Desertfest Berlin – Day 1 @ Columbiadamm, Berlino, 24 maggio 2024
Il 07/06/2024, di Marina Fulco.
Una delle mete ambite dagli appassionati di sonorità stoner e non solo, è rappresentata dal Desertfest. Il festival si svolge da poco più di dieci anni e con cadenza annuale nelle principali città europee, portando le band più interessanti presenti sulla scena. Noi abbiamo deciso di seguire la data di Berlino, che si è svolta nei giorni tra il 24 e il 26 maggio presso gli spazi del Columbiadamm. Presenti tre palchi a distanza tra un edificio ed un altro, ovvero il Columbia Theatre e il Columbiahalle, prevedendo un andirivieni del pubblico tra un’esibizione e l’altra. All’esterno, nella zona outdoor, tra gli stand per il cibo e merchandising, era presente un altro piccolo palco destinato ai cabaret, dj set e gruppi emergenti.
Secondo la tabella di marcia il primo gruppo ad esibirsi presso il Columbia Theatre inizierà alle 16. Iniziamo puntuali e ci sono già parecchie presenze sotto il palco per la band berlinese Praise The Plague. Entrano in scena salutando la propria città e offrendo il brindisi al pubblico. Con una formazione recente, nati nel 2017 e con all’attivo tre album, iniziano con un interludio piuttosto lento, per poi esplodere in schitarrate distorte e un muro di suono che accompagna la voce growl/sludge. Il pavimento trema per via della distorsione delle chitarre e dei tamburi che risuonano. Non essendo riverbero riusciamo a distinguere bene tutti gli strumenti. Il cantante si lascia trasportare in un headbanging seguendo gli strumenti che abbracciano il post-metal e il pubblico lo segue a ruota. Il pubblico perdona i piccoli errori e incoraggia la band che continua a suonare senza particolari sforzi.
In attesa del cambio palco per l’esibizione della seconda band, ci giriamo intorno e notiamo tanti indossare la maglia dei Neànder, trio strumentale berlinese che ci ha incuriosito sin dal primo ascolto. Nati nel 2017, con tre pubblicazioni, suonano un genere collocabile all’interno del post-metal. Il chitarrista e leader della band, Jan Korbach risalta sul trio con la sua altezza e tratti tipicamente nordici. Il pubblico si lascia trasportare dalla loro musica, con ritmi lenti, cambi di tempo, riff avvolgenti, esplosioni sonore e atmosfere doom. Hanno ottenuto il pieno consenso del pubblico che li acclama e vorrebbe un bis, ma la scaletta deve andare avanti e sul palco del Columbiahalle ci aspetta il gruppo successivo.
Sul main stage aspettiamo i Monkey3, band di Zurigo nota per i brani lunghi e che nel corso del tempo (sono attivi dal 2001) hanno abbracciato diverse influenze, dallo stoner al desert rock passando per lo space rock, adesso molto vicino ai Pink Floyd, di cui ci propongono un intro all’inizio dell’esibizione. Il nuovo lavoro è uscito lo scorso febbraio dal titolo ‘Welcome To The Machine’ e di cui hanno suonato la maggior parte dei brani (trovate la recensione QUI). Abbiamo molto apprezzato l’esecuzione di uno dei loro grandi successi ovvero ‘Icarus’. Hanno creato un muro di suono capace di trasportarci in una città futuristica, sottolineato dai video sullo sfondo e dai giochi di fumo che sembrano delle esplosioni come nei film di Star Wars. Un’esibizione magistrale, da rivedere.
Torniamo al palco più piccolo del Columbia Theatre e i Thronehammer hanno già iniziato a suonare. L’accavallamento tra un concerto ed un altro e il desiderio di voler finire di sentire un’esibizione non ci permette di seguire tutto. La band che adesso è sul palco, ci sorprende per via della forte presenza femminile rappresentata dalla vocalist Kat Shevil Gillham. Ha una voce dai tratti tipicamente maschili, canta in growl con un accompagnamento doom metal. Per certi versi ci ricordano i Pantera di ‘Vulgar Display of Power’. La voce quasi ossessiva, incitava alla violenza. Questo probabilmente è stato il gruppo più violento della giornata, ma il pubblico non si smentisce neanche questa volta dimostrando calma ed evitando di azzuffarsi.
La potente voce femminile del gruppo precedente ci ha preparato per l’incontenibile energia dello stoner rock degli Acid King. La fondatrice e frontwoman, Lori S., è una presenza carismatica e magnetica sul palco. Nonostante il tempo trascorso dall’inizio della loro carriera, la sua voce rimane potente e ipnotica, capace di avvolgere e trascinare il pubblico in un vortice sonoro. Dal primo accordo, gli Acid King ci hanno trasportato in un headbanging collettivo che sembrava non voler finire. Ogni riff e assolo era un’onda di energia pura che attraversava la folla. Il set è stato un viaggio psichedelico, dove la pesantezza dei loro brani si mescolava con un’atmosfera quasi trance, tipica del miglior stoner rock.
L’esibizione dei Black Pyramid è stata un autentico tuffo nel doom metal, caratterizzata da riff mastodontici e atmosfere oscure. La band, nota per il suo suono pesante e le liriche ispirate alla mitologia e alla storia antica, ha saputo creare un’atmosfera intensa e coinvolgente.
La band Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs entra con la sua potenza nucleare spazzando via ogni stanchezza della giornata. La forte energia del cantante, scalzo e indossando i suoi tipici pantaloncini si muove di continuo sul palco, come se stesse eseguendo degli esercizi in palestra. Si sdraia, accovacciando i piedi sull’amplificatore e facendosi fotografare. Utilizza momenti in cui spiega i vari brani per ricaricare le energie e ripartire più forte di prima. La sua energia è sottolineata e amplificata dalla maestria dei musicisti aumenta a dismisura l’entusiasmo del pubblico. Questa band ci convince, non per niente il loro ‘King Of Cowards’ è considerato come uno degli album fondamentali del genere. Di certo, una delle esibizioni migliori della giornata. Purtroppo per noi, rinunciamo a parte dell’ultimo brano per sentire il penultimo gruppo.
Sul palco del Columbia Theatre entra una ragazzina bionda con un basso a sei corde, e dal pubblico qualcuno esclama “Sei bella!” ma lei risponde dimostrando che non è solo la bellezza quella che possiede ma una notevole bravura. La voce della cantante degli Earth Tongue ci ricorda una Kim Gordon agli inizi e il batterista che l’accompagna, ha una voce più tendente allo sludge. Ci ricordano il passato, un certo krautrock, forse i Can oppure i Gong. Allo stesso tempo, il duo inserisce varie influenze nel proprio suono, come se fosse una commistione di generi vecchi con alcuni più nuovi, come lo psych rock e il doom, soprattutto per l’accompagnamento. Un gruppo fresco che ci trasmette leggerezza, preparandoci alla band finale.
Entriamo nel Columbiahalle e dopo una lunga pausa al buio e con dei lunghi suoni di attesa, il cantante degli Amenra fa il suo ingresso sul palco e si accovaccia a terra dando le spalle al pubblico e suonando due battenti, come fosse un rituale. Rimarrà per tutto il resto dell’esibizione girato verso il palco, tranne per alcuni piccoli istanti. Gli altri componenti del gruppo sono immobili, poi partono gli strumenti, un enorme muro di suono sottolineato da urla strazianti di dolore. Si passa da momenti più oscuri, ad altri pieni di luce. Parti recitate, calme, poi picchi di dolore e disperazione, con urla lancinanti, come voler abbracciare tutti i sentimenti negativi dell’umanità, o di popoli che in questo istante stanno attraversando il dolore della guerra. Sembra impersonifichino il dio della disperazione in tutta la sua voluttà. Il pubblico ha pareri contrastanti riguardo la band, per alcuni risultano eccessive le urla e la disperazione trasmessa, altri questo elemento convince e intrattiene. Alle loro spalle, dei video in bianco e nero a sottolineare i sentimenti espressi dalla musica. Ci danno la buonanotte, nel pieno della pioggia e malinconia.