Yes @ Teatro degli Arcimboldi, Milano, 6 maggio 2024

Il 12/05/2024, di .

Yes @ Teatro degli Arcimboldi, Milano, 6 maggio 2024

Il desiderio di Chris Squire è sempre stato che gli Yes potessero essere un ensemble sinfonico, una famiglia di amici (il concetto rende molto meglio di “brand”) in cui l’identità sarebbe sempre stata rappresentata dal perpetuarsi del connubio di tradizione e identità. E quello che abbiamo visto in questo concerto, è esattamente ciò che Squire avrebbe voluto, una band che rinnova se stessa di decade in decade accade, con membri che entrano ed escono, lasciano e tornano, ma pur sempre accomunati da quel magico suono che dalla fine degli anni Sessanta tiene avvinghiate al gruppo schiere di fan. Della formazione originaria non rimane più nessuno negli Yes del 2024, il senatore più alto in carica è mister Steve Howe, entrato nella band al terzo album, ma che ad oggi conserva i gradi di membro più anziano del quintetto. I 13 brani proposti in scaletta pescano dalla bellezza di ben dieci album diversi, un racconto che si dipana dalle primissime partiture di ‘Time And A Word’, fino all’ultimissimo ‘Mirror To the Sky’. Rende bene il titolo del tour, una serie di racconti classici, che non guardano alla fama dei brani, ma alla costruzione di un discorso che cerca di correre fluido, riuscito in alcuni momenti più di altri, lungo l’impressionante numero di sette decadi di storia del gruppo.

 

L’inizio dello spettacolo è affidato alle melodie struggenti di ‘Machine Messiah’ preso dal ‘Drama’ che aveva innescato la più profonda crisi degli Yes e al tempo stesso l’ingresso in formazione proprio di Geoff Downes. Subito dopo arriva ‘It Will Be A Good Day (The River)’, preso da ‘The Ladder’, poi si salta in sella alle incalzanti ritmiche di ‘Going For The One’ e I’ve Seen All Good People’, due tra i pezzi più amati dal pubblico degli Yes. I volumi di questa prima parte di spettacolo non sono sempre perfetti, in alcuni casi la voce di Jon Davison e le tastiere di Geoff Downes sembrano svanire dietro le frequenze di chitarra e basso. ‘Time And A Word’ è forse una delle composizioni più attese, chi conosce il primissimo repertorio del gruppo sa quanto Jon Anderson sapesse regalare emozioni con questo pezzo, ma la resa non è esattamente perfetta, quasi stentata in alcuni passaggi vocali. Meglio con ‘Don’t Kill The Whale’ e soprattutto ‘Turn Of The Century’. Quando Howe imbraccia l’acustica, l’atmosfera sul palco cambia, dando l’idea che oggi la dimensione migliore degli Yes sia proprio quella più intima, emozionale, dove le melodie elegiache tratteggiate dalla delicatezza del tocco del chitarrista riescono ancora a incantare nel suo danzare con la voce di Davison. Anche la voce di Davison sembra trovarsi più a suo agio quando si cimenta con brani strumentali in cui il suo cantato è meno forzato e calcato. La sezione ritmica di Billy Sherwood e Jay Schellen procede sempre serrata e compatta, una sicurezza con poche sbavature, in cui il timbro rotondo del basso sostiene con un potente tappeto anche le parti più complesse.

La seconda parte del concerto si apre dopo una lunga pausa come capita di vedere forse solo nei contesti operistici più durevoli. ‘South Side Of The Sky’ è un’altra delle prove più attese dal pubblico, che fa da contraltare a ‘Cut From The Stars’ e l’abbinata descrive molto bene l’evoluzione del gruppo dagli anni d’oro di ‘Fragile’ al nuovo millennio, un viaggio avanti indietro nel tempo, molto utile per riassaporare in pochi minuti la storia della band. Howe fa gli onori di casa Yes prendendo la parola per dialogare (in rigoroso inglese) con il pubblico, scherzare con misura e introdurre alcuni pezzi. La chiusura della seconda parte è affidata a un lungo medley da ‘Tales From Topographic Oceans’, forse il punto centrale, anche se collocato a fine concerto, di questa iridescente setlist. Gli Yes condensano  l’album più discusso e magniloquente della loro storia, un ponderoso quadruplo di ben ottanta minuti, in solo un quarto del tempo. È lo stesso Howe a raccontare l’impresa prima dell’esecuzione. Qui finalmente le tastiere di Downes si prendono il meritato spazio fendendo l’aria con leggiadra acutezza. Peccato solo per la scenografia che definire banale è eufemistico, sagome di luci dalle forme elementari che si muovono su un fondale bianco senza alcun senso. Una band che si può fregiare fin dall’inizio dell’arte pittorica di Roger Dean avrebbe solo l’imbarazzo della scelta, un’immagine estratta a caso da una qualsiasi copertina avrebbe fatto faville invece di quello snervante movimento di forme randomiche. Poco male, la suite di ‘Tale’s che ha fatto mugugnare quei fan che non ammettono alcuna riduzione dei tempi dilatati per i quali il gruppo è famoso, ha dato comunque l’occasione di vedere giocare gli Yes sul campo a loro storicamente più congeniale, quelle lunghe sinfonie caleidoscopiche in cui Howe e Davison saltano da una battuta all’altra con agile magia. Il gran finale degli encore non poteva che essere affidato alle pietre miliari di ‘Roundabout’ e ‘Starship Trooper’, un tripudio in cui il pubblico abbraccia gli Yes mentre il basso tuonante di Sherwood chiude il concerto tra alcuni mugugni per le sbavature dei suoni e alcuni passaggi più deboli, e molti sorrisi compiaciuti di gioia per aver constatato come gli Yes abbiano tutt’altre idee che tirare i remi in barca.

 

Setlist:

Machine Messiah

It Will Be A Good Day (The River)

Going For The On

I’ve Seen All Good People

America (Simon & Garfunkel)

Time And A Word

Don’t Kill The Whale

Turn Of The Century

South Side Of The Sky

Cut From The Star

The Revealing Science Of God (Dance Of The Dawn) / The Remembering (High The Memory) / The Ancient (Giants Under The Sun) / Ritual (Nous sommes du solei)

Roundabout

Starship Trooper

 

Foto di Roberto Villani

 

 

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