Metal Church @ Alchemica Music Club – Bologna, 12 ottobre 2023
Il 17/10/2023, di Francesco Faniello.
Per una volta, taglio corto in apertura: a giudicare dalle T-shirt e da tutto il resto, di scettici all’Alchemica ce n’erano pochi, ma anche se ve ne fossero stati sarebbero stati immediatamente smentiti. I Metal Church del 2023 sono una vera e propria macchina da guerra, un concerto che vale la pena di vedere anche e soprattutto per avere un assaggio accurato di quello che è lo US Metal, la versione del power di Oltreoceano che lungi dall’indulgere in barocchismi come il suo omologo europeo sferraglia a tutto campo con bordate al limite dello speed/thrash per poi disegnare atmosfere a fosche tinte in una riproposizione del verbo HM che è specificatamente quello dei cugini statunitensi. Così, i Metal Church sono stati in grado di mettere una seria ipoteca sul concetto stesso di live, setlist, tenuta del palco e coinvolgimento del pubblico, una di quelle abilità che di certo ci si attende dagli autori di almeno due (se non tre) dischi epocali, ma che non è affatto scontata a tanti anni di distanza.
Ma partiamo dall’inizio: la Morrigan ha voluto fare le cose in grande e prevedere ben tre opener al concerto del quintetto di Seattle. Tocca ai molisani Hole In the Frame aprire le danze, e lo fanno ben presto con un setting luci molto scarno che se possibile focalizza ancor più l’attenzione su una proposta che oscilla tra groove e passaggi dal sapore Nu/prog. I singoli ‘Hole in the Frame’ e ‘Insomnia Pt. 2’, poi, parlano da soli. Apparentemente sono la band meno amalgamata al resto del lotto, anche se determinate atmosfere richiamano la scuola americana più di quanto lo facciano i due combo successivi…
È tempo di Scala Mercalli, è tempo di dar fuoco alle polveri! Nonostante sia la prima volta che ho l’occasione di vedere dal vivo la compagine marchigiana, sapevo cosa attendermi: serrato heavy metal di matrice britannica con quei riferimenti storici che altrove hanno fatto la fortuna dei Sabaton ma che anche qui non mancano di conferire al quintetto un blasone di riconoscibilità che inizia progressivamente a farsi strada. Se ‘Ace of Aces’ fà bella mostra di sé con il suo tiro speed/classic e la scelta della doppia lingua (italiano e inglese) per celebrare le gesta di Baracca, è ‘The Last Defence’ a infiammare gli animi risorgimentali, e occhio che qui non si tratta di battaglie tra eserciti potenti pronti a spartirsi o accaparrarsi tutto il bottino, ma di uno dei tanti momenti di strenua resistenza che dovrebbe animare i sentimenti migliori di un Paese che invece ne ha scarsamente onorato il lascito. La coppia di chitarre dice la sua con scambi di chitarre dal sapore maideniano ma dal profondo taglio priestiano che animano ‘Never Surrender’, e tuttavia è Christian Bartolacci il vero mattatore della serata, sfoggiando una timbrica magari non “facile” da assimilare per tutti gli ascoltatori ma di sicura efficacia nei passaggi più alti. Chiusura affidata alla versione di Mameli presente su ‘Indipendence’, con un leggero déjà-vu per una scelta simile operata dai Rosae Crucis un po’ di anni orsono. Personalmente avrei sperato nell’inclusione in scaletta di ‘The 1000 (Calatafimi Battle)’ ma magari sarà per la prossima, no?
L’ultimo gruppo italiano collocato come apripista ai maestri a stelle e strisce non ha certo bisogno di presentazioni, giocando persino in casa a Bologna: si tratta degli storici Crying Steel, ricomparsi sulle scene da relativamente poco tempo dopo aver vissuto un revival tutto sommato proficuo anni orsono, che li aveva portati prima nel bill del British Steel Fest all’epoca della storica calata di Angel Witch, Diamond Head, Girlschool, Demon e Grim Reaper in città, e poi a pubblicare il granitico ‘Time Stands Steel’, in grado di competere con (se non superare) la storica produzione anni ’80 del combo felsineo. E non è un caso se l’attacco è qui affidato a ‘Defender’ e ‘Shutdown’, due estratti dal disco relativamente (10 anni nella storia dell’HM sono ormai un soffio, se si viene dall’epoca d’oro…). L’estratto successivo ‘Raptor’ ha il pregio dimettere in evidenza l’abilità del nuovo singer Alessandro Rubino, bravo a districarsi su partiture non facili e spesso di registro alto, ma purtroppo l’intera esibizione è inficiata da un sound che rende poco distinguibili i vari strumenti, al netto delle scelte efficaci di scaletta che avevano privilegiato la produzione più recente all’inizio, per concludere con quella più anthemica. C’è comunque spazio per un pezzo nuovo, ‘Hell is not a Bad Place’ (“to be!”, ha aggiunto con la massima naturalezza un astante…) fino alla conclusione affidata alla storica ‘Thundergods’.
Bene, è finalmente tempo di entrare nella Chiesa del Metallo e l’arrivo dei cinque Metal Church sul palco dell’Alchemica è accolto da un boato di ottimo auspicio, con la band che non tradirà le tante aspettative riposte. D’altronde, è subito chiaro che il nuovo arrivato dietro il microfono Marc Lopes è assolutamente perfetto per la parte: incedere minaccioso, una fisicità alla David Wayne (al netto del ciuffo chiaro reminiscente di Alex Skolnick!) e soprattutto una voce abrasiva che si incastona alla perfezione sia nei primi due album che negli innesti in scaletta del periodo con Mike Howe, sia su ‘Pick a God and Prey’, unico estratto dall’ultimissmo ‘Congregation of Annihilation’. In sostanza, il frontman perfetto per una setlist perfetta, che pesca a piene mani dai capolavori ‘Metal Church’ e ‘The Dark’, affidando l’apertura alla coppia d’attacco ‘Ton of Bricks’/’Start The Fire’, con ‘Gods of Wrath’ a seguire poco dopo e a mettere subito in chiaro che siamo dinanzi a un’esibizione con i fiocchi, con la voce di Lopes a rappresentare la ciliegina sulla torta delle partiture disegnate dalla coppia Van Zandt/Vanderhoof. Proprio a Kurdt, mastermind e gigante buono che troneggia sulla sinistra del palco, è affidato il compito di ricordare i compagni di band scomparsi (Wayne, Howe e il batterista Arrington) prima che l’incedere tutto sommato scanzonato di ‘Fake Healer’ abbia il pregio di spezzare le atmosfere plumbee e favorire l’interazione con il pubblico. Eppure, i Metal Church ci piacciono soprattutto oscuri (come il titolo del loro secondo album sottolinea), sia che indulgano sui tempi schiacciasassi di ‘Burial At Sea’ sia che sfoderino tutta la follia di cui è capace lo US Metal con ‘Psycho’, per poi lanciarsi nei cervellotici arpeggi di una versione di ‘Badlands’ da incorniciare, non prima di aver commosso il pubblico con l’intensa esecuzione di ‘Watch The Children Pray’, che tutto sommato mi ha strappato un sorriso al ricordo di quando il rudimentale videoclip faceva capolino su Headbangers Ball… siamo già alle note conclusive e ho ormai da tempo messo via il taccuino, perché sula rapidissima ‘Hitman’, la marziale ‘Beyond The Black’ e l’anthemica ‘Metal Church’ c’è davvero poco da commentare: lo fa per noi il buon Lopes, ricordando di quando ascoltava il primo, seminale album e non avrebbe mai immaginato di condividere un giorno il palco con i propri beniamini. Bentornati, Metal Church!