Frantic Fest @ Francavilla al Mare (CH), Tikitaka Village, 17/18/19 agosto 2023
Il 04/09/2023, di Francesco Faniello.
I nostri lettori più affezionati ricorderanno che nel 2022 la gioiosa macchina da guerra di Metal Hammer Italia aveva marcato il territorio nelle lande abruzzesi del Frantic Fest con grande entusiasmo e soprattutto carica di nuovi spunti per gli ascolti e le realtà da tenere d’occhio nei mesi e negli anni a venire. Potevamo dunque perderci l’ennesimo appuntamento con questa vera e propria fucina di suoni freschi e al passo coi tempi della galassia che ancora oggi possiamo definire “alternative”? Non potevamo, no di certo: ecco dunque che il sottoscritto e il direttore Alex Ventriglia si sono dati appuntamento a Francavilla al Mare (o “al Male”, se preferite) per offrirvi ancora una volta le cronache di quello che si conferma essere uno dei festival più caldi (non solo per le temperature!) e interessanti del panorama nazionale e non. Se poi pensate a ogni valore aggiunto a partire dal cibo per giungere al calore umano e all’organizzazione sempre più agguerrita, non ci sono dubbi: le vacanze estive non possono trascurare un appuntamento pressoché obbligatorio… anche e soprattutto per vedere noi di Metal Hammer Italia all’azione!
Day 1
Non potevo ricevere accoglienza migliore dell’evil metal degli Slaughter Messiah, thrash/blacksters belgi con un occhio alla Svezia anziché ai riconosciutissimi modelli italo/svizzeri di Necrodeath e Hellhammer; poco male, perché la loro esibizione scorre via come una scheggia e ci prepara alla prima, vera bomba del Frantic, i Calligram! Il combo internazionale di stanza a Londra e con voce tutta italiana ha una chiarissima attitudine HC, con una parossistica risoluzione black/screamo che non lascia prigionieri. Occhio al loro nuovissimo ‘Position Momentum’, ma anche alle loro esibizioni live, un rito affranto e straniante di stop’n’go, con un range che va dal doom al black e le corde della Les Paul del chitarrista che si fanno ora tetre campane al rintocco, ora macchine strappabudella. E poi… la camicia hawaiana del bassista dice tutto!
“This one sounds like Manowar, and if you don’t like Manowar… fuck off!”: ecco, sono arrivati i Dread Sovereign! Per chi non li conoscesse, oltre a Alan “Nemtheanga” Averill di Primordial e al batterista, l’ensemble è completato da un chitarrista che potrebbe benissimo essere il nipote di Fast Eddie Clarke, con tanto di ciuffo ribelle sulle tempie, sorriso plastico amplificato dal Jack (no, non quello della chitarra) e pedale del wah costantemente acceso. Un sound sospeso tra la band madre e i Darkthrone, uno spirito guascone quasi da cover band (e infatti erano tra i protagonisti del warm up del giorno prima!), ma con il tocco giusto. Oltre all’epic, ci mettiamo dentro i Venom, i Saint Vitus e persino i nostrani Contr-Azione – chi li conosce sa a cosa mi riferisco! E il nostro Clarke jr? Un assolo continuo, che si placa appena sulla cover della prima strofa di ‘Black Sabbath’, il giusto culmine di una performance che trova nella luce del sole l’elemento più straniante.
Il tempo di passare sotto il Tent Stage e veniamo accolti dalla proposta senza compromessi degli Hierophant, vicina se vogliamo a certi periodi degli Unleashed e a quel death a testa bassa senza variazioni, con il rischio di apparire canonico.
La compattezza non è acqua, diremmo per gli Harakiri for the Sky parafrasando il noto adagio: ecco dunque che il quintetto si rende protagonista di una performance con i fiocchi, “danzereccia” al punto giusto ma con gran gusto negli intrecci di chitarra. Il culmine è sicuramente ‘Fire, walk with me’: il pubblico apprezza, loro pure, dietro grandi sorrisi.
Difficile spiegare a parole quel sapore antico, quella spiritualità remota e arcana che aleggia in uno show degli Inchiuvatu. La prima impressione, condivisa, è che Agghiastru e soci si presentino anche meglio che all’epoca del dirompente esordio, con la rilettura di un capolavoro imprescindibile come è appunto ‘Addisiu’. Prova ne è l’esecuzione di ‘Inchiuvatu’, portata avanti con la giusta convinzione grazie a una band compatta, complice anche il Tent Stage che garantisce la giusta atmosfera raccolta all’ensemble. Come ho già detto, il tutto mi ha convinto anche più della storica esibizione all’Agglutination di più di vent’anni orsono, tanto che il progetto si mostra al passo coi tempi laddove all’epoca era avanti anni luce; un paradosso temporale che si dispiega nella macabra danza guidata dalle due tastiere, quasi a riportare alla memoria i fasti iniziali dei Covenant di Hellhammer! Il set si fa teatrale, anzi dialogico, con Nea che ne è perno pirandelliano incarnando ora l’anziano, ora il pianista tutto lustrini, forte di una lingua ancestrale che è da sola la risposta a un gigantesco interrogativo cosmico. A parte tutto… sono solo io ad aver notato un incredibile somiglianza tra Nea Agghiastru e A.C. Wild?
Dalla Magna Grecia alla Penisola Patria il passo è molto, molto breve e le navi puntano decisamente all’Ellade: che i Rotting Christ indulgano sulla loro tradizione o sul trono del loro voivodato dell’extreme metal, il fascino che si percepisce al loro cospetto è indiscusso. ‘Demonon Vrosis’ sembra accompagnare Ulisse e i suoi lontano dall’isola di Polifemo, ma attraverso le moderne declinazioni del r’n’r e solcando l’ennesima volta l’amato Mediterraneo, è sempre ‘Non Serviam’ il motto dei motti, quello che lega un Sakis Tolis sempre sanguigno e credibile al suo pubblico, cementato se possibile ancor più da un lavoro eccelso di lead guitar. Il resto lo fanno ‘Grandis Spiritus Diavolos’, che scorre via come il sangue di fantomasiana memoria (ricordate ‘The Omen’?) e i cori a profusione assicurati dal pubblico su ‘The Raven’. Da incorniciare, con la totale approvazione della caporedattrice più filoellenica che ci sia…
Day 2
Sulla carta era il mio giorno preferito, e non mi sbagliavo: non solo Asphyx e I Am Morbid, ma anche un paio di sorprese che andremo a scoprire in queste righe e che hanno infuso ancora più fiducia nel futuro del nostro genere, rinnovato da nuove leve e forze fresche, con un occhio alla tradizione e un altro all’avvenire…
Giungiamo all’inizio della performance dei Party Cannon, vero e proprio reboot del brutal fatto di chitarre senza paletta (una su due, per la verità, ma basta e avanza a rendere l’idea) ma anche di sana ultraviolenza. Il pubblico gradisce passando dal pogo alle flessioni a comando, loro pure: tra stop’n’go, rallentamenti e riffing intricato, portano il risultato a casa al netto del proliferare di gonfiabili da mare sopra e sotto il palco e di un batterista che inizio a pensare che abbia le versioni a 8 bit in cuffia, per poter seguire davvero il tutto in tempo reale.
Intanto i Devoid of Thought vincono tutto da quel palco raccolto che è il Tent Stage con un sound marcissimo e claustrofobico denso di variazioni che non fanno altro che rimarcare la maestria tecnica del quartetto; ma la vera sorpresa sono i Gatecreeper: l’HM2 aleggia sin da check, a preannunciare una formula convintissima e legata a doppia mandata al death scandinavo, nonostante il passaporto statunitense dei Nostri. Grave, Unleashed ed Entombed di epoca ‘Clandestine’ riaffiorano sulle assi del Main Stage, con la T-shirt degli Exciter in bella mostra a strizzare l’occhio ai veterani…
E a proposito di veterani, come non annoverare nella categoria uno dei perni del secondo giorno del Frantic? Il tempo di un passaggio al cospetto delle complesse partiture death degli Artificial Brain, e siamo al cospetto di Martin Van Drunen e i suoi olandesi volanti: gli Asphyx tritano le ossa dei convenuti con la maestria dei chirurghi navigati, distribuendo in parti uguali sezioni lisergiche e violenza iconoclasta, con una scaletta che spazia sapientemente tra il vecchio e il nuovo, tra ‘Last one on Earth’ e ‘Botox Implosion’, passando per la schiacciasassi ‘Deathhammer’. Poi, la nostra stanchezza si fa sentire e iniziamo a trovare improbabili quanto esilaranti analogie tra i riff degli statunitensi e ‘Mirror, mirror’ dei Candlemass, ‘Seasons in the Abyss’ di-chi-sapete-voi e ‘Wherever I May Roam’ degli-altri-che-sapete-voi… sarà ancora l’influenza del set dei Plakkaggio dell’anno scorso?
Eccoci dunque alla seconda sorpresa del secondo giorno, i Capra. Tanta era la curiosità per un combo giovane come il loro e già sotto l’ala protettrice della Metal Blade, ma al cospetto del loro set è stato tutto immediatamente e maledettamente chiaro. Non è solo un combo di HC americano al passo coi tempi e quindi distante anni luce dalla concezione nostrana di “HC americano”, che al massimo è ferma al 1994: i quattro sono una vera e propria forza della natura che combina il modello torcibudella dei Converge con il sound quadrato dei Power Trip (non a caso il chitarrista Tayler Harper fa sfoggio di una loro maglietta). A leggere le mie parole, si potrebbe tremare al pensiero di un suono sin troppo monolitico, ma nulla potrebbe essere più distante dalla realtà: i solchi virtuali del loro debut ‘In Transmission’ e soprattutto la loro performance restituiscono l’immagine di un progetto dinamico e pronto a raggiungere qualsiasi obiettivo in futuro, forti come sono di una frontwoman incazzata e convincente come Crow Lotus. Il proclama “We’re Capra from Lafayette, Louisiana, USA” rimarrà a lungo nelle nostre orecchie e il loro imminente full length ‘Errors’ si preannuncia una bomba, ecco tutto.
Pagato il giusto e lungimirante tributo al nuovo che avanza inesorabile, non ci resta che salire sulle spalle dei Giganti e giungere al cospetto degli Dei: mentirei spudoratamente se non vi dicessi che l’attrazione principale del Frantic 2023 erano per me gli I Am Morbid con il loro trentennale di ‘Covenant’, e fortunatamente le aspettative sono state ampiamente realizzate. David Vincent sarebbe seduto sul trono virtuale della versione americana del death metal da praticamente un trentennio, eppure è lì tra noi a snocciolare una lezione a colpi di dischi in ordine alfabetico, qui coadiuvato da una coppia di chitarristi dal tocco leggermente malmsteeniano ma maledettamente in grado di riportare in auge le partiture del sommo Azagthoth, nonché dal vero asso della manica del tour, il redivivo Pete Sandoval (a quanto pare stanno tornando anche i Terrorizer, si salvi chi può!). Ora, possiamo aprire un dibattito fino all’alba su quanto il prodigio salvadoregno abbia mostrato qualche sbavatura nell’esecuzione dei passaggi più veloci dei classici dei Morbid Angel, senza però dimenticare di aver dinanzi l’uomo che ha praticamente inventato quello stile, il che gli conferisce un’importanza pari a quella che ha Mick Harris al di qua dell’oceano. Come diceva il mio maestro anni e anni orsono, “è perfettamente legittimo che Andrés Segovia si fermi nel bel mezzo dell’esecuzione. Quello che conta è che non lo faccia tu”. E poi, non c’è spazio per retropensieri al cospetto di un’opener come ‘Immortal Rites’, seguita da ‘Fall from Grace’, dalla sulfurea ‘Blessed are the Sick’, dalla micidiale ‘Rapture’, da ‘Pain Divine’ e ‘Vengeance is Mine’, con Vincent che cita l’Impero Romano su ‘Lions Den’ (un must di molti statunitensi, strizzare l’occhiolino ai loro mentori da queste parti), ci sciorina la cavernosa ‘Sworn to the Black’ per poi calare l’asso con ‘Maze of Torment’, che scatena il boato del pubblico e il circle pit definitivo. Fa effettivamente strano che la coppia di axemen di cui sopra indulga sui piruli neoclassici che introducono (Frantic Fest, we will) ‘Dominate’, ma è la presenza della limacciosa ‘Where the Slime Live’ a mandare un po’ tutti in visibilio, laddove scattano persino i fuochi d’artificio per via di una festa in corso a Francavilla… che dire, non una coincidenza non da poco! Una cosa è certa, il death dei primi quattro dischi dei Morbid Angel ha per davvero qualcosa di liturgico e ‘God of Emptiness’ è lì a dimostrarcelo.
Dopo esserci inginocchiati professando fede imperitura, ai Fulci tocca un compito arduo che farebbe soccombere giganti ben più navigati, ma i Nostri non sembrano scalfiti dal peso, rannicchiati sul Tent Stage e forti di una commistione audiovisiva tra la brutalità della proposta musicale e quella della grande tradizione cinematografica del Maestro di cui portano il nome. Non esattamente la mia tazza di tè, men che mai in questo momento post-Morbid, ma l’onore delle armi non glielo toglie nessuno.
Day 3
Ultimo giorno, ultimo giro, ultima corsa! Il terzo giorno è forse quello più vicino alle sonorità spurie che tanto ci avevano attirato nell’edizione precedente, con molte chicche e sorprese. I convenuti all’esibizione dei Tons avranno come di consueto il ricordo di un pugno in faccia dalla velocità della moviola ma dal peso di un macigno, come si conviene a un progetto che aveva già dato ampia prova di sé in occasione dell’Heavy Psych di quest’anno a Bologna. Vai così. Tocca ai Conan, autori di un’esibizione monolitica – anche troppo, rispetto alle aspettative – ma impreziosita dall’imperdibile live painting di Welt, un artista a tutto tondo che abbiamo spesso seguito da vicino…
Tutti al Tent Stage, messo a ferro e fuoco dagli Hyperwulff con il loro noise urlato nella migliore tradizione, che come sempre trova nella dimensione live la sua realizzazione perfetta, con il duo che alterna sapientemente momenti di puro rumorismo all’alienazione voivodiana di fine ’90/inizio 2000. Non è un caso se i loro documenti rivelano la provenienza dal pianeta Erion, la cui connessione è ricercata alternando il lavoro agli strumenti canonici a quello ai banchi dei sequencer, mentre il metallo più nero scorre nei generosi rallentamenti. Sicuramente da riscoprire in studio (non a caso ho recuperato la cassetta di ‘Volume Two: The Divide’!), pescando a piene mani tra i tre dischi sinora pubblicati – non solo (ma anche) perché Nick sfoggia una maglietta degli Ancient Cult nel soundcheck, prima di indossare la tuta d’ordinanza!
Siamo al Main Stage ed è il novantesimo minuto, l’ora dei Booze & Glory. Il coloratissimo copione Oi! è servito, con basso in evidenza e grandi scelte melodiche che li accostano in più punti ai NOFX, fino al tributo ai loro beniamini del West Ham United con ‘Three Points’ – e siamo sicuri che anche il buon Steve Harris sorride sornione, da qualche parte.
È l’ora dell’hardcore americano, monolitico e tagliente, metallizzato e plumbeo: quello stesso sound che imperversava nel CBGB negli anni ’80 e ’90 e che aveva fatto innamorare John Zorn all’epoca di Naked City e Painkiller, rivive al Frantic per mano di Straight Opposition e Integrity, Italia e USA a confronto, stesso vivaio di influenze nonostante le apparenti differenze di calibro. I pescaresi, che avevo intercettato da vicino all’epoca di ‘The Fury From the Coast’, giocano praticamente in casa forti di un nuovo e recente capitolo discografico come ‘Path Of Separation’, le cui schegge fanno bella mostra di sé al Tent Stage.
Ecco, magari questa declinazione dell’HC/punk non è esattamente la mia preferita e sarà anche questo a non consentirmi un giudizio trionfalistico sugli Integrity. Riffoni, inserti sempre più marcati di metallo sui tanti mid tempo, citazioni del tema di “Top Gun” e Jeff Hanneman che benedice benevolo; personalmente, sebbene Dwid Hellion ci metta l’anima, la proposta appare un po’ datata e trae grande beneficio da un’intensa versione di ‘Hybrid Moments’ dei Misfits cantata a squarciagola dai tanti convenuti – piccola nota a margine: cosa ci perdeva il buon Doyle a regalarci l’anno scorso un estratto, uno solo, dalla discografia della sua band madre, una mossa che avrebbe risollevato di molto le sorti della sua scaletta? Fine della nota a margine…
Mi avevano detto di andare a sentire questi Master Boot Record e io non sono nessuno per rifiutare un invito dalle persone di cui mi fido: certo, non ho esattamente il passato da nerd evocato dalla poetica pro-gaming su floppy disk del trio, ma non posso non apprezzare l’amarcord di un’altra proposta multimediale che combina partiture di metal virtuosistico nello stile dei Cacophony o di The Great Kat a immagini tratte da “Monkey Island” e “Alone in the Dark”. Un plauso al funambolico Edoardo Taddei, vero asso della manica del progetto; per il resto, geniale l’idea del lancio di floppy a fine set a opera del mastermind Victor Love, in luogo del canonico “lancio di plettri”.
Siamo decisamente verso la fine, sebbene ci siano stati riservati due pesi massimi indiscussi (al di là dei gusti) a fine scaletta. Prima tocca ai Downset, pionieri dell’HC/rap/groove degli anni ’90 che chiunque abbia consumato ‘Rage Against The Machine’ ricorderà molto bene. Eh sì, perché come spesso capita (Exodus ed Exhorder ne sono un esempio, su altri lidi musicali) i precursori giungono all’esordio dopo che chi li ha seguiti ha preso il treno giusto al momento giusto, ma non è questa la sede per ulteriori considerazioni “storiche”. Dirò solo che il combo vedeva dietro al microfono il nuovo innesto Neil Roamer in luogo dello storico Ray Oropeza, ma che il risultato è stato comunque eccelso, con il singer che era spesso tra il pubblico a dimostrazione di un’attitudine che non si compra un tanto al chilo al mercato. Fa strano sentire un assolo di batteria in un set come il loro, ma la conclusione è che dopo che il Frantic ha sdoganato Slayer e Malmsteen come influenze dietro le quinte dei tanti gruppi convenuti, ora tocca ai Deep Purple! Scherzi a parte, il momento culminante è stata ovviamente l’esecuzione di ‘Anger’ dall’omonimo esordio… avrei sfidato chiunque a rimanere impassibile!
Tocca a Nick Olivieri e ai suoi Mondo Generator chiudere una tre giorni gloriosa e andata oltre le più rosee aspettative dal punto di vista artistico: il Nostro lo fa con un set ancora più muscolare del solito, tra cui spiccano ‘Fuck It’ e altri estratti memori della micidiale lezione dei Bad Brains miscelata a quella di chi il genere “desertico” lo ha praticamente inventato, ma che trova il suo coronamento nella cover di ‘Green Machine’ dei suoi Kyuss, vero e proprio inno generazionale per chi è cresciuto a pane, grunge e stoner. Non ci sono dubbi, continueremo a frequentare Francavilla al Male per ancora molto tempo, dato che è qui che le suggestioni musicali più scoppiettanti del passato, del presente e (soprattutto) del futuro segnano il loro passaggio.