Dirty Honey + The Wild Things @ Monk, Roma, 15 febbraio 2023
Il 24/02/2023, di Alex Ventriglia.
Thelonius Monk, pianista e compositore statunitense, singolare ed estroso sia come personaggio che come jazzista (il suo stile fatto di improvvisazione e puro genio musicale ha segnato indelebilmente il jazz moderno), avrebbe senz’altro amato i californiani Dirty Honey e la loro bollente esibizione tenuta dentro il suggestivo club in zona Casalbertone che porta il suo illustre cognome. Dirty Honey che, dopo aver stregato gli stipatissimi Magazzini Generali di Milano la sera prima, hanno bissato su Roma con un sold-out che la dice lunga sulla reale forza effettiva di una band che, anche in Italia, può contare su una fan base agguerrita e fedele, di quelle che non mollano neanche un centimetro. Ma andiamo per gradi, perché a coronare una serata direi perfetta per chiunque si professi cultore del rock’n’roll meglio se ruvido e repentino, ci han pensato anche i supporter The Wild Things, quartetto londinese i cui punti nevralgici sono la frontgirl Sydney Rae White e il chitarrista Rob Kendrick che, leggenda vuole, pare si siano conosciuti e innamorati sul set di ‘Quadrophenia’, il musical dedicato al mitico capolavoro griffato The Who, al cui casting ha lavorato nientemeno che il nume ispirativo Pete Townshend, uno che la Storia l’ha fatta sul serio, e che dei Wild Things si è dichiarato da subito fan sfegatato.
Questo giusto per indicare le coordinate musicali verso cui simpatizzano i quattro, che tra gli “eroi” riconosciuti possono inoltre sfoggiare The Pretenders, Joan Jett, 4 Non Blondes o i Green Day più edulcorati. Nulla di trascendentale, per carità, se non una botta di adrenalina ben assestata e che ha messo in circolo quelle endorfine che tanto bene fanno alla salute e all’umore, lungo un set divertente e spensierato, vale a dire una mezza dozzina di brani che ha funto da riassunto generale delle loro due release discografiche (‘You’re Really Something’, debut-album del 2018, e l’imminente ‘Afterglow’, supervisionato appunto da Pete Townshend), un assortimento da cui estrarre la dinamica ‘Only Attraction’, ‘Skin & Bones’, forse la migliore del lotto, oppure ‘Heaven Knows’, con la cantante Sydney, mullet biondo e brillantini sparsi ovunque, a darci dentro con mordente e passione. Come appetizer in virtù della portata principale, direi un gruppo delizioso, ma sappiamo bene che le aspettative più alte erano tutte per gli headliner, i Dirty Honey che, trionfalmente, stanno avanzando in tutta Europa con il loro California Dreamin’ Tour collezionando un successo dietro l’altro, e in maniera tanto sfacciata e clamorosa che io personalmente non ricordo tanti casi analoghi, se poi vogliamo parlare di concreto e non di bluff patinati (Greta who?).
Fatto sta che l’opener ‘Gypsy’ ha immediatamente rotto gli indugi, facendo scattare violentemente il pubblico che, specie tra le prime fila, si è presentato pronto a rispondere, colpo su colpo, a un gruppo che ama puntare al sodo, e le fiammate iniziali lo hanno ampiamente dimostrato. Marc LaBelle è un frontman scafato, bravissimo vocalmente e in gamba anche nell’intrattenere la folla, sfoggiando un italiano non banale e attrezzato il giusto per far colpo, affiancato da una formazione che funziona a pieno regime, oliata a dovere specie da un chitarrista del calibro e dell’impatto di John Notto, quasi una controfigura di Steve Marriott sia come look che per capacità tecniche. E sono proprio gli inglesi Humble Pie, una delle band che i Dirty Honey possono ricordare maggiormente, nel lotto delle influenze che ne hanno determinato il background se la giocano forse alla pari con i primissimi Aerosmith, quelli più rhythm’n’blues, folli amanti della british invasion, esuberanti con ‘Mama Kin’ e con la cover di ‘Train Kept A-Rollin’, giusto per buttare giù qualche esempio spicciolo figurandosi il complesso di Boston. Nella carrellata delle canzoni materializzate a Roma, grandissima presa hanno fatto ‘Heartbreaker’, dedicata a tutte le fanciulle presenti al Monk, ‘The Wire’ e ‘Scars’, ad appannaggio quasi totale della chitarra di Notto, per non dire di ‘Last Child’, remake appunto di un vecchio classico firmato da Joe Perry & Co. Soleggiati e positivi i ritmi di ‘No Warning’, ad introdurre l’appassionata ballad ‘Down The Road’ nella quale il singer ha letteralmente fatto vibrare ogni cuore, accompagnato dall’onnipresente riffing di Notto, autentico valore aggiunto, come avranno capito ormai anche i sassi…
C’è stato spazio anche per due brani nuovi, ‘Ride On’ e ‘Dirty Mind’, quest’ultimo forse il più convincente, e l’inaspettato omaggio a Prince, con una ‘Let’s Go Crazy’ che di fatto ha lanciato lo sprint finale, affidato soprattutto a ‘California Dreamin’ e ‘When I’m Gone’, ormai classici assoluti dei Dirty Honey. I quali si sono congedati con ‘Rolling 7s’, un’altra di quelle canzoni che, seppur non contengano niente di nuovo, mantengono comunque il fascino immutato e il potere di smuovere le masse. Chi dice il contrario, racconta solo fregnacce, ci troviamo a Roma e la diciamo in romanesco…