?’, la doppietta ‘Stone’ e ‘Take A Bow’, più la sontuosa ‘Another Celebration At The End Of The World’.

Lo sapevamo che il sabato sarebbe stato un gran giorno, durante il quale ne avremmo viste di tutti i colori, d’altronde facile anche prevederlo, forse, con i nomi in programma, ma non sempre è così scontato ottenerlo, penso questo durante la performance di Yngwie Malmsteen che, detto per inciso, non è neanche mai stato tra i miei artisti preferiti. Genio eccelso dello strumento, per inventiva, estro e bravura secondo forse al solo Eddie Van Halen, nello sviluppo della chitarra moderna, Malmsteen, in forma fisica splendida e dei basettoni ultra curati, ha comunque il merito di ravvivare il suo storico passato, in una sorta di carrellata dei suoi più grandi successi – da ‘Heaven Tonight’ a ‘Rising Force’, passando per ‘I’ll See The Light Tonight’, ‘Far Beyond The Sun’, ‘Trilogy Suite Op: 5’ e ‘Seventh Sign’, non mancando di omaggiare il prediletto Johann Sebastian Bach, nella sua personale ‘Badinerie’. Bravo sì, ma solo per strenui appassionati della chitarra…

Mi appresto così a studiare il rush finale, scorgo da lontano sia Extreme (bravissimi!) che Accept, mi pianto però nelle prime file per poter guardare da vicino sia Bruce Dickinson che (soprattutto) Metallica, ma vengo prima preso di soprassalto dai francesi Mass Hysteria, band quotatissima in Patria e che fa della propria bandiera un certo metal contaminato dal rap e impregnato di rabbia ed impegno sociale: adrenalina pura, il loro concerto che coinvolge letteralmente tutti, non soltanto la maggioranza che, in francese, risponde a tono e canta a squarciagola il repertorio dei Mass Hysteria, band che a me personalmente ha ricordato gli Urban Dance Squad e gli FFF, anch’essi francesi, autentici pionieri di detto crossover con il debut ‘Blast Culture’.

Quasi disperato perché, dalla parte opposta, sul palco del Valley sta salendo un tizio che di nome fa Mike Patton e che con i suoi Mr. Bungle, da quel che poi mi riferiranno, farà uno show pazzesco, però mi posso ben consolare con un Bruce Dickinson che già dalle battute iniziali si presenta in forma smagliante, forse non è così strana la cosa visto il personaggio, ma, credetemi, non è mai tutto così prevedibile, specialmente quando il frontman degli Iron Maiden ti viene in soccorso, scaldandoti l’anima. Questo, contrariamente alle condizioni climatiche, perché, e per tutta la durata del suo concerto, pioverà acqua a secchiate, con la gente che non cede di un centimetro pur di non mollare la posizione conquistata, le regole di un Open Air Festival sono queste, volenti o nolenti, e tutti le osservano. Bontà nostra, come dicevo, Bruce si fa portavoce di un’esibizione direi perfetta, ben bilanciata tra vecchio e nuovo, amalgamando con perizia i brani migliori dell’ultimo ‘The Mandrake Project’ (‘Afterglow Of Ragnarok’, ‘Rain On The Graves’ e ‘Resurrection Men’) con pezzi brillanti e consolidati come ‘Chemical Wedding’ ed ‘Accident Of Birth’, ‘The Alchemist’, ‘Abduction’ e ‘Darkside Of Aquarius’, passa la paura, e anche il freddo va in parte stemperandosi, anche se la pioggia pare non voler cessare…

Per quanto mi riguarda, adesso corrono frenetici i ricordi e si risvegliano vecchie nostalgie, se penso che entro pochissimi minuti scatterà il mio cinquantesimo concerto dei Metallica, un’emozione tutta mia, personalissima, in questa epopea con la band di Frisco che risale esattamente a trentanove anni fa, quando per la prima volta la ammirai dal vivo a Loreley, nel corso del Metal Hammer Festival… Come dire, un segno del destino, forgiato tra l’incudine e il martello. Se allora non potevo certo immaginare che non avrei più rivisto suonare il sensazionale Cliff Burton, che era davvero l’anima musicale di quei Metallica, oggi mi fa quasi specie confrontarmi con la band dopo decine e decine di concerti, quasi a volergli tastare il polso trascorsi tutti questi anni, perché, mi duole ammetterlo, il tempo, con loro, pare non voler essere troppo clemente. Lo show parte, con il palco ancora inzuppato e la band che appare poco convinta, ad eccezione di Hammett e Trujillo che invece affrontano sia la pioggia, sia l’enorme entusiasmo di un pubblico che non aspetta altro che loro. ‘Creeping Death’ e ‘For Whom The Bell Tolls’ sembrano quasi frenate, ma finalmente l’acqua cessa di venir giù, James si ricorda che di cognome fa Hetfield e che non può tirarsi indietro, digrigna i denti e sputa fuori una ‘Hit The Lights’ carica finalmente di gloria passata! L’impasse sembra esser superata, il concerto trova i suoi picchi sia nel blocco centrale ad appannaggio di ’72 Seasons’, ‘Too Far Gone?’ e ‘Shadows Follow’, che tanto fanno ben riflettere sulla qualità dell’ultimo album (anche se per me la “botta” migliore resta ‘Lux Aeterna’, che sarà infatti piazzata a fine corsa, per la felicità degli amanti dell’headbangin’), sia in una notevolissima ‘The Day That Never Comes’, una ‘Orion’ che fa sempre bene ripassare, una ‘Sad But True’ inattesa, ma coriacea come ai vecchi tempi e, alle battute finali, quella ‘Seek & Destroy’ che fa tanto vintage, ma che rompe ancora il culo ai passeri! Peccato solo per ‘Master Of Puppets’ in versione un po’ striminzita, ma non siamo qui a voler cercare a tutti i costi il pelo nell’uovo… In definitiva, sicuramente non il loro miglior concerto, va detto che personalmente mi aspettavo molto di più per l’importanza del numero nella mia classifica, ma, e lo hanno dimostrano anche a Clisson, quando gettano alle spalle i brutti pensieri, i cazzi e i mazzi personali e pigiano a manetta sull’acceleratore, i Metallica sono sempre di una categoria superiore. E di diverse spanne su tutti gli altri. Anche se, e riservo per me questo giudizio “agrodolce”, stasera mi è forse piaciuto di più Dickinson…

Domenica 30 giugno

L’ultimo giorno dell’Hellfest, solitamente, è una tappa un pò strana, sei triste perché tutto sta per finire, ma sei anche quasi “sollevato” in quanto hai pure bisogno di ricaricare le batterie, e la giornata la vivi in maniera più rilassata, meno frenetica del solito. Magari concentrandoti meglio su quelle formazioni che più ti incuriosiscono, e, in particolare, io finirò per sceglierne cinque, non necessariamente tra le più importanti della domenica.

Partendo dagli svedesi Blues Pills della bella Elin Larsson, frontgirl appena diventata mamma ed è proprio la maternità, il concept sul quale si sviluppa il nuovissimo ‘Birthday’, un album infatti più solare e spigliato, meno torbido rispetto al passato. Passato che, però, quando si ripresenta attraverso ‘Proud Woman’, ma soprattutto con ‘Devil Man’, ‘High Class Woman’ e ‘Little Sun’, fa i suoi seri danni. Una band che non smetteremo mai di amare, osannata anche all’Hellfest dove in pratica è di casa.

Un altro che mi ero ripromesso di non perdere era Corey Taylor, faccio bene quindi a tenere l’appunto e a piazzarmi sotto il Mainstage 02, perché il vocalist originario dell’Iowa si rende autore di una performance direi sontuosa, incazzata e incazzosa il giusto, mettendo in mostra sia la sua bravura come compositore che come esecutore, e canzoni come ‘Made Of Scars’, ‘Song #3’, ‘Through Glass’, estratte dal campionario Stone Sour, lo dimostrano ampiamente. C’è spazio anche per gli Slipknot, ovviamente, e ‘Before I Forget’, ‘Snuff’ e la conclusiva ‘Duality’ entusiasmano follemente i numerosi appassionati dei mascherati di Des Moines. Anche se ‘Post Traumatic Blues’ e ‘Beyond’, dall’ultimo ‘CMF2’, hanno forse una marcia diversa, nell’operato del “nuovo” Corey Taylor. Concerti così ti rimettono in pace col mondo, indipendentemente dallo stile musicale che più ti piace…

Speravo fossero all’altezza anche i Queens Of The Stone Age, una band di cui ancora non capisco né il target cui mira, né la portata degli ultimi suoi svolazzi stilistici che in parte hanno compromesso le ultime release del five-piece di Seattle. Sarò forse netto, ma i tempi di ‘Songs For The Deaf’, ‘Lullabies To Paralyze’ ed ‘Era Vulgaris’, sembrano irrimediabilmente perduti, almeno stando alle loro composizioni più recenti, che non reggono davvero il confronto e che, anche dal vivo, suonano quasi come palliativi. Difatti, non appena Josh Homme evoca una qualsiasi ‘Go With The Flow’ oppure una ‘No One Knows’, il discorso si fa più chiaro e spiega nei minimi particolari le ragioni del perché i QOTSA non sono una band comune, che vanta appunto estimatori in tutto il mondo.

Tra le rivelazioni assolute dell’Hellfest 2024, i Tiamat di Johan Edlund, non perché non li conoscessi, ma solo e soltanto per la qualità della loro prova offerta, che si presenta superlativa grazie a una scaletta ricca di classici (e più di una sorpresa) e per uno stato incredibile di forma, a partire dall’ispirato vocalist e nume tutelare. Anche i Tiamat non li vedevo da una vita, di loro mi rimangono però impressi nella memoria concerti indimenticabili, dal tour italiano che fecero di spalla ai Black Sabbath, allo show pazzesco tenuto al Dynamo ’95, quando, band di punta della scuderia Century Media, erano all’apice della notorietà internazionale. Se il trittico iniziale ‘In A Dream’, ‘A Caress Of Stars’ e ‘The Sleeping Beauty’ ti sbatte ancora in faccia la rigogliosa maestria di ‘Clouds’, ‘Whatever That Hurts’, ‘The Ar’ e la finale, maestosa ‘Gaia’ scuotono la coscienza, a rimembrare gli eccelsi fasti marchiati ‘Wildhoney’, insuperato capolavoro dei Tiamat e pietra miliare di un certo modo di intendere e volere il metal.

Pazienza se gli ultimi headliner domenicali, i Foo Fighters di Dave Grohl, non mi acchiappano proprio, anzi mi annoiano un bel po’, e forse forse sul palco principale, alla fine, ci avrei pure visto bene i Rival Sons, questa sì una band che sposta gli equilibri e che sta letteralmente mandando in visibilio il pubblico dell’affollatissimo Valley, l’ultimo palco a cui mi concedo, in questa rutilante e sontuosa edizione dell’Hellfest…

Lo dicevano pure gli AC/DC che l’Inferno non era un posto tanto brutto da frequentare, puoi dar loro torto specie dopo esser passati per Clisson?

Foto di Mauro Parozzi

 

 

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