Metal Park 2024 @ Villa Cà Cornaro – Romano D’Ezzelino ( VI ), 6 luglio 2024

Il 29/07/2024, di .

Metal Park 2024 @ Villa Cà Cornaro – Romano D’Ezzelino ( VI ), 6 luglio 2024

L’estate 2024 la ricorderò, oltre che rovente e asfissiante come oramai spesso avviene, anche satura di manifestazioni festivaliere e singole performance, in un “bailamme” di concerti che dalla loro hanno avuto gran qualità e notevole appeal, un connubio che fortunatamente sembra fare presa anche sul nostro pubblico, distratto e “sparuto” soltanto all’apparenza, ma che reagisce bene quando c’è da gonfiare i bicipiti e lanciarsi sotto il palco, a patto che il gruppo sia quello giusto e i convenevoli non siano poi troppi. Cerco dunque di aggiungere le battute finali al reportage di quello che forse è stata la principale novità italiana in fatto di festival, vale a dire il Metal Park di Romano d’Ezzelino, una “due giorni” metallica all’interno dell’AMA Music Festival, alle porte di Bassano del Grappa, che, di fatto, raccoglie il testimone del Rock The Castle di Villafranca. Sempre in Veneto, ma con meno vincoli logistici e strutturali, e meno rotture di coglioni dalle Belle Arti, hai detto poco…

Esordire con un nuovo “format” nel complicato giro dei festival pare sempre essere un azzardo, specialmente in Italia, dove alle interminabili “pastoie” di natura burocratica con cui ci si scontra puntualmente, si aggiunge un’atavica e italica diffidenza, per kermesse di questo tipo che si reggono sulla “fidelizzazione” dell’evento in sé che non esclusivamente sulla band di grido o sul nome più gettonato del momento, esattamente l’opposto di quanto avviene nel resto d’Europa, a parte casi sporadici.

Ragion per cui mi sento di applaudire in pieno la formula del Metal Park, immerso nel verde e con sullo sfondo l’imponente Massiccio del Grappa, al suo debutto ufficiale con headliner di spessore tipo il Bruce Dickinson sacerdote del credo Maideniano o gli Emperor che, piaccia o no il black metal, sono tra quei gruppi fondamentali della musica estrema sublimata attraverso doti tecniche e spiccata innovazione, forse i primi a replicare con analoga fierezza le gesta dei precursori Bathory e Mayhem. E altre stelle di prima grandezza che la nostra musica è così tanto in grado di variare e ottimizzare, mi vien da dire Michael Monroe e Cavalera, a mio avviso e non solo tra gli assoluti match-winner dell’intero weekend vicentino, confortato inoltre da una discreta affluenza di pubblico, nonostante il calendario affollato di eventi e un posto un po’ fuori mano a dire il vero. Ma non si può avere sempre tutto, e veniamo quindi a noi, a sabato 6 Luglio…

L’apocalisse che impietosamente si scatena in estate sulle autostrade italiane mi costringe al ritardo e per l’inconveniente arrivo purtroppo dopo la performance degli opener, i Moonlight Haze capitanati dalla frontgirl Chiara Tricarico, autori di un concerto di cui mi dicono un gran bene, nonostante la scomoda posizione in apertura. Dovrò recuperare, prima o poi. Rapide considerazioni iniziali, saluti calorosi e tutti i convenevoli di rito, prima di appostarsi dunque sottopalco per il primo highlight della giornata, vale a dire la zampata micidiale dei Tygers Of Pan Tang! Band che ha fatto la leggenda della NWOBHM e che da più di quindici anni a questa parte si avvale di Jacopo Meille alla voce, indiscutibilmente da annoverare tra i migliori singer d’Europa e che al Metal Park, nonostante l’orario infausto e una canicola mica da ridere, segna indelebilmente lo show dandoci dentro a più non posso e consegnandoci brani che, per l’impeto e la grinta trasmessa, suonano veloci e feroci, prendono subito, implacabilmente, alla gola! ‘Euthanasia’, ‘Suzie Smiled’, ma soprattutto ‘Love Potion No. 9’, dicono tanto, se non tutto, della grande prova offerta da Robb Weir & Co.

Subito a seguire, un altro nome di garanzia, con i nostrani Rhapsody Of Fire, da me recentemente visti all’opera sul prestigioso palco dell’Hellfest, in cui hanno strappato grandi consensi specialmente per la grande prova del frontman Giacomo Voli, il quale si ripete anche al Metal Park con un’esibizione che non può colpire, merito di una scaletta che rappresenta quasi la quintessenza del verbo Rhapsodiano, vecchio e nuovo che sia: dalle più recenti ‘I’ll Be Your Hero’ e ‘Challenge The Wind’, alla stentorea ‘Unholy Warcry’, prima dei grandi classici ‘Dawn Of Victory’ ed ‘Emerald Sword’, brano questo che finisce per emozionare tutti gli amanti dei gloriosi tempi che furono, quando il power metal nazionale spadroneggiava e i Rhapsody ne erano tra i padrini incontrastati. Non soltanto un nostalgico tuffo nel passato, ma una fiera ed indomita rivendicazione da parte di Alex Staropoli e i suoi compagni.

Con l’entrata poi in scena di Richie Kotzen, il sabato si anima colorandosi di umori cangianti e vibrazioni positivamente fluide, durante il quale il chitarrista della Pennsylvania chiama a sé ogni infinitesimale sfaccettatura della propria arte, sia per mezzo della sua Telecaster che per un cantato che cattura e conquista, con un piglio che spiega molto della sua caratura musicale. Grande è il suo amore per il blues, con un occhio di riguardo per Stevie Ray Vaughan, ma resta sconfinata la passione per Eddie Van Halen, al quale è legatissimo, ma in buona sostanza Richie è soprattutto un devoto della chitarra e di ogni espressione musicale possibile e immaginabile, dalle partiture fusion alle improvvisazioni jazz che rivoluzionano e non poco i quasi quaranta minuti di spettacolo. Poco o niente da aggiungere, se non sottolineando l’eccezionalità di uno show tanto intenso quanto magico. Roba per grandi intenditori.

Da un genio a un altro, da uno che per la sua bravura alla chitarra se lo sono litigato decine di gruppi, a un frontman che, probabilmente, se non fosse esistito, altrettante band non sarebbero neppure nate, parliamo di Michael Monroe. La sua performance al Metal Park, con un’abilità direi quasi proverbiale nel tenere in pugno sia l’audience e sia mettendo a dura prova i suoi compari, “costretti” agli straordinari pur di stare al passo dell’ex Hanoi Rocks, lo dimostra sfacciatamente, con una violenza e una naturalezza tali che annichiliscono per veemenza ed energia! Dall’opener ‘Dead, Jail Or Rock’n’Roll’ ad ‘Old King’s Road’, dalla devastante ‘One Man Gang’ ad ‘Horns And Halos’, fino a una ‘’78’ da brividi, si respira solo e soltanto l’acre odore della battaglia condotta da quell’istinto punk tanto prevaricante nel vocalist finlandese, che ama travolgere tutto e tutti, e con buona assistenza da Sami Yaffa, bassista che con Mike condivide la nazionalità e un passato storico negli Hanoi Rocks, oltre che trascorsi illustri con New York Dolls e Johnny Thunders. A strappare la palma del migliore, dopo quasi un’ora sconquassante fatta di contorsioni e salti, arrampicandosi praticamente ovunque, grazie a canzoni di Hanoi Rocks (‘Malibu Beach Nightmare’), una fantastica doppietta griffata Demolition 23 (‘Nothin’s Alright’ ed ‘Hammersmith Palais’) e un’improbabile, ma roboante cover dei Creedence Clearwater Revival, ‘Up Around The Bend’ che chiude un concerto a dir poco fantastico, giusto per ribadire dove passa la strada maestra…

Sempre finlandesi, ma più misurati e quasi introspettivi se li rapportiamo al loro scatenato connazionale, gli Stratovarius scontano forse l’irruenza scaturita precedentemente, pagando un po’ dazio all’inizio, ma riassestando presto gli equilibri con un set niente male. Un set impugnato con baldanza e uno spirito vecchio stampo, in particolar modo da un Timo Kotipelto in forma strepitosa, abile sia nell’assecondare gli umori del pubblico che nell’istigare la sua band, chiamata a darci dentro nei punti nevralgici dello show – e, personalmente, dopo che in rassegna passano ‘Eagleheart’ e ‘Speed Of Light’, ‘Black Diamond’ ed ‘Hunting High And Low’, posso rimanere più che contento, di una band con la quale, specie nel periodo marchiato Nuclear Blast, ho lavorato spesso e volentieri e che in Italia ha sempre avuto uno zoccolo duro di fans appassionati e fedeli.

Giove Pluvio forse non prova troppa simpatia per il gruppo dei fratelli Hawkins, dato che scatena la sua ira per un buon quarto d’ora abbondante, e proprio in concomitanza dello show dei The Darkness. I quali, figurati se possono esserne intimoriti, pompano a manetta i Marshall e riscaldano così subito il loro pubblico che, infischiandosene della pioggia, si presenta sotto il palco partecipe e coinvolto. In quell’autentico rito rock’n’roll che è in tutto e per tutto un concerto della band inglese, tra ammiccamenti vari, pericolosissime piroette e quella guasconeria che tanto ci piace, terreno di caccia del frontman e leader Justin Hawkins che a suo piacimento tesse la tela dello spettacolo. Gustosa la comparsata di Richie Kotzen su ‘I Believe In A Thing Called Love’, ciliegina sulla torta di un concerto discreto, peccato ci abbia appunto messo lo zampino Giove Pluvio…

Probabilmente, anche il più inguaribile degli ottimisti, uno show di tale portata non se lo sarebbe forse neanche augurato, anche se va detto che ci troviamo al cospetto di uno degli artisti più vitali ed intraprendenti dell’intero metal-biz, eppure così è andata. Già, mi va di rovesciare completamente il senso della recensione, piazzando il commento finale al posto dell’incipit con cui il tutto dovrebbe cominciare, ovverossia quanto strabiliante è stato, questo concerto da solista di Bruce Dickinson, del quale, a dire il vero, avevo già avuto un recente assaggio all’Hellfest, dove mi aveva quasi più convinto dei successivi Metallica, ed è un particolare strano per me dirlo; per il sottoscritto amante folle dei Four Horsemen nonché svezzato dai primi, pionieristici ‘Iron Maiden’ e ‘Killers’, è un attestato solenne, è un sigillo al blasone e alla grandezza di un frontman che, anche al Metal Park di Romano d’Ezzelino, ha dimostrato tutta la sua unicità. Forte di una scaletta direi perfetta, molto indirizzata a lustrare autentici totem della sua discografia – con un occhio di riguardo verso lo stupendo ‘The Chemical Wedding’, ben quattro i brani estratti, e particolare enfasi l’hanno riscossa ‘The Alchemist’ e ‘Book Of Thel’, per non dire dell’accoppiata iniziale composta da ‘Accident Of Birth’ e ‘Abduction’, che ha di fatto reclamato un posto nell’Olimpo per Bruce e la sua band. Una band che, seppur “orfana” di Roy Z, ha comunque sfoderato picchi di eccellenza grazie al duo alle chitarre Naslund-Declercq e a un motore ritmico di prim’ordine, tenuto a pieno regime dal roccioso Dave Moreno e dall’affascinante Tonya O’Callaghan, rispettivamente batteria e basso. Non meno determinante l’apporto di Maestro Mistheria, pianista virtuoso e compositore italiano che da tempo sta legando il suo nome a molti mostri sacri del metal e non solo, e con il quale Dickinson sembra aver trovato la quadra giusta, nella costruzione del suo mosaico musicale. E se a Villa Cà Cornaro la suggestione del momento può permettersi una ‘Tears Of The Dragon’ tanto intensa e screziata di significati, credo che, come primo giorno, il Metal Park può ritenersi felicemente pago, con la sua missione compiuta in pieno…

 

 

 

Leggi di più su: Bruce Dickinson, Stratovarius, The Darkness, Rhapsody Of Fire, Tygers Of Pan Tang, Smith – Kotzen, Moonlight Haze, Michael Monroe.