Yngwie Malmsteen @ Hall, Padova, 12 novembre 2023

Il 16/11/2023, di .

Yngwie Malmsteen @ Hall, Padova, 12 novembre 2023

Partiamo da un presupposto: Yngwie J. Malmsteen è unico. Attenzione, non sto dicendo che sia il migliore, o il più pacchiano, o qualsiasi altra cosa vogliate leggere nella mia affermazione; sto proprio dicendo che è unico, che non ce ne saranno altri dopo di lui e che non ce ne sono stati altri esattamente come lui. Un po’ l’incarnazione dell’abusato concetto dell’Alpha e Omega in un solo colpo, con però l’apparente paradosso per cui ci sono schiere infinite di chitarristi e di progetti musicali che devono a ‘Rising Force’ e ‘Marching Out’ praticamente tutto, laddove il gotha dello svedesino tutto pepe è ben visibile e lui stesso non fa nulla per nasconderlo, omaggiando a pié pari le proprie influenze, siano esse parte dell’immaginario rock/blues che dello sconfinato scibile che definiamo “musica classica”, con particolare predilezione per il diciottesimo e il diciannovesimo secolo. L’unicità di cui sopra è poi testimoniata dall’esito di questo suo attesissimo tour che lo ha visto impegnato in ben quattro date italiane andate praticamente sold out (almeno tre su quattro, per quanto mi sia dato di sapere), a monito di quanto il Nostro sia ancora una realtà ben consolidata con cui fare i conti.
Però, c’è un però e voglio metterlo subito in chiaro. Al netto di quanto stiamo parlando di un’istituzione nell’ambito della chitarra elettrica, difficilmente vedremo a un suo concerto un numero consistente di spettatori estranei alla galassia dell’hard’n’heavy, per lo stesso motivo per cui è difficile che gli estimatori del violino d’epoca romantica affollino le platee di Katherine Thomas, persino quando la stessa si presenti in veste di jullardiana modello e non vesta i panni della Grande Gatta. Ciò avviene perché l’importanza di Yngwie non risiede semplicemente nello sviluppo su velocità funamboliche delle armoniche minori “tagliate” ad arte con quelle aperture di pentatonica che si fanno sempre più rari nelle versioni live, ma anche (e soprattutto, per noi comuni fruitori) per il succitato enorme contributo fornito all’universo heavy/power/epic e chi più ne ha più ne metta, con composizioni che univano ai barocchismi già sistematizzati da Deep Purple e Rainbow quel sound tagliente che era proprio di Eddie Van Halen e soci.
Non solo in studio: ne sono testimonianza le scalette stellari di Budokan (sia 1985 che 1994), Leningrado e del ‘Live’ con Mats Levén; a dispetto di esse, al netto di essersi ostinato a dividere le parti cantate con Nick Marino, un live del Nostro è oggi in gran parte una collezione di snippet e medley, con l’accenno di strofa e ritornello totalmente asservito e funzionale all’arrivo dell’assolo o di una qualsivoglia improvvisazione di raccordo. Scelta legittima, per carità, ma che lascia con l’amaro in bocca gli ascoltatori che vedono in un numero variabile di dischi con quel monicker un corpus affidabile di riferimento per l’evoluzione di un certo tipo di metal, soprattutto per la qualità delle composizioni unite (ovviamente) a un’esecuzione chitarristica di altissimo livello. Ma tant’è, sapevamo cosa aspettarci e quindi la dovuta premessa ora può lasciare spazio al piacere di ricevere anche gradite sorprese nella scelta della tracklist, come vedremo più avanti.
L’apertura è affidata ai Limberlost, sestetto americano di Seattle che ha deliziato i presenti con una formula anche leggermente affine a quanto sarebbe venuto dopo: strana ma efficace la scelta di schierare ben due cantanti femminili, senza che le stesse dispieghino sostanziali differenze stilistiche. Tuttavia, siccome Yngwie non ha nulla da dimostrare in quanto ad abilità da talent scout, ci fidiamo. Il genere proposto dai Limberlost è sostanzialmente un “prog senza il prog”, una dicitura che per quanto possa sembrarvi strana appare il modo più efficace per descrivere il loro hard rock un po’ Purple ma dal chiaro taglio a stelle e strisce. La guerriera bruna segue la linea vocale, la bionda vestale armonizza e a intervalli regolari si scambiano i compiti, mentre ci danno coraggio con i loro testi positivi e arrembanti. Roba che ti aspetteresti la citazione di una qualche tema di Maverick prima o poi, e non sarebbe affatto fuori luogo. Non so perché, ma mi hanno fatto pensare ai Kingdom Come, d’altronde siamo per un attimo calati in quell’universo parallelo in cui Malmsteen sostituisce addirittura i Metallica nella storia dell’evoluzione di un certo genere, e quindi tutto è possibile, qanche riscrivere le gesta del famoso Monsters del 1988 in cui Kottak e soci dovettero soccombere alle gesta dei quattro cavalieri di Frisco. Questo per dire che non sono affatto sorpreso dalla scelta di ‘Kashmir’ come cover conclusiva, una versione infinitamente migliore di buona parte di quelle presenti su ‘Encomium’ (chi se lo ricorda?).
Il tempo del selfie di rito con il pubblico e ci attende una mezz’ora di… attesa, appunto. Attesa ripagata profumatamente con i primi accenni dell’arrivo in scena di Yngwie Malmsteen a luci ancora spente e il successivo accendersi dei fari rossi, gialli e verdi con i boati della ‘Rising Force’ di rito, anche se fortemente “abridged” come già accennato poc’anzi, per lasciare spazio a ‘No Rest For the Wicked’, ad ‘Amadeus Quattro Valvole’ o a qualche altra diavoleria simile. Benché la strofa di ‘Soldier’ ci restituisca tutto il pathos vocale del lider maximo, l’impressione è quella citata di una carrellata di snippet che ricorda da vicino il celebre doodle di Rob Trujillo e Kirk Hammett, salvo contenere una serie di chicche imperdibili: una versione impeccabile di ‘Baroque & Roll’ ancora più veloce che l’originale e l’inattesa ‘Like An Angel’, a dimostrazione di come Malmsteen ami pescare a piene mani da tutta la sua discografia, pur mantenendo alcuni punti fermi.
Ma è all’arrivo della clamorosa ‘Now Your Ships Are Burned’ che capiamo che il concerto sarà una vera e propria celebrazione del (quasi) quarantennale della pubblicazione di ‘Rising Force’, tanto che dopo la Badinerie di rito veniamo letteralmente investiti dall’accenno al Concerto n. 4 di Paganini che assieme all’Adagio di Albinoni/Giazotto costituisce l’intro privilegiato a ‘Far Beyond The Sun’ sin dai tempi di Leningrado. Il volume della tastiera è praticamente inesistente, ed è un peccato perché le partiture di Jens Johansson erano parte integrante di quel corpus di cui sopra, ma anche questo aspetto è compreso nel pacchetto “prendere o lasciare”, perciò ormai non ci si fa neanche più caso.
Così, si passa dall’esecuzione integrale di ‘Evil Eye’ a un accenno di ‘The Seventh Sign’ che fa comunque tremare i polsi, dall’omaggio ai grandi del rock con con ‘Smoke on the Water’, ‘Red House’ e l’assolo di ‘Bohemian Rhapsody’ all’omaggio ai titani della classica che vede convivere l’Estate di Vivaldi con la celebre Toccata e Fuga in Re minore e con l’Aria sulla Quarta Corda di Bach, fino ai propri contributi alla “causa”: la ‘Icarus Dream Fanfare’, la ‘Fugue’ e il dolcissimo ‘Prelude to April’, il secondo tributo implicito alla gentile consorte dopo la chicca estratta da ‘Facing the Animal’. Il tutto sotto un’egida noir di cui il Nostro è sempre stato gran maestro cerimoniere, al netto di alcune pessime scelte di effetti durante le improvvisazioni per cui i convenuti hanno rischiato uno o due timpani, così, tanto per gradire. Eppure, il tema di ‘Trilogy Suite’, l’esecuzione di ‘You don’t Remember, I’ll never Forget’ e l’introduzione acustica della conclusiva ‘Black Star’ annunciata dagli estratti del Concerto di cui sopra hanno davvero emozionato i presenti, in un modo unico e inimitabile.
La conclusione è ancora una volta quella più semplice e scontata, a mo’ di rasoio di Occam: Malmsteen è un artista senza compromessi, e le riflessioni su quanto sarebbe bello ascoltare i suoi pezzi dall’inizio alla fine lasciano (per lui) il tempo che trovano, esattamente come le critiche mosse al Bob Dylan elettrificato e al Lou Reed sperimentatore di ‘Metal Machine Music’. A noi magari piace in un modo, a loro piace diversamente, ma il timone ce l’hanno (o ce l’avevano) loro, ed è giusto così. Resta la soddisfazione per aver potuto assistere a quello che verrà ricordato come un tour storico, potete scommetterci, nonché un vero e proprio tributo all’Italia, Paese a cui il Nostro è notoriamente molto legato. Che poi sia più legato a quanto costituisce un “brand” italiano che all’Italia in sé, è un interrogativo sterile in questa sede… per una volta, diciamolo: i detrattori hanno assaggiato l’acciaio di un vichingo che va in singolar tenzone ogni volta che sale su un palco, armato di plettri calciati a destra a manca e Stratocaster roteanti sugli accordi di quinta.

 

 

 

Galleria fotografica a cura di Luigi Balzano

Leggi di più su: Yngwie Malmsteen.